Guerra (e) atomica

Per ora, l’atomica è fortunatamente un’arma solo retorica. Ma il rischio è più che concreto e impone qualche riflessione sulle nostre scelte.

Michele Martelli

L’incendio provocato dall’attacco russo alla centrale nucleare ucraina di Zaporižžja, la più grande d’Europa, è stato per fortuna domato. Se Zaporižžja fosse esplosa, sarebbe equivalsa a dieci Chernobyl, e le radiazioni avrebbero coperto l’intera Europa. E intanto, come reazione all’aggressione russa all’Ucraina, è ripartita in Occidente la corsa al riarmo; cresce la quantità di armi inviate per sostenere la resistenza ucraina; vola lo stanziamento di nuove spese militari di Nato, Ue, Germania. Con grande tripudio, presumibilmente, dei magnati dell’industria della morte. Sembrano tornare i fantasmi delle due Guerre mondiali. Né è da escludere che riprenda la spirale dei programmi di riarmo nucleare, forse mai interrotto. Non campeggiano sulle prime pagine di stampa-tv titoli cubitali sul rischio di una Terza Guerra Mondiale con armi nucleari? Biden non l’ha ipotizzata come alternativa alle pur durissime sanzioni economico-finanziarie, che sono l’altra faccia della guerra armata? Putin non ha allertato il sistema difensivo nucleare, peraltro, come noto, di per sé sempre in allerta? Dmitry Muratov, premio Nobel per la Pace 2021 e coraggioso antiputiniano giornalista d’inchiesta di “Novaya Gazeta”, dopo aver espresso «lutto» «dolore e vergogna» per questa guerra, ha scritto con tragica ironia: «Nelle sue mani il comandante in capo rigira il pulsante nucleare come il portachiavi di una macchina di lusso».

Missili con testata nucleare russi e statunitensi si spiano e si fronteggiano minacciosi in Europa, dove impianti nucleari sono presenti, tra l’altro, in Francia e Gran Bretagna, in Polonia e in Italia. Per non parlare dei paesi extraeuropei. È lecito immaginare che Putin non sia il solo a giocare col pulsante nucleare come in un video-game? A Roma anche Landini ha evocato i «rischi di un conflitto nucleare». Ci facciamo prendere dal panico? No. Per ora, l’atomica è fortunatamente un’arma solo retorica, seppure usata scientemente nella «guerra psicologica». Ma fermarsi un attimo a pensare non mi pare inopportuno. Mi avvarrò della riflessione di alcuni pensatori, Günther Anders in particolare, filosofo e scrittore ebreo-tedesco del secondo Novecento, dividendo l’esposizione in tre parti, di cui la prima è la necessaria premessa teorica delle altre due.

A) Il tecnologismo, o l’onnicrazia della tecnica. Oggi, come noto, la tecnica esercita il suo predominio in ogni settore della società e in ogni angolo del pianeta; un mondo artificiale parallelo, di cui l’ultima espressione è il web, radicato nella nostra vita quotidiana, ma ad essa imposto e sovrapposto. Che ci sta sfuggendo di mano, che ormai non è più un mezzo per i nostri fini, o solo tale, ma un enorme apparato che tende a trasformare noi in suoi mezzi. Che ha leggi proprie, totalmente extra-etiche, avaloriali, non-umane o disumane. Anders le ha individuate nel «dislivello prometeico» e nel «principio del macchinale»[1]. Il primo consiste nella contraddizione tra la nostra illimitata capacità di «produrre» e la nostra limitata capacità di «immaginare» gli effetti di ciò che produciamo; il che ci trasforma in «utopisti a rovescio», perché se gli utopisti non sanno produrre ciò che immaginano, noi non sappiamo immaginare ciò che produciamo. Il «principio del macchinale» (di cui è buon esempio la quasi totale robotizzazione della catena di produzione e montaggio dell’industria dell’auto) risiede invece nel metodo dell’interminabile fabbricazione, per mezzo di macchine, di altre macchine, o pezzi e accessori di macchine. Con l’effetto espansivo e moltiplicatore di fare del mondo un’enorme «megamacchina», o «rete di complessi di megamacchine», di cui noi siamo accessori e appendici. Un gigantesco deus sive machina che «mira» a ridurre l’homo faber ad homo materia, plasmabile, sfruttabile e distruggibile come qualsiasi materiale o pezzo di ricambio. Sì che l’«imperativo categorico» tecnologico è il seguente: «Ciò che si può, si deve fare (Was man kann, das soll man)», «il fattibile è obbligatorio»[2]. Per dirla in termini a noi oggi familiari, se hai la tv, l’auto, il cellulare, che fai?, li usi, e al tempo stesso, e molto di più, ne sei usato. In quest’ottica il nostro «dovere» è l’«obbedienza» alla macchina, il cui imperativo diventa il nostro. Ѐ il trionfo della «razionalità strumentale» su quella «dei valori» (Max Weber).

B) Auschwitz e Hiroshima. Dello sviluppo tecnologico noi dell’Occidente ci siamo certamente avvalsi per fare passi da gigante nel miglioramento delle nostre condizioni di vita materiali, economico-sociali, sanitarie, culturali (di cui però ancora troppo poco hanno beneficiato molti paesi del Terzo mondo). Ma oltre una certa soglia, già oltrepassata, la tecnologia, la «ragione strumentale», innervata inestricabilmente nelle strutture politico-militar-industriali, si è trasformata nel nostro dio, un Moloch infernale, che sta devastando il pianeta e di cui di fatto noi siamo, o ci accingiamo a essere, più che i padroni, gli schiavi e le vittime, de-umanizzati e de-umanizzanti. Auschwitz e Hiroshima, assurti a simboli della nostra epoca, ne sono tuttora l’estrema manifestazione. Ma perché metterli insieme? Ciò che li accomuna non è superiore a ciò che le differenzia? No, perché in ambedue gli eventi è in atto, immanente, con effetti tragici oltre ogni nostra previsione e immaginazione, la teologia, l’onnicrazia tecnologica.

Senza la catena statale-burocratico-gerarchica di comando e obbedienza, e senza un’organizzazione «razionale», fatta di precisi calcoli di pianificazione, progettazione ed esecuzione, ha scritto Zygmunt Bauman, Auschwitz non sarebbe stata possibile[3]. La «fabbrica della morte delle camere a gas», posta in atto dal nazismo, aveva bisogno non solo dei gerarchi hitleriani, di cui Adolf Eichmann, dopo il suo processo e la sua impiccagione, è oggi la principale icona, ma anche degli scienziati del Reich (chimici, medici, esperti di igiene razziale ed eugenetica e inventori delle docce di Zyklon B per massimizzare i risultati e minimizzare i costi dello sterminio), tutti degradati a rotelle della macchina nazista, solerti incarnazioni della «banalità del male» (Hannah Arendt). E gli ebrei internati? Mero insignificante numero. La coscienza morale degli organizzatori ed esecutori dello sterminio? Azzerata. Inesistente. Il loro imperativo? Quello «macchinale» della cieca «obbedienza» e del «fattibile è obbligatorio». Lo stesso di Hiroshima.

«In un milionesimo di secondo, un nuovo sole si accese nel cielo, / in un bagliore bianco, abbagliante. / Fu cento volte più incandescente del sole nel firmamento. / E questa palla di fuoco irradiò milioni di gradi di calore contro la città di Hiroshima / … In questo secondo, l’uomo … aveva compiuto, con l’aiuto della scienza, il primo tentativo di /annientare sé stesso. / Il tentativo era riuscito»[4]. Il 6 agosto 1945 un aereo da guerra statunitense sganciò una bomba atomica su Hiroshima; un’altra fu lanciata tre giorni dopo su Nagasaki. In quel «secondo», o «milionesimo di secondo», le due città giapponesi furono rase al suolo, annientate: oltre 200 mila le vittime civili, carbonizzate e incenerite, come in due grandi «camere a gas», come nei forni crematori di Auschwitz. Fu l’inizio della «Guerra Fredda», il primo monito degli Usa all’Urss, l’ex-reaganiano «lmpero del Male» imploso nel 1991. Ai bombardieri statunitensi del 1945 tre nomi furono dati. Al primo, Enola Gay, da quello della madre del primo pilota dell’aereo, Paul Tibbets, mai pentitosi, ma poi onorato con medaglie. Al secondo, The Great Artist. Al terzo, Necessary Evil. E come fu chiamata la prima bomba, su Hiroshima? «Little Boy». E la seconda, su Nagasaki? Fat Man. Marchi pubblicitari rassicuranti, domestici, grottescamente ironici. «Madre, ragazzino, uomo grasso, grande artista». Siamo alla realtà capovolta: da un lato l’umanizzazione degli strumenti di morte, dall’altro la cosificazione e nientificazione delle vittime umane. Gli strumenti di morte ci dettano le loro leggi? Siamo tutti diventati ridicoli e impotenti «apprendisti stregoni»?

Oggi, come si sa, di arsenali nucleari è punteggiata la mappa geopolitica planetaria. Soltanto Usa e Russia dispongono ciascuno di circa cinquemila ordigni nucleari. Le radiazioni di Hiroshima si estesero per un raggio di 20 km; le bombe odierne, si legge, sono da 10 a 20 volte più potenti; e ci sono missili nucleari tattici, di media gittata, e missili intercontinentali. Che nomi domestici diamo a questi nuovi ordigni infernali, perché sembrino «buoni»? Meglio che taccia, in una lunga pausa di riflessione e ravvedimento, chiunque oggi parla di una Terza Guerra Mondiale. A meno che non tifi per un Olocausto planetario, un genocidio non di un popolo, ma dell’intera specie umana.

C) Che fare? Al tecnologismo e al suo predominio possiamo ancora opporci, ricuperare la nostra umanità, dignità, moralità. «La scelta» è ancora possibile[5]. Hans Jonas, il filosofo del «principio-responsabilità», ha riformulato così l’imperativo kantiano: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra»[6]. E non solo umana, aggiungerei. Anders ha avanzato due proposte: 1) un nuovo «giuramento di Ippocrate»: scienziati, ingegneri, medici, funzionari, pubblicisti, militari, politici, amministratori giurino di disobbedire all’imperativo tecnologico del «fattibile-obbligatorio»[7]. Francesco Bacone, il primo filosofo della modernità, ha scritto: «la scienza e la potenza umana coincidono», il loro fine è «la realizzazione di ogni possibile obiettivo»; ma, intuendo l’antinomia della tecnica e dei suoi usi, ha immaginato che nel suo Stato utopico, gli scienziati «neo-atlantici» della Casa di Salomone giurino di tenere segrete ai governanti le loro scoperte più pericolose[8]. Similmente, alcuni scienziati del Progetto Manhattan che lavoravano in Usa alla costruzione della bomba atomica, si dimisero dall’incarico, prevedendo l’immane carica distruttiva dell’«arma più terribile che mai si sia vista nella storia umana»; se tutti gli altri ricercatori avessero seguito il loro esempio, l’atomica non sarebbe stata creata; 2) la seconda proposta andersiana è «sciopero dei prodotti» o dei produttori: le maestranze di ogni grado si rifiutino di produrre mezzi di distruzione e di annientamento[9]. L’esito potrebbe essere non solo il blocco delle fabbriche di produzione di armi, e tanto più di armi di distruzione di massa, ma, aggiungo, la loro riconversione per produrre energie rinnovabili. Se il Pnrr e il Next Generation Eu lo prevedessero.

L’esempio più chiaro, seppure ipotetico, di uno «sciopero dei prodotti» lo troviamo in Bauman: se operai, tecnici e scienziati delle fabbriche statunitensi di gas letali si fossero rifiutati di continuare a produrlo, i bombardamenti al napalm sui villaggi e le foreste vietnamite sarebbero cessate[10]. E, di passo in passo, forse anche la guerra. I giovani russi, troppo pochi purtroppo, che oggi abbandonano per strada i carri armati di cui sono alla guida e solidarizzano con i civili ucraini, sono i nostri «maestri»: se tutti i militari li seguissero, la guerra cesserebbe d’incanto. Un’utopia? Sì, ma, come ha scritto Ernst Bloch, un’«utopia concreta», non mero sogno o fantasticheria, ma «tendenza-latenza» del presente, «possibilità reale», non ancora realizzata, ma realizzabile[11]. Ciò che sembra impossibile oggi, diventa possibile domani. Ma è già insito nell’oggi.

Qualche prova confortante, nemmeno tanto lontana ci giunge dalla storia. Penso alla ribellione dei soldati russi al fronte nel 1916-1017, il cui esito fu il Trattato di pace di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918. O al movimento del No alla guerra in Vietnam dei «figli dei fiori», dalle città statunitensi diffusosi in ogni continente, che al potere distruttivo della macchina bellica statunitense opponevano il «Flower power», riassunto dai famosi slogan: «Mettete dei fiori nei vostri cannoni», «Fate l’amore, non la guerra». Se l’infame guerra del Vietnam è cessata, lo si è dovuto anche al «Potere, o Potenza, dei fiori». Un altro esempio, più recente: le oceaniche manifestazioni pacifiste del 2003, per tentare di impedire la preannunciata guerra d’aggressione di George D. Bush contro l’Iraq; il “New York Times” (15/02/2003) definì quel movimento «la Seconda Superpotenza planetaria», dopo gli Usa. Non impedì la guerra: in Iraq circa 200 mila in gran parte civili morirono sotto le bombe «democratiche» di Bush; poi, per crimini di guerra, fu processato e giustiziato non l’aggressore, ma l’aggredito (anche lui non esente da colpe). Altre guerre e altri crimini di guerra seguirono. Fino a quelli drammaticamente attuali di Putin. La cultura della pace, dunque, è ancora debole, troppo debole. Ma se non riesce a potenziarsi e diffondersi a livello mondiale, promuovendo anche la lotta per il disarmo, una lotta ecologista oltre che pacifista, poiché la guerra e l’industria della guerra sono tra i fattori più inquinanti e devastanti del pianeta, – alla fin fine, di fronte alle armi nucleari, non c’è, non ci sarà chance alcuna di sopravvivenza per la specie umana.

Oggi il controllo degli arsenali nucleari è in mano a complessi sistemi d’intelligenza artificiale, informatica, cibernetica. Basta un incidente tecnico, un possibile errore di avvistamento, la reazione a un falso allarme, che si scatena l’inferno, che in 30 minuti l’intero globo si trasforma in un immane rogo. Siamo già stati sull’orlo dell’apocalisse atomica nel 1962, nei giorni della crisi missilistica a Cuba, e nel 1983, allorché il tenente colonnello russo Stanislav Petrov scelse di non premere il pulsante nucleare contro un presunto attacco nucleare statunitense, poi rivelatosi errato. Fino a che la guerra non diventi un tabù, e gli ordigni nucleari inutilizzabili «ferri vecchi», il rischio atomico è sempre lì in agguato. Se Hiroshima non segnerà, come Anders temeva, «la fine dei tempi»[12], dipenderà soltanto da noi, dalla saggezza e lungimiranza delle nostre «scelte».

[1] Günther Anders, Tesi sull’èra atomica, in appendice a Id., Essere o non essere. Diario da Hiros hima e Nagasaki, tr. it. di R. Solmi, prefaz. di N. Bobbio, Einaudi, Torino, 1961, p. 203; cfr. anche Id., L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’éra della seconda rivoluzione industriale, tr. it. di L. Dallapiccola, il Saggiatore, Milano, 1963, pp. 24-25.

[2] Id., L’uomo è antiquato cit., Introduzione, p.17.

[3] Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, tr. it. di M. Baldini, il Mulino, Bologna, 1989, pp. 155-157.

[4] Karl Bruckner, Il gran sole di Hiroshima, tr. it. di M. Minellona, Giunti-Euromeeting Italiana, 2003, exergo.

[5] Bauman, op. cit., p. 280.

[6] Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, tr. it. di P. Rinaudo, cura e introd. di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino, 1960, p. p. 16.

[7] Anders, Der Hippokratische Eid, in Id., Der Atomare Drohung. Radicale Überlegungen zur atomaren Zeitalter, Beck, München, pp. 136-167.

[8] Francesco Bacone, Nuovo Organo, in Id., Opere filosofiche, a cura di E. De Mas, Laterza, Bari, I, p. 257; Id., La Nuova Atlantide, a cura di P. Rossi, Tea, Milano, 1991, pp. 101, 114-115.

[9] Anders, I Morti. Discorso sulle tre guerre mondiali, tr. it. di M.A. Mori, Bollati-Boringhieri, Torino, 1992, pp. 37-47.

[10] Bauman, op. cit., pp. 142, 145, 164.

[11] Ernst Bloch, Il Principio Speranza, tr. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Introd. di R. Bodei, Garzanti, Milano, 1944, pp. 241-265.
[12] Anders, Tesi sull’èra atomica, cit., p. 201.



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