Ricordiamoci che Hitler ha perso

È come se Hitler avesse colonizzato il nostro immaginario, impedendoci di prescindere dalle sue regole del gioco ogni volta che ci troviamo a dover valutare la moralità di una guerra. Se ci sarà una terza guerra mondiale o no sembra dipendere più da come definiamo gli eventi del passato che da una scrupolosa valutazione del nostro presente e delle sue potenzialità.

Elia Rossi

Se gestissimo qualunque altro ambito della vita civile (educazione, questioni di genere, rapporto governanti-governati, ruolo della Chiesa eccetera) dicendo: “Negli anni Quaranta del secolo scorso, i nostri bisnonni hanno fatto così e ha funzionato”, l’anacronismo sarebbe stridente. Tuttavia, il nostro orecchio civile si fa meno assoluto quando si tratta di politica internazionale. Qui, a quanto pare, gli anni Quaranta sembrano essere il punto di osservazione di qualunque processo decisionale. Un parametro non solo credibile, ma addirittura necessario per definire la dignità o viltà delle nostre scelte. È come se Hitler avesse colonizzato il nostro immaginario, impedendoci di prescindere dalle sue regole del gioco ogni volta che ci troviamo a dover valutare la moralità di una guerra (e in genere il paragone finisce per giustificarla). Questa volta la narrazione l’ha iniziata Putin, giustificando l’attacco all’Ucraina come un’opera “di denazificazione”; ma è stata proseguita da Zelensky che, a sua volta, ha definito i russi “come i nazisti” invitando i suoi interlocutori a “compiere una scelta” conseguente. Con coerenza, in Italia, il processo decisionale si è incagliato nella domanda speculare alla reductio ad hitlerum: “Gli Ucraini sono la manifestazione odierna di quella che fu la nostra Resistenza?”

Va ammesso che la domanda non può essere liquidata come del tutto anacronistica. La Resistenza, infatti, non è solo un fiero momento del passato italiano, ma uno dei miti fondanti della nostra Repubblica. Il suo racconto ne definisce l’identità e i valori. È pertanto un passato che sopravvive al passato nella forma della prescrizione futura, dell’imperativo morale presente, un parametro imprescindibile per misurare la vitalità della nostra coscienza repubblicana. Se la Repubblica, oggi, non sta più dalla parte di “chi resiste”, si dice, forse ha smarrito il senso per cui è nata.

Se ci sarà una terza guerra mondiale o no, in poche parole, sembra dipendere più da come definiamo gli eventi del passato che da una scrupolosa valutazione del nostro presente e delle sue potenzialità. Definire il passato, sì. Perché, almeno nel nostro caso, cioè quello della Resistenza, la linea che separa la storia (condivisa e definitiva) dalla memoria (personale, bruciante e manipolata, secondo Barbero) è per molti ancora simile a un confine di guerra. Ne è un esempio la difficoltà con cui si è affermata l’interpretazione di Claudio Pavone, soprattutto per quell’idea, che la Resistenza, oltre che una guerra patriottica e di liberazione dall’occupazione tedesca, sia stata anche una guerra civile. Per anni è stato il presente a condizionare il modo in cui intendevamo definire il passato della Resistenza: in un’Italia ancora lacerata dal terrorismo nero, definire la Resistenza come una “guerra civile” appariva cedevole e, indirettamente, generoso verso entrambe le parti del conflitto. In queste ore, in cui invece il gioco di specchi è invertito ed è l’identità del passato a orientare il processo decisionale del presente, proprio quel tratto fisiognomico appare dirimente. Perché, al netto dell’insopportabilità della guerra, bisogna riconoscere che una guerra puramente patriottica non è guidata necessariamente da specifiche idee di futuro da parte degli eserciti in causa, né da imperativi morali universalizzabili. Non è l’ideologia a dividere. Si combatte contro i tedeschi, contro i russi, contro le truppe napoleoniche, senza che conti la differenza tra connazionali che sono monarchici, giacobini, sanfedisti, socialisti o neonazisti, senza che sia rilevante l’idea di società futura (e perciò di umanità) a cui si vuole dare realtà con quella guerra. Ben diverso il caso di una guerra civile. Nella Spagna del ‘36 non si combatteva contro i tedeschi, ma contro i nazifascisti. Era solo per una conseguenza di ciò che non era necessario essere spagnoli per sentirne la chiamata alla armi. È nella guerra civile (diciamolo senza edulcorare: quella fratricida) che i legami irrazionali, e perciò non politici, della terra e del sangue vengono sostituiti da schemi decisionali diversi, da scelte ideologiche riferibili non al luogo di nascita e ai legami etnici ma a imperativi morali che tutto il mondo può, razionalmente, comprendere o respingere.

Si pensi alle Cinque giornate di Milano, su cui ritorniamo con affetto più scolastico che valoriale al punto che non ci sentiamo di tradire nessun imperativo morale se oggi insegniamo la Marcia di Radetzky alle scuole elementari. Al contrario, se la Resistenza italiana è diventata mito fondante più di altri episodi del nostro passato nazionale, è proprio perché la Resistenza non è stata solo una guerra patriottica, ma anche una guerra civile: perché è stata portatrice di un’idea di Stato e di umanità che riteniamo universale secondo ragione e non secondo unità di lingua e territorio (l’idea di repubblica, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, che è disposta ad accettare limiti alla sovranità nazionale in nome della pace eccetera).

Il confronto con la Resistenza, pertanto, costringerebbe a valutare la risposta ucraina all’aggressione russa attraverso una domanda che sarebbe decisamente scomodo porsi: quella degli ucraini è solo una guerra patriottica o anche una guerra civile? Sospendere la distinzione tra ucraini europeisti, atlantisti, nazionalisti e neonazisti è universalmente accettabile in nome dello sforzo trasversale per respingere un aggressore straniero? È questa l’idea di Stato che vorremmo proiettare nel futuro europeo?

Il corto circuito sarebbe evidente (e imbarazzante), al punto che, valutandone le conseguenze disastrose, viene da chiedersi se il gioco della reductio ad hitlerum, non a caso iniziato da Putin, non rientri in una logica di guerra ibrida, finalizzata a mandare in tilt le coordinate ideologiche e morali, insieme alla capacità decisionale tutta, della comunità europea. Non fosse altro che la parabola hitleriana è passata dall’inesorabilità della carneficina mondiale e dichiararsene ostaggi in queste ore significa dichiararsi pedine di una tragedia altrettanto inesorabile.

Stiamo assistendo in queste ore ad una guerra di immaginari: un gioco di specchi deformante, in cui il passato e il presente si distorcono a vicenda tramite liti furiose da cui, a uscirne distrutta, è la visione realistica del presente, delle sue specificità e delle potenzialità che queste portano con sé. Sembriamo dimenticarci che le regole del gioco non sono più quelle che ha dettato Hitler nel 1938 perché, questo è il punto, Hitler ha perso. Il mondo di oggi non è quello che aveva immaginato lui, ma quello che hanno costruito i suoi oppositori. Gli Stati non sono più quelli nazionali. Le nuove generazioni si identificano in una cultura globale prima che con il sangue e con la terra. Ai processi decisionali partecipano ora in massa anche le donne. L’alfabetizzazione è cresciuta a dismisura e i popoli parlano lingue comuni. Esiste l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che, d’accordo, può essere un’arma spuntata in un conflitto che vede la Russia al centro della tensione, ma decidere a priori di non tentare di usarla significa, di nuovo, dimenticarsi che rispetto agli anni Quaranta qualcosa è cambiato. Anche, in peggio, intendiamoci. Si pensi alla presenza di armi atomiche. In queste ore più che mai è necessario misurarsi con le specificità di quel cambiamento, per partire da lì, per partire dall’oggi. Abbiamo sconfitto Hitler nel 1945, sarebbe ora di abbattere le sue statue nel nostro immaginario. Per decidere come agire non in base a quello che riteniamo si aspetti da noi un passato ancora conteso, ma in base a quello che noi ci aspettiamo dal futuro.



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