Grano, mais, oli vegetali: l’effetto farfalla della guerra che affama il mondo

La guerra tra Russia e Ucraina non minaccia “solo” la sicurezza geopolitica ed energetica ma anche quella alimentare. Soprattutto in alcuni Paesi del mondo.

Ingrid Colanicchia

Dal Perù al Libano, dall’Indonesia all’Egitto passando per la Somalia e lo Yemen, gli effetti a cascata della guerra in Ucraina sul piano di risorse e materie prime sono molteplici.
Lo sappiamo bene anche noi in Italia visto che siamo i principali acquirenti di gas russo e da subito ci siamo mobilitati per differenziare i nostri approvvigionamenti. E se la Russia esporta soprattutto materie prime di natura energetica come petrolio o gas naturale (principali destinatari dei beni russi in generale sono Cina, Regno Unito, Olanda, Bielorussia e Germania), la parte del leone nell’export ucraino è invece costituita da prodotti agricoli come oli vegetali, mais e grano, assieme a materie prime come ferro e derivati, con principali destinatari Cina, Polonia, Turchia, Egitto e la stessa Russia.

In particolare, secondo gli ultimi dati dell’Observatory of Economic Complexity, relativi al 2020, l’Ucraina è la maggiore esportatrice al mondo di oli vegetali, con principali Paesi destinatari India, Cina, Olanda, Spagna e Iraq. È il quarto Paese al mondo per esportazioni di mais con destinazioni principali Cina, Olanda, Egitto, Spagna e Turchia. E quinto esportatore al mondo di grano soprattutto verso Egitto, Indonesia, Pakistan, Bangladesh e Libano. Considerato che anche la Russia è una grande esportatrice di grano (di quest’ultimo bene è la più grande esportatrice al mondo) non è un caso che sin dall’inizio dell’invasione la Fao abbia lanciato l’allarme circa i rischi del conflitto per l’agricoltura globale.

Che sia già per reali carenze o per speculazioni, a solo un mese dall’inizio della guerra l’Indice Fao dei prezzi alimentari aveva già raggiunto una media di 159,3 punti, in aumento di 17,9 punti (12,6%) rispetto a febbraio, facendo un balzo da gigante e raggiungendo il livello massimo dal suo inizio nel 1990. In particolare l’Indice dei prezzi dei cereali a marzo aveva raggiunto una media di 170,1 punti, in aumento di 24,9 punti (17,1%) rispetto a febbraio, mentre l’indice dei prezzi dell’olio vegetale una media di 248,6 punti, in aumento di 46,9 punti (23,2%) rispetto a febbraio.

Tra i Paesi maggiormente dipendenti dalla esportazione di grano dalla Russia o dall’Ucraina (dipendenza superiore al 70% secondo i dati Fao, in alcuni casi del 90-100%) ci sono: Eritrea, Kazakistan, Mongolia, Armenia, Azerbaigian, Georgia, Somalia, Bielorussia, Kirghizistan, Turchia, Repubblica democratica del Congo, Finlandia, Libano, Madagascar ed Egitto.

Quest’ultimo è il principale importare di grano al mondo (seguito da Cina, Turchia, Nigeria e Indonesia) e sta fronteggiando un significativo aumento dei prezzi. Stesse difficoltà che si trovano a dover gestire, come se già non avessero altri problemi, il Libano, la Somalia, lo Yemen…

A quest’ultimo Paese in particolare, che dipende quasi interamente dalle importazioni di cibo e che è teatro di un conflitto che dura dal 2014, la guerra in Ucraina sta di fatto dando il colpo di grazia.

Altra questione centrale in materia di agricoltura, che giustamente preoccupa la Fao, è quella dei fertilizzanti: stando ai dati del 2021, la Federazione russa è infatti primo esportatore mondiale di fertilizzanti azotati e secondo fornitore leader sia di fertilizzante potassico sia di fertilizzante fosfatico. I Paesi maggiormente dipendenti (più del 40%) sono Mongolia, Bielorussia, Finlandia, Kazakistan, Estonia, Moldova, Azerbaigian, Kirghizistan, Serbia, Lettonia, Honduras, Camerun, Georgia, Perù e Armenia.

La questione, assieme all’aumento dei prezzi del carburante, è stata al centro delle proteste che hanno interessato il Perù nelle ultime settimane. Ed è anche all’origine del comportamento del Brasile di Jair Bolsonaro rispetto al tema “sanzioni” (il Paese è il principale importatore al mondo di fertilizzanti e dipende per più del 20% dalla Russia): nonostante a marzo abbia votato le risoluzioni Onu di condanna alla Russia, lo ha fatto con ampi distinguo proprio rispetto alle sanzioni.

Torna infine alla ribalta l’olio di palma, con buona pace delle proteste degli ambientalisti, e l’Indonesia, che ne è prima esportatrice al mondo (52% dell’offerta mondiale), annuncia l’interruzione di tutte le esportazioni fino a quando non sarà in grado di garantire l’approvvigionamento alimentare del proprio Paese: mossa che non farà che destabilizzare ulteriormente i mercati.

La lezione è scontata ma non per questo meno preoccupante: guerra e fame sono due piaghe che vanno a braccetto. E a pagarne il prezzo è anche la causa ambientalista.

 



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