In fuga dalla guerra: il racconto di Khaled, un ragazzo di 25 anni

La guerra in Yemen. La paura di morire sotto i colpi di artiglieria. La decisione di un giovane e di suo fratello: andare via dal Paese. In qualsiasi modo.

Velania A. Mesay

Scoppiava a settembre del 2014 la guerra in Yemen. Un conflitto, in realtà, da inserirsi nelle conseguenze di riflesso della primavera araba e che già dal 2011 aveva manifestato i primi segni di vitalità. Alla fine di gennaio di quell’anno, infatti, migliaia di manifestanti si riuniscono a Sana’a e in altre città per chiedere le dimissioni del presidente yemenita ‘Ali ‘Abd Allah Saleh, al potere dal 1990. Inizialmente Saleh risponde a quest’ondata di proteste lasciando spazio a delle piccole concessioni, come l’aumento degli stipendi ai dipendenti statali e soprattutto la promessa di non ricandidarsi a fine mandato. Ma queste si riveleranno delle risposte troppo deboli per fermare l’ondata di ribellione che si era diffusa nel Paese.

Le manifestazioni si susseguono una dopo l’altra fino al 18 marzo, data in cui durante una protesta a Sana’a i lealisti di Saleh aprono il fuoco sulla folla uccidendo più di cinquanta persone. L’episodio provoca le dimissioni per protesta di decine di funzionari yemeniti, tra cui diplomatici, ministri e membri del parlamento. Era l’inizio di una lunga guerra civile. Per fermare i disordini nella capitale vengono chiamate le truppe governative dalle aree periferiche del Paese. Lasciare sguarnite queste zone permetterà ai gruppi ribelli di canalizzare il dissenso. Nel nord sarà la minoranza sciita degli huthi a farlo. In alcune province del sud, invece, ci penseranno i membri di al-Qaeda.

Nel 2012 ad intervenire per frenare le crescenti violenze sarà il Consiglio di cooperazione degli stati del golfo persico, GCC, guidato dall’Arabia saudita, la quale favorisce l’ascesa in Yemen del vicepresidente Abd-Rabbu Mansour Hadi. Ma la situazione non cambia. Anzi peggiora. Quest’ingerenza non fa altro che aumentare la disapprovazione e il malcontento dei gruppi ribelli, in particolare degli houthi che conquisteranno la capitale Sana’a nel 2014 costringendo il presidente Hadi alla fuga nella capitale saudita Riyad.

Inizia così il coinvolgimento sempre più attivo dell’Arabia saudita nella questione yemenita che punta a reinstallare il governo di Hadi nel Paese. Si forma la coalizione saudita composta da: Arabia saudita, Emirati arabi uniti, Sudan, Giordania, Bahran, Kuwait, Qatar, Egitto, Marocco e Senegal. Il primo obiettivo è quello di rendere stabile il vicino Yemen con il quale l’Arabia saudita condivide 1300 chilometri di frontiera. Il secondo, non meno importante, è frenare l’influenza dell’Iran nel Paese. E per farlo si è ricorso alle armi: dal 2015 ad oggi la coalizione ha sferrato più di 150 attacchi aerei su obiettivi civili in Yemen, colpendo case ed ospedali. La sola campagna aerea ha ucciso più di 15000 persone, alle quali si devono sommare le centinaia di migliaia di civili che sono morti a causa dei combattimenti o delle loro conseguenze indirette, come la fame.

Gli effetti sulla popolazione civile di una guerra di così grande portata sono devastanti. Lo Yemen, infatti, è vittima di una delle più grandi crisi umanitarie su scala globale. L’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati conta che il 73% della popolazione dipende dagli aiuti umanitari per sopravvivere e che l’escalation del conflitto ha spinto l’80% della popolazione sotto la soglia di povertà. Più di 14 milioni di civili sono in grave stato di bisogno e più di 3 milioni di persone sono state sfollate dalle loro case dal 2015 ad oggi. Ad esasperare questo drammatico quadro è stata anche la strategia, perpetrata dalla coalizione saudita, di utilizzare gli aiuti umanitari come arma. Sette anni fa, infatti, la coalizione ha creato una barriera marittima, aerea e terrestre intorno al Paese per rendere impossibile l’arrivo degli aiuti umanitari. Aiuti di cui la popolazione ha disperato bisogno. Save the Children stima che in Yemen ogni dieci minuti muore un bambino a causa di malattie prevenibili come la diarrea, la malnutrizione ed infezioni del tratto respiratorio. E come se non bastasse, da ottobre 2016, si è diffusa un’epidemia da colera che secondo l’UNICEF è da ricondursi agli effetti a lungo termine della guerra sul paese: alla distruzione delle strutture sanitarie, alla mancanza di acqua e all’impossibilità di mantenere delle buone norme igieniche. Le città sono immerse nella spazzatura e i più affamati sono costretti a cercare rimasugli di cose commestibili proprio al suo interno.

L’onda del conflitto ha forzato decine di migliaia di yemeniti a fuggire dal Paese. Secondo le ultime statistiche si tratta di 600mila persone dal 2015 ad oggi, molte delle quali hanno trovato riparo nelle vicine Gibuti e Somalia. Quest’ultima è lungi dal potersi considerare un paese sicuro ma essendo tra le firmatarie della Convenzione di Ginevra del 1951 ha l’obbligo di consentire l’ingresso nel paese ai richiedenti asilo. Anche Khaled, yemenita di venticinque anni, ha cercato riparo in Somalia quando la guerra è scoppiata nella sua città natale, Aden. Lo incontriamo in un affollato bar di Amman, in Giordania, dove vive da alcuni anni con la sua famiglia. “Ricordo perfettamente il momento in cui ho deciso di andarmene” racconta Khaled: “Era tardo pomeriggio ed io stavo in casa con mio fratello. A un certo punto abbiamo iniziato a sentire i primi colpi di arma da fuoco. Passano i minuti, poi le ore, ed il frastuono degli spari e delle bombe a mano si fanno sempre più rumorosi e sempre più vicini”. I due si rifugiano in un angolo della cucina terrorizzati. I ribelli stavano combattendo nella strada accanto a quella della loro abitazione. Ed è proprio in quel giorno che Khaled si è convinto che l’unica maniera per salvare la sua vita era abbandonare il Paese. All’inizio suo fratello era riluttante all’idea di lasciare la sua città ma alla fine Khaled lo convince. I due salgono a bordo di una piccola imbarcazione insieme ad altri mille profughi nel porto di Aden. Lo scafo poteva trasportarne solo 400 ma nessuna voleva tirarsi indietro”.

Uno dopo l’altro, quasi in guerra tra di noi, siamo saliti sulla barca. Dopo pochi minuti, questa aveva già raggiunto il limite massimo di capienza ma nessuno voleva rinunciare alla partenza. Il capitano è andato su di giri. Urlava alla folla dicendo che saremmo affondati, ma niente poteva convincerci a tornare indietro”. Khaled fissa la tazzina di caffè che ha davanti a sé e ripete catartico un paio di volte: “Preferivo morire affogato in mare che con il volto insanguinato riverso a terra come quelli che avevo visto per le strade del mio quartiere”. Lo scafo alla fine salpa e attraversa il golfo di Aden per giungere in Somalia dopo 35 ore di navigazione durante le quali non è mancato il mare mosso, la paura di affondare e le grida di gioia quando si è intravista la costa del paese africano.

Khaled continua il suo racconto descrivendo l’incredulità dei somali alla vista dell’imbarcazione sovraffollata. “Si chiedevano come non fossimo affondati quando uno dopo l’altro abbiamo messo piede a terra. Mi ricordo un uomo che, vedendoci sbarcare, commentò a suo figlio: ‘Ma quanti sono? Non finiscono più’”. La loro accoglienza è stata calorosa: hanno distribuito acqua e viveri per tutti. “Sembravano entusiasti del nostro arrivo” ricorda Khaled. Vengono, inoltre, distribuiti a tutti i profughi dei biglietti per viaggiare gratuitamente all’interno del paese. C’è chi va nella capitale Mogadiscio e chi invece raggiunge parenti o conoscenti in altri punti della Somalia. Chi invece non sa dove andare accetta l’offerta del governo di essere trasferito in un campo profughi e così faranno anche Khaled e suo fratello che alla fine ci rimarranno per tre anni. Khaled in questo periodo viene assunto da una ong come interprete e ricorda quegli anni in Somalia come tra i migliori della sua vita. “Avevo un lavoro, guadagnavo bene e possedevo persino una macchina. È stata l’unica volta in vita mia in cui ne ho avuta una”. Ma poi il disordine dell’anarchia somala giunge anche lì. I raid del fronte islamista di al-Shabāb, il timore ad uscire appena il sole calava, la paura di essere derubati ed uccisi erano dei segnali che Khaled già conosceva bene. “Mi sentivo in pericolo e nonostante non volessi andarmene, avevo capito che non avevo alcuna altra scelta se volevo salvare l’incolumità mia e di mio fratello”. I due ricominciano allora il viaggio all’indietro. Tornano in Yemen e da lì fanno richiesta d’asilo in Giordania. La prima volta non vengono accettati, la seconda sì. Arrivano ad Amman alla fine del 2018. Adesso la loro unica speranza è quella di essere ricollocati in un altro Paese perché la vita in Giordania non è facile. L’accesso all’educazione gli è negato come quello a delle posizioni lavorative che non siano tra le più umili. Passeggiamo per il quartiere di Jabal Amman dove risiede con la sua famiglia. Si tratta di una zona dove si concentra soprattutto la comunità somala, yemenita e sudanese. Ad un incrocio trafficato, prima di salutarci, Khaled mi dice: “Io tutto sommato sono fortunato. Sono arrivato poco prima che la Giordania chiudesse i fronti ai profughi yemeniti”.

Dalla fine del 2019, infatti, la Giordania ha chiesto all’UNHCR di interrompere la registrazione di nuovi richiedenti asilo ed è per questo che gli yemeniti che sono arrivati in Giordania dopo il 2019 non possono presentare domanda di asilo all’UNHCR, né possono accedere all’assistenza umanitaria. Human rights watch lo scorso anno aveva denunciato l’ordine di espulsione emesso dalle autorità giordane per quattro richiedenti asilo yemeniti e la deportazione contro altri che avevano presentato richiesta di asilo. Le autorità hanno varato la maggior parte degli ordini di espulsione dopo che gli yemeniti avevano tentato di richiedere un permesso lavorativo per provare a regolarizzare il loro status di immigrati nel Paese.

Nel frattempo, la guerra in Yemen continua a mietere vittime. Lo scorso 2 aprile le parti coinvolte nel conflitto hanno firmato una tregua alla quale è seguita la cessazione delle operazioni militari. Solo in un mese, da aprile a maggio, il numero delle vittime civili è calato del 50%. Il patto che inizialmente doveva scadere il 2 giugno è stato invece esteso per altri due mesi, cosa che ha acceso dei bagliori di speranza specialmente nella popolazione civile anche se gli analisti sono ancora molto cauti nel parlare di “risoluzione del conflitto”.

CREDIT FOTO: EPA/YAHYA ARHAB



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