Guerra e pace, oggi

Come liberare il mondo dalla guerra e sottometterlo alla sovranità della legge e del diritto? Una riflessione sull’attualità del progetto filosofico-politico kantiano di pace universale e permanente.

Giuseppe Panissidi

È sempre guerra”. Irreparabile e dolente la conclusione di Lev Tolstoj in “Guerra e Pace”, l’epopea narrativa più autentica della letteratura moderna, sullo sfondo della crisi europea degli inizi dell’Ottocento. Il nostro pensiero, il nostro sentimento. Ancora. Sempre.

Com’è tutto silenzioso, quieto e solenne, non come quando correvo, – pensò il principe Andrej, – non come quando correvamo, gridavamo e ci battevamo; non come quando il francese e l’artigliere si contendevano lo scovolo, con le facce furiose e spaventate: le nuvole scorrono in modo completamente diverso in questo cielo alto e infinito. Ma come ho fatto a non vederlo prima, questo cielo alto, e come sono felice di averlo finalmente conosciuto. Sì! Tutto è vano, tutto inganno, tranne questo cielo infinito. Non c’è niente, niente all’infuori di questo. Ma non c’è neppure questo, non c’è nient’altro che silenzio, pace ritrovata. E grazie a Dio!”.

Pace ritrovata. Il fine ultimo. Perché “‘guerra’ è il mondo storico, ‘pace’ il mondo umano – scrive Leone Ginzburg. Il mondo umano interessa ed attrae particolarmente Tolstoj, soprattutto perché egli è convinto che ogni uomo – di ieri, di oggi, di domani – valga un altro uomo…”.

Molti decenni prima, nel 1795, al culmine dell’Aufklärung, l’Illuminismo in Germania, aveva visto la luce uno straordinario progetto sulla “pace perpetua”. Nasceva dall’idea profonda di Immanuel Kant, secondo cui l’uomo tende per natura al mantenimento della vita e alla realizzazione dell’umanità sotto la guida della legge morale, ovvero della “ragion pratica”. Dunque, una condizione stabile di pace non solo è conforme alla natura, ma costituisce altresì un dovere per l’uomo.

Se non che – punctum dolens – sul piano ideale e teorico, il progetto filosofico-politico sconta tutta l’impervietà dello statuto dell’umano, dal momento che la pace perpetua non può che concretarsi in un trattato fra nazioni, finalizzato all’istituzione di un ordinamento cosmopolitico, volto a liberare il mondo dalla guerra e a sottometterlo alla sovranità della legge e del diritto. Mentre, però, per Rousseau il contratto, come tale, significa rinunzia allo stato e alla libertà naturale, per Kant il contratto cosmopolitico non prevale sull’ordine giuridico naturale, ma lo rafforza e lo consolida in una forma più razionale. Per questa ragione, e più in generale, il contrattualismo kantiano rivela un carattere più specificamente politico che sociale, proprio perché il contratto non crea né lo Stato, né il raccordo tra gli Stati, bensì li costituisce nelle forme del diritto.

Gli Stati debbono istituire un patto reciproco, una federazione speciale o “foedus pacificum”, la federazione di pace. Che, tuttavia, a differenza del pactum pacis, il comune trattato di pace che cerca di porre fine semplicemente a una guerra, Kant sostiene, in quanto pace universale e permanente, presuppone il superamento della sovranità assoluta e irrelata degli Stati, dell’anarchia internazionale e la formazione di una federazione che abbracci gradualmente tutti i popoli della terra.

Se però l’idea di una “Repubblica del mondo” è nuova, l’idea della pace universale risale alla filosofia stoica e al cristianesimo, ed è stata ripresa nel Medio Evo da Dante, il quale identificava nell’Impero l’istituzione necessaria per realizzare la pace. Pur tuttavia, la demarcazione rispetto al progetto di Kant non potrebbe essere più radicale. Elaborato nel cuore della Rivoluzione francese, alle soglie dell’età della democrazia e del nazionalismo, il progetto kantiano non consiste in una proposta da sottoporre a un soggetto politico sovranazionale, capace di unire un gruppo di Stati entro le frontiere di uno Stato superiore, o a governi o diplomatici per realizzare migliori equilibri di potere.

Ora irrompe nel corpo della tradizione culturale occidentale e nel dibattito filosofico-politico un paradigma eversivo. La pace non dev’essere concepita come semplice sospensione delle ostilità durante la guerra o nell’intervallo tra due guerre. Questa è soltanto un surrogato, la “pace negativa”, nozione tuttora dominante, a parte qualche eccezione, nella cultura politica contemporanea. Non è un caso che sia invocata di continuo nella presente congiuntura ucraina.

Invero, lo stato di pace, secondo Kant, non è uno stato naturale, bensì una vera e propria istituzione, che deve essere costruita attraverso un ordine legale imposto da un’autorità mondiale superiore a ogni singolo Stato. Una pace positiva. In breve, la pace coincide con la realtà efficiente di un’organizzazione politica capace di porre fine a tutte le guerre, e per sempre. Se però, anche a prescindere dalle note devianze burocratiche e antigiuridiche, operiamo una valutazione rigorosa dei primi 77 anni della storia delle Nazioni Unite, è giocoforza constatare che l’ONU, pur avendo realizzato progressi non trascurabili, ad esempio quanto al ruolo svolto nella decolonizzazione e a qualche sforzo nel mantenimento della pace, non ha di certo realizzato le speranze dei propri fondatori nel 1945, testimoni e attori di una epocale e definitiva speranza di pace, sulle macerie e gli orrori inauditi lasciati dal secondo conflitto mondiale.

Disgraziatamente, anche se la Storia “magistra” può vantare pochi e svogliati allievi, il conto non tralascia mai di presentarlo, come attualmente…

Così, ante litteram, Kant opera la demarcazione sostanziale tra la pace e la guerra, e concepisce la tregua come una parentesi, una situazione tipica della guerra. Nella quale, infatti, una volta terminate le ostilità, permane la minaccia che possano riaprirsi, sul versante della e come guerra. Soltanto nella guerra si può verificare la tregua. Dunque, la tregua, per quanto prodromica, nelle condizioni date, resta altro dalla pace.

Tregua, in effetti, significa e coincide con una temporanea sospensione dell’azione distruttiva, come spesso accade, tanto vero che gli aggressori sono soliti proseguire le ostilità di teatro fino a quando non abbiano conseguito condizioni di vantaggio sui tavoli diplomatici. Publio Cornelio Tacito ci consegna un’icastica rappresentazione ‘autocritica’, un punto di vista, diciamo, ‘esterno’ alla volontà di potenza imperiale romana: “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”. Dove fanno il deserto, lo chiamano pace.

All’epoca di Kant, la Federazione mondiale era un lontano fine ultimo, perciò apparso simile all’utopia, benché in nobile declinazione erasmiana, nel celeberrimo “Lamento della pace”: “La grande maggioranza dei popoli detesta la guerra e invoca la pace. Sono ben pochi oramai coloro la cui empia infelicità dipende dall’infelicità generale, e dunque bramano la guerra. Se sia giusto o meno che la loro malvagità prevalga sull’aspirazione di tutti i buoni, giudicatelo voi stessi. Vedete che fino ad ora si sono mostrati inutili i trattati, inconcludente la forza, la punizione. Adesso provate invece quale non sia l’efficacia della concordia e della generosità. Da guerra nasce guerra, vendetta provoca vendetta. Adesso sia la bontà a generare bontà, la generosità solleciti ad essere generosi, e si giudichi più regale chi avrà rinunciato ai propri diritti”.

La strategica rilevanza della idea kantiana risiede nell’identificazione dei pre-requisiti essenziali che soltanto oggi potrebbero avvicinarci alla pace universale e permanente.

Il primo pre-requisito sarebbe stato acquisito solo quando l’esperienza della devastazione della guerra avrebbe spinto le nazioni a rinunciare alla libertà selvaggia e senza legge e alla situazione intollerabile di anarchia internazionale.

Il secondo, quando lo sviluppo del commercio, oggi la globalizzazione, avrebbe condotto l’umanità a vivere a stretto contatto.

Il terzo, quando l’evoluzione dell’umanità avrebbe raggiunto lo stadio della formazione di una costituzione civile repubblicana, fondata sul diritto, la libertà e l’uguaglianza.

Ultimo, ma non per importanza, quando l’apparire di una opinione pubblica mondiale avrebbe consentito alla violazione del diritto avvenuta in un punto della terra di essere avvertita dovunque.

Kant non era un utopista, almeno non nel senso usuale del termine, lucidamente consapevole, com’era, che il solo imperativo della ragione non è sufficiente a persuadere il “legno storto” dell’umanità a cercare la pace.

Epperò, è alla pace che va annesso quell’alto valore morale che un’improvvida tradizione culturale attribuisce invece alla guerra, che, nel testo di G. F. Hegel, “preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua”. Il conflitto, quale modalità della relazione tra uomini e Stati, la vittoria, la sconfitta non sono i soli modi in cui possa dispiegarsi la Ragione. E la Storia, nella sua ricca complessità, non si identifica univocamente con un “tribunale” che sancisce come la guerra debba essere la risolutrice dei conflitti tra gli Stati, nel “regno animale dello Spirito”, alla stregua della metafora speculativa hegeliana.

Oggi come non mai, quando “il terribile è già accaduto”, le guerre mondiali e i sistemi d’arma nucleare, spesso evocati con sconcertante leggerezza, mostrano che Kant aveva perfettamente ragione anche nella predizione che soltanto l’esperienza della distruttività della guerra avrebbe dovuto persuadere gli Stati a rinunciare alla propria libertà selvaggia e a sottomettersi a una legge comune. Del resto, il processo di globalizzazione, nonostante limiti ed errori, causando l’erosione della sovranità nazionale, ha acuito il bisogno di nuovi poteri a livello regionale e mondiale.

Dopo la caduta dei regimi totalitari del ‘900, una maggioranza di Stati membri delle Nazioni Unite è retta da regimi di democrazia rappresentativa, pre-condizione per l’estensione della democrazia alle relazioni tra gli Stati, per la realizzazione, ossia, della democrazia internazionale, altro dalla conclamata, quanto e pour cause fallimentare, illusione dell’“esportazione della democrazia”.

Grazie ai media, noi siamo informati ogni giorno degli avvenimenti che accadono ovunque nel mondo, presupposto per la formazione di un’opinione pubblica e di una società civile globali. Siffatti fenomeni sono aspetti del processo di globalizzazione, e della connessa cancellazione della distinzione tra politica interna e politica estera. La “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e la “Corte penale internazionale”, ancorché disconosciuta da molti Stati, sono due esempi significativi della necessità di applicare agli individui il diritto internazionale e mostrano che l’ordine internazionale è cambiato e che può cambiare ancora più radicalmente.

Possiamo, dunque, concludere che la tradizione kantiana oggi resta viva come non mai, e lotta insieme a noi, come si suol dire. Pur essendo rimasta latente durante l’era del nazionalismo, essa è stata rilanciata nella nuova fase della storia del mondo, iniziata con la fine della guerra fredda. Jürgen Habermas e David Held sostengono che l’idea kantiana di una Repubblica federale mondiale rappresenta la sola risposta plausibile ai problemi posti dalla globalizzazione e dall’erosione della sovranità degli Stati. La creazione di nuove forme di statualità a livello mondiale sembra essere la sola alternativa al dominio del sistema di mercato e al dilagare della violenza. Gli obiettivi universali della costituzionalizzazione delle relazioni internazionali e della democrazia internazionale debbono assurgere a principio-guida in costanza e aumento di una pericolosa anarchia. No, davvero, questa “confusione sotto il cielo” non è affatto “eccellente”…

Diritto e democrazia internazionali aprono la sola via d’uscita da un arbitrio cieco e ben poco “libero”, in quanto, essi sì, autentica e feconda “bussola strategica” per un domani più a misura d’uomo. Ne discende che le eventuali responsabilità dell’occidente nella progressiva espansione ad Est – a seguito del collasso dell’URSS – costantemente indicata come un potenziale pericolo da parte di molti, anche in Occidente, perché suscettibile di una “reazione ostile e vigorosa da parte della Russia” (J. Biden, 1997), non esime il presidente della grande e temuta Federazione Russa dal rammentare che “non vi è mai stato nulla di scritto”, come lui stesso esplicitamente riconobbe, or sono pochi anni – proprio dopo le “operazioni” in Georgia e Crimea – nella famosa intervista a Oliver Stone, e che, in ogni caso, le diplomazie occidentali, statunitense ed europea, non hanno mai sottoscritto un impegno siffatto in termini giuridico-formali. Se il diritto non è acqua fresca.

È del tutto evidente che l’ipotesi kantiana può declinarsi soltanto nella relazione e nel confronto tra gli Stati, indipendentemente dalle qualità personali dei loro governanti, alla sola condizione che vero e indefettibile mediatore sia il Diritto, poco o molto che valga e funga quello attualmente vigente e condiviso, con tutto il rispetto per la voce spirituale del Pontefice, che non è, né presume di essere, un soggetto politico. Infatti, su ciò su cui si concorda non c’è molto da discutere, sul resto è giocoforza confrontarsi tenacemente.

Sempre salva, naturalmente, l’evenienza di un esodo umano verso altri mondi, più ospitali o meno dissennati, ove mai esistenti, e non semplicemente dall’Ucraina in lacrime e sangue verso l’Occidente.

Conclusivamente, la mente non può non correre al mesto pensiero di Arthur Schopenhauer, secondo cui “se il mondo fosse lievemente peggiore, non potrebbe neppure esistere”. Ecco emergere un must, fatale e intransigente, per l’uomo contemporaneo, il nuovo, imperativo principio della “ragion pratica”: operare tassativamente in modo che il mondo non diventi… “lievemente peggiore”.

In uno degli scritti di filosofia della storia, “Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”, nel 1784, Kant argomenta con estrema chiarezza sul “legno storto”, la Storia e la relazione che li stringe: “… da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto. Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura”. La natura ci impone di approssimarci a questa idea. Se, insomma, per enti naturali finiti, la perfezione è impossibile, dobbiamo tuttavia protenderci verso sintesi ed esiti progressivamente più alti, oltre i limiti delle nostre vite individuali, nell’orizzonte della “specie”. “Il compito dell’uomo è dunque molto complesso. Come ciò avvenga per gli abitanti di altri pianeti in rapporto alla loro natura noi non sappiamo. Ma, se portiamo felicemente a termine questa missione imposta dalla natura, possiamo vantarci di occupare un posto non trascurabile nell’universo tra i nostri vicini… per pervenire ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il diritto”.

Un saggio/manifesto del liberalismo di Isaiah Berlin, “Il legno storto dell’umanità”, mette a fuoco e in tensione il ‘realismo’ di Kant con la sua appassionata esaltazione del “dovere dell’uomo”: “Possiamo fare solo quello che possiamo; ma questo dobbiamo farlo, nonostante le difficoltà. Certo, vi saranno scontri sociali o politici, ed è inevitabile (…) Ma questi conflitti, credo, possono essere ridotti al minimo promuovendo e conservando un delicato equilibrio che è costantemente minacciato e richiede costanti riparazioni: questa, ripeto, solo questa è la pre-condizione per l’esistenza di società decenti e per un comportamento moralmente accettabile; altrimenti siamo destinati a smarrire la strada”.
Il nostro intenso auspicio, oggi, è che chi ha smarrito la strada, la ritrovi. Senza ritardo. “Questo dobbiamo farlo”.



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