Greenpeace, mezzo secolo di ecopacifismo: “Ora la lotta è per il clima”

Intervista a Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia, in occasione dell'anniversario della fondazione della ong. All'epoca la battaglia era per un mondo più giusto, oggi è per non estinguerci. Una sfida ardua, vista l'inutilità dell'Accordo di Parigi: "Con i quasi 50 gradi registrati ad agosto, quella che sta finendo rischia di essere l'estate più fresca dei prossimi anni".

Daniele Nalbone

Un ingegnere, Jim Bohlen. Un avvocato, Irving Stowe. Un marinaio, Paul Cote. Tre giornalisti, Robert Hunter del Vancouver Sun, Ben Metcalfe della Canadian Broadcasting Corporation e Bob Cummings del Georgia Strait. Con loro, altri sei volontari. Il 15 settembre 1971 a bordo di una vecchia barca da pesca, la Phyllis Cormack, salparono da Vancouver – Canada – con l’obiettivo di impedire l’esplosione di una bomba nucleare ad Amchitka, un’isola nell’oceano Pacifico settentrionale vicino alla costa dell’Alaska. Ancora non potevano saperlo, ma quello sarebbe diventato il momento in cui nacque, di fatto, Greenpeace. Da allora sono trascorsi cinquant’anni. Per l’occasione, abbiamo intervistato Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia.

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L’equipaggio di Greenpeace, 22 settembre 1971

Come racconterebbe, in poche parole, la nascita di Greenpeace?
Cinquant’anni di Greenpeace nel mondo, e trentacinque di Greenpeace in Italia, festeggiati a luglio, sono un pezzo di storia. In questo mezzo secolo quello che non si è mai perso è il messaggio originario di quei volontari che tra il 1970 e il 1971, senza saperlo, avrebbero tracciato una linea: in piena guerra del Vietnam, in un Canada rifugio di obiettori americani, con un fermento che arrivava dal mondo della musica, della cultura, del teatro, della letteratura, con il mondo in preda al terrore atomico, persone molto diverse tra loro – giornalisti e quaccheri, ex militari e avvocati, docenti e studenti – unirono la difesa dell’ambiente e il pacifismo. Da qui, Greenpeace. Un nome che è un messaggio, quasi un programma. Un nome che è stato quasi inevitabile adottare in un’Italia, quella che usciva dai movimenti degli anni Settanta, in cui il movimento non violento camminava insieme all’ecopacifismo, in cui docenti di fisica erano in strada al fianco dei preti “antinucleari” di Montalto di Castro. Ecco, Greenpeace è stata prima di tutto un’intuizione.

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Azione contro una baleniera sovietica, 1 luglio 1976

Cosa c’è nella Greenpeace di oggi di quello spirito che ha portato alla nascita dell’organizzazione, mezzo secolo fa?
L’evento politico più significativo degli ultimi anni – temo inutile nei suoi effetti, ma questo è un altro discorso – è l’Accordo di Parigi del 2015 e il riconoscimento del clima come questione prioritaria a livello mondiale. Un accordo che è, di fatto, non solo per l’ambiente ma anche per la pace perché, oggi, il rischio di una guerra nucleare è ancora alto, così come lo è il rischio di un conflitto globale per le risorse. Ma, di fatto, l’Accordo di Parigi è – sarebbe – la chiusura di un’era, quella del petrolio, e l’inizio di un’altra, quella del solare. Ebbene, questo accordo mette dentro i principi di Greenpeace e li rende programma politico mondiale: difesa dell’ambiente e impegno per la pace.
Al tempo stesso Greenpeace è cambiata molto: l’ufficio italiano, aperto nel 1986, nasce per aprire una finestra dell’organizzazione nel Mediterraneo e continuare il processo di “deanglosassonizzazione” dell’organizzazione. La Greenpeace di oggi non è più quella di cinquant’anni fa, in primis perché sono diverse le persone che la compongono: siamo presenti in Cina, in India, in Turchia, in Sudamerica. Greenpeace è un’organizzazione globale in piena crisi della globalizzazione. E oggi che viviamo un mondo multipolare possiamo dire di essere in una situazione privilegiata, potendo contare su una visione abbastanza precisa di quello che avviene in ogni angolo del mondo. Cinquant’anni fa sulla Phyllis Cormack c’erano dodici volontari. Oggi sparsi nel mondo ci sono quarantamila attivisti, quasi quattromila persone a comporre lo staff, oltre tre milioni di donatori, più di 55 milioni di persone che seguono Greenpeace sui social. L’idea all’origine di tutto, però, è rimasta la stessa: azione diretta e non violenta. Non violenza attiva che si differenzia dalla non violenza della tradizione italiana, quella legata agli scioperi della fame dei Radicali, di Aldo Capitini. La non violenza di Greenpeace mette a rischio, fisico e legale, i suoi attivisti.

Chi sono gli attivisti di Greenpeace?
Persone pronte, appunto, a rischiare. Perché il rischio è un elemento costitutivo delle nostre campagne: un volontario, un attivista deve essere pronto a finire davanti a un giudice per aver commesso atti di disobbedienza civile, per esempio invadendo una centrale a carbone o un impianto chimico. Fondamentale è quindi la presa di responsabilità dell’azione non violenta come elemento di serietà: davanti a un giudice si devono portare studi, analisi, si deve aprire un dibattito con la controparte. Questo modo di fare attivismo, negli anni, ha prodotto grandi risultati ma ha avuto anche costi molto alti.

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Azione contro una baleniera sovietica, 1 luglio 1976

Un esempio?
Un nome: Fernando Pereira, giovane fotografo portoghese-olandese morto a 35 anni in un’operazione organizzata dai servizi segreti francesi e progettata per affondare la Rainbow Warrior, barca di Greenpeace, nel porto di Auckland. Era lì con l’obiettivo di raggiungere Mururoa e testimoniare gli effetti dei test nucleari francesi. Morì a causa di due esplosioni che squarciarono lo scafo della nave.

Per molti Greenpeace è “solo” assalti alle centrali, a carbone o nucleare, attacchi alle navi baleniere, azioni molto mediatiche. Ma è ovviamente anche molto altro.
La parte dei blitz è sicuramente quella più visibile, più mediatica. Ma ci tengo a ricordare che le campagne di Greenpeace durano anni, ad esempio la nostra battaglia contro il carbone è durata quasi un decennio. L’assalto a un impianto dura pochi minuti. Ma è grazie a questi blitz se riusciamo a coinvolgere l’opinione pubblica. Le azioni dirette sono e resteranno un elemento costitutivo dell’ecopacifismo di Greenpeace. La nostra è una non violenza sfidante, ispirata ai movimenti per i diritti civili di tipo anglosassone.

Oggi, come allora, uno dei temi centrali dell’ambientalismo – o, per dirla “alla Greenpeace” – dell’ecopacifismo è quello della partecipazione giovanile. Come vi state muovendo su questo campo?
Con movimenti come Fridays For Future collaboriamo fin dall’inizio, tanto a livello mondiale che in Italia. Molti dei giovani attivisti, circa un migliaio, che abbiamo qui sono anche dentro FFF. Abbiamo dato vita a stage di formazione alla non violenza, organizzato azioni con loro e partecipato a loro blitz senza portare le nostre bandiere. Reputo il fermento giovanile che si è innescato fin dal primo sciopero di Greta una ventata di freschezza importante. Prima, avevamo il problema opposto: un’età media troppo alta, un ambientalismo invecchiato. Il fermento giovanile e la questione climatica hanno modificato tutto, rendendo le battaglie per l’ambiente letteralmente esistenziali. I giovani ci stanno ponendo una sfida enorme, che parte dai social e arriva al mondo reale. Una sfida che dobbiamo raccogliere e sostenere perché sono i giovani quelli che pagheranno il prezzo più alto della crisi climatica. Noi abbiamo già, in parte, vissuto. I ragazzi non hanno tempo.

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Bob Hunter e Ben Metacalfe, Canada, 1 settembre 1971

Dopo la pubblicazione del rapporto IPCC (qui un’analisi di Giuseppe De Marzo su MicroMega), avete parlato non a caso di “momento decisivo per l’umanità”.
Lo scenario che abbiamo davanti è purtroppo chiaro. Guardando all’Italia, avremo – da Nord a Sud – un pezzo di Paese che finirà sott’acqua, uno destinato a franare, un altro a bruciare. Tutti ci siamo spaventati per il fatto che ad agosto la temperatura ha sfiorato i cinquanta gradi. Ma, con ogni probabilità, questa che sta per finire sarà l’estate più fresca dei prossimi anni.
Tutti, dai media ai politici, non fanno che parlare della necessità di contenere le emissioni come elemento salvifico. Quello che non vogliamo capire è che tutta la battaglia per raggiungere l’obiettivo di limitare al di sotto dei due gradi Celsius il riscaldamento medio globale rispetto al periodo preindustriale non è volta ad avere un mondo migliore, ma è una lotta per evitare il peggio.

Speranze?
Che, alla fine, tutti i grandi della Terra saranno costretti a intervenire. Il Mediterraneo è una bomba a orologeria, basta guardare le temperature raggiunte in questa estate. Gli Usa bruciano. La Russia dovrà fare i conti con il permafrost che si sta sciogliendo. Problema ambientale? No, per Putin è prima di tutto un problema economico: non potranno più estrarre petrolio, i tubi corrono sopra il permafrost e, con lo scioglimento, avranno incidenti petroliferi a catena. Alla fine, saranno tutti costretti a venire a Canossa. La domanda è: quando? Soprattutto: sarà troppo tardi?



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