La guerra in Ucraina e la commozione selettiva

Se questa guerra ci colpisce più di altre è anche per quel processo di costruzione selettiva dell’alterità e di disumanizzazione all’opera da tempo immemore.

Ingrid Colanicchia

Circola da qualche giorno un estratto-video dal programma statunitense “The Daily Show” di Trevor Noah nel quale sono raccolti diversi spezzoni di giornalisti e opinionisti occidentali (statunitensi, francesi, britannici…) che parlano della guerra in Ucraina. Il tenore dei loro commenti è il seguente: «Questo non è un Paese del Terzo mondo: siamo in Europa!»; «Queste persone non stanno scappando da un Paese del nord Africa, hanno le sembianze di una qualsiasi famiglia europea, che potrebbe vivere nella casa accanto alla nostra»; «Non è un Paese, con il dovuto rispetto, come l’Iraq o l’Afghanistan: è un Paese relativamente civilizzato, relativamente europeo, dove non ci si aspetta, dove si spera che queste cose non avvengano». I virgolettati sono letterali. L’ultimo in particolare è del corrispondente da Kiev della CBS News, Charlie D’Agata.

Ora, è tristemente vero che una guerra così vicina, una guerra “europea” nel senso di combattuta sul territorio europeo, ci colpisce di più. Basta fare mente locale con onestà rispetto alle nostre reazioni e a quelle delle persone attorno a noi. Un ruolo in questa dinamica lo gioca senz’altro l’informazione, che di alcuni conflitti racconta tutto fin nel dettaglio e di altri si “dimentica” dopo aver dato la notizia iniziale, ma è bene tenere presente che all’opera c’è anche un altro processo: quello dell’identificazione.

Quando vediamo le bombe colpire città con architetture e paesaggi che non ci sono familiari, quando vediamo che a morire sono persone con cui non condividiamo il colore della pelle o la religione o la “cultura” è come se nella testa di molti di noi scattasse il pensiero: “Queste sono cose che succedono altrove, perché lì sono diversi. Da noi queste cose fanno parte del passato”. È un pensiero che ci rassicura e che in qualche modo, rassicurandoci, fa anche sì che ci scandalizziamo meno. Non richiede un nostro intervento, perché non ci riguarda e non rischia di riguardarci in futuro.

È un po’ lo stesso meccanismo all’opera con i femminicidi. Alla notizia, come sappiamo molto frequente, di un uomo che ha ucciso una donna in quanto donna, il commento che si sente più spesso è: “Quello era un pazzo”; “Si è trattato di un raptus di follia”. La funzione di questo tipo di presa di distanza è la stessa: rassicurarci che quelle cose accadono solo agli altri, non a noi. Non ci riguarda e non ci riguarderà, per cui possiamo continuare a dormire sonni tranquilli.

Uno dei processi che conduce a questo esito, a una “identificazione selettiva” se vogliamo, e che a questo meccanismo di rassicurazione fa fare un salto di qualità (in peggio) è quello – all’opera dalla notte dei tempi – della “creazione dell’altro” e della sua disumanizzazione: “l’altro” (che sia il migrante o il musulmano, per assumere lo sguardo di questa parte di mondo) non è del tutto umano, nel senso in cui “noi” lo siamo. È, questo, un passaggio fondamentale, propedeutico a qualsiasi crimine che aspiri a essere commesso senza destare reazioni.

L’orrore selettivo che proviamo di fronte a quanto sta accadendo, esemplificato dalle parole pronunciate dai giornalisti di cui sopra, ne è cartina al tornasole: gli ucraini meritano il nostro interesse, la nostra compassione e solidarietà perché non sono altro da noi, sono «relativamente civilizzati», «non stanno scappando da un Paese del nord Africa», sono o potrebbero essere i nostri vicini di casa. Il corollario implicito (nelle parole del giornalista della CBS neanche troppo implicito) è che iracheni, afghani, nordafricani non sono come noi, non sono civilizzati, non potrebbero essere i nostri vicini di casa, sono meno umani di noi e quindi possono morire senza che ciò desti scandalo.

Questo meccanismo conosce infinite varianti. Il primo esempio che mi viene in mente, forse per ragioni biografiche, è il patriarcato, che ha fondato e fonda il proprio dominio sul processo di definizione della donna come pura alterità. Per dirla con Simone de Beauvoir: «La donna si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; la donna è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro».

La stessa de Beauvoir ci aiuta a sottolineare altri due aspetti che vanno tenuti presente in questo discorso. Prima di tutto che la categoria dell’Altro è una categoria fondamentale del pensiero umano e ha origini remote quanto la coscienza stessa. «Nessuna collettività si definisce mai come Uno senza porre immediatamente l’Altro di fronte a sé», scrive nel Secondo sesso. «Bastano tre viaggiatori riuniti per caso in uno scompartimento perché tutti coloro che viaggiano nello stesso scompartimento divengano degli “altri” vagamente ostili. Per gli abitanti di un paese, chi non appartiene a quel paese è un “altro”, di natura sospetta, o uno “straniero”; per l’antisemita gli ebrei sono “altri”, come lo sono i neri per i razzisti americani, gli indigeni per i coloni, i proletari per le classi possidenti».

In secondo luogo che questi processi sono all’opera anche all’inverso: «Il soggetto si pone solo opponendosi: vuole affermarsi come “essenziale” e costituire l’Altro in “inessenziale”, in oggetto.  Solo che la coscienza dell’Altro gli oppone a sua volta la stessa pretesa: in viaggio il contadino si accorge, scandalizzato, che gli abitanti dei paesi vicini lo guardano a loro volta come uno straniero: fra villaggi, clan, nazioni, classi vi sono guerre, commerci, trattati, lotte che tolgono al concetto di Altro il suo senso assoluto e ne svelano la relatività; volenti o nolenti, individui e gruppi sono obbligati a riconoscere la reciprocità del loro rapporto».

Per esempio, se da un lato continua a essere all’opera quello che l’intellettuale palestinese Edward Said, con riferimento allo sguardo occidentale sull’Oriente, aveva definito “orientalismo”, vale a dire il tentativo di «sminuire, ridurre a pura essenza, privare di umanità altre culture, popoli o regioni geografiche»; dall’altro esiste un “occidentalismo” disumanizzante cui certo fondamentalismo islamico fa ricorso per assoldare alla propria causa.

La potenza del meccanismo può non essere la stessa – tra donne e uomini, neri e bianchi, proletari e possidenti la sproporzione di mezzi può determinarne l’impatto – ma il meccanismo sì, è il medesimo.

Se quanto sta accadendo in Ucraina ci colpisce di più il motivo risiede anche in questo processo. Che riguarda tutti. E cui va opposta una strenua resistenza. Teniamolo presente. Per allenare la nostra sensibilità anche quando le bombe non colpiscono l’Occidente.

Credit foto: Guernica (ANSA © Lev Radin/Pacific Press via ZUMA Press Wire)



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