Hamas e Israele combattono anche attraverso il controllo dell’informazione

L’informazione è un diritto, ma durate le guerre, e in particolare nel conflitto in corso tra Israele e Hamas, i giornalisti non solo sono impossibilitati a svolgere il loro lavoro ma vengono anche uccisi per impedire loro di diffondere le notizie.

Checchino Antonini

Una buona informazione è uno degli ingredienti per una pace giusta. Nella guerra tra Israele e Hamas – come di fatto in tutti i contesti di guerra – è in atto una dinamica di disinformazione che polarizza l’opinione pubblica mondiale e crea un clima che ignora tutte le sfumature, sia di questo particolare confronto che, più in generale, del conflitto tra israeliani e palestinesi che va avanti da 75 anni. Una delle cause principali di questa polarizzazione è l’impossibilità per gran parte della stampa di lavorare sul campo per via della decisione dei governi israeliano ed egiziano di non permettere ai giornalisti di entrare nella Striscia. Lì operano professionisti palestinesi che lavorano quasi tutti in condizioni terribili, in cui la loro vita e quella delle loro famiglie è messa a rischio dai bombardamenti dell’esercito israeliano.
Partiamo da Londra dove lunedì scorso, Ofcom, ente di regolamentazione delle trasmissioni radiotelevisive, ha sospeso Fadzai Madzingira, la sua direttora della supervisione della sicurezza online, dopo che sono state rese note da un sito di destra le sue opinioni apparentemente “estremiste” sulla guerra di Israele contro Gaza. Madzingira aveva condiviso le sue opinioni sulla guerra a Gaza sul suo account privato di Instagram. In una story di Instagram Madzingira ha raccontato il suo “panico” e la sua “disperazione” per quanto sta accadendo in Medio Oriente. “Soprattutto perché non riuscivo a elaborare il fatto che continuassimo ad agire con sorpresa di fronte a ciò che accade in uno Stato di apartheid…”, ha scritto.

Madzingira ha anche apprezzato un post di BLM UK (Black lives matter), che critica il sostegno del Regno Unito a Israele come “vile alleanza coloniale”, affermando che la decisione di inviare navi della Royal Navy in Medio Oriente sta partecipando alla “pulizia etnica e al genocidio dei palestinesi”.
«Quale parte di questo dovrebbe essere scioccante», si domanda Simon Childs, editorialista di Novaramedia, sito britannico alternativo ma molto ben costruito. Israele pratica l’apartheid, secondo esperti delle Nazioni Unite, Amnesty International e Human Rights Watch. Child ha ricordato che proprio l’Onu ha avvertito che c’è il pericolo di una pulizia etnica a Gaza, mentre oltre 800 accademici hanno avvertito che potrebbe essere in atto un “crimine di genocidio”. L’idea che Israele sia “coloniale” è oggetto di discussione nella stessa stampa liberal di Israele. Un esperto delle Nazioni Unite ha chiesto il riconoscimento dell'”occupazione coloniale intenzionalmente acquisitiva, segregazionista e repressiva” di quello Stato. Ma, secondo la destra inglese sono “estremiste” (e quindi sanzionabili) le opinioni personali di una delle rare donne nere che occupano posizioni dirigenziali all’Ofcom.
Sappiamo che nelle “democraticissime” Gran Bretagna, Francia e Germania una possente macchina repressiva si è abbattuta sui movimenti di solidarietà con la Palestina e la repressione, proprio come la guerra, è una macchina che funziona costruendo narrative alterate, menzogne, insomma.
Avvicinandoci a Gaza, mentre l’esercito di Israele si appresta all’invasione, questo connubio tra guerra e fake news è ancora più tossico.
Al momento in cui scriviamo questo articolo, sono almeno 23 i giornalisti tra gli oltre 4.000 morti da entrambe le parti dall’inizio della guerra il 7 ottobre. Molti più di tutte le morti violente di cronisti degli ultimi 23 anni. Ricordiamo ai “campisti”, ai patiti di geopolitica e di wargames che almeno il 70% delle persone ammazzate davvero sono civili, anziani, donne e bambini e in maggioranza schiacciante palestinesi. Fra questi c’è l’intera famiglia del giornalista Wael Al-Dahdouh, uccisa due giorni fa da un bombardamento israeliano avvenuto in un punto a sud della Striscia dove Israele stesso aveva suggerito ai civili di rifugiarsi. Solo per un puro caso il giornalista è scampato a un bombardamento a sua volta.
A stilare il triste computo dei cronisti uccisi è il Committee to Protect Journalists, un’organizzazione indipendente con sede a New York, che indaga e verifica le segnalazioni. 23 giornalisti sono stati confermati morti: 19 palestinesi, 3 israeliani e 1 libanese; 8 dichiarati feriti e 3 dispersi o detenuti. Si stanno verificando numerose segnalazioni non confermate di altri giornalisti uccisi, scomparsi, detenuti, feriti o minacciati e di danni agli uffici dei media e alle abitazioni dei giornalisti.
“Il CPJ sottolinea che i giornalisti sono civili che svolgono un lavoro importante in tempi di crisi e non devono essere presi di mira dalle parti in guerra”, ha dichiarato Sherif Mansour, coordinatore del programma Medio Oriente e Nord Africa del CPJ.

Nell’enclave palestinese, i giornalisti sono in prima linea e si mettono a rischio per riportare le notizie. Le autorità israeliane, da parte loro, fanno di tutto per impedire che le immagini scavalchino il Muro.
Il primo giornalista a essere ucciso è stato Ibrahim Lafi. Aveva solo 22 anni. È morto sabato 7 ottobre. Il suo corpo è stato trovato vicino alla barriera di separazione con Israele. Come sempre, indossava il suo gilet blu antiproiettile con la scritta “Press”.
“Questo è il periodo più difficile che abbia mai dovuto affrontare nel mio lavoro. È un disastro. Sono anni che affrontiamo le offensive israeliane e il blocco, ma questo è orribile”, ha detto il fotoreporter Roshdi Sarraj poco prima di essere ucciso lui stesso, domenica 22 ottobre, dal fuoco israeliano. Ibrahim Lafi era suo amico e lavoravano entrambi per l’agenzia Ain Media. “Noi giornalisti di Gaza siamo terrorizzati quando andiamo sul campo. Perché lasciamo le nostre famiglie nelle case e l’esercito israeliano può prenderle di mira”, ha confidato il gazese a Céline Martelet di Mediapart. Sua figlia ha appena compiuto un anno. “Non riesce più a dormire”, ha detto il padre.

I giornalisti palestinesi devono anche affrontare un’enorme sfida logistica per diffondere le loro foto, immagini e reportage. Israele ha imposto un assedio totale sulla Striscia di Gaza. L’accesso a Internet è stato notevolmente ridotto. Devono anche trovare l’elettricità per ricaricare le batterie delle loro macchine fotografiche. “Così alcuni si recano negli ospedali per collegarsi ai generatori ancora funzionanti, oppure usano le batterie delle loro auto. Se hanno ancora un’auto… – ha spiegato Roshdi Sarraj – Israele sta anche cercando di tagliare fuori la Striscia di Gaza dai media, riducendo il nostro accesso a Internet”. Un blackout mediatico che serve anche a occultare il più possibile le prove dei crimini di guerra di Tel Aviv.
Secondo l’Unione dei giornalisti palestinesi, sono state distrutte più di cinquanta strutture mediatiche. “Le autorità israeliane stanno imponendo un blackout mediatico sulla Striscia di Gaza, soffocando il giornalismo”, afferma anche Jonathan Dagher, responsabile dell’ufficio per il Medio Oriente di Reporter senza frontiere (RSF). Molti giornalisti hanno dovuto evacuare le loro case senza documenti o attrezzature. Altri non hanno più una casa. Vivono nel terrore e tutte queste condizioni rendono quasi impossibile il loro lavoro. Raccogliere informazioni e trasmetterle sta diventando sempre più complicato, e questo è intenzionale”.
Molti dei giornalisti palestinesi a Gaza sono donne. In particolare fotografe, come Samar Abu Elouf. Queste foto di bambini feriti sono state pubblicate dal New York Times. In un video postato su Instagram la scorsa settimana, la donna scoppia in lacrime quando ritrova il figlio e la figlia, che non vede dall’inizio dell’offensiva. Li abbraccia mentre indossa ancora il gilet antiproiettile.

Roshdi Sarraj, da parte sua, aveva scelto di rimanere nella Striscia di Gaza; di rimanere a Gaza City con sua moglie e sua figlia, nonostante l’esercito israeliano abbia avvertito fin dall’inizio della sua offensiva che la città è uno dei suoi obiettivi. Prima del 1948, la famiglia di Roshdi Sarraj viveva a Jaffa, a sud di Tel Aviv. Furono sfollati con la forza durante quella che i palestinesi chiamano la Nakba. In quell’anno, 700.000 palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case dopo la proclamazione dello Stato di Israele. Per lui, fuggire di nuovo è fuori questione. “Non me ne andrò mai. So che vogliono che lasciamo la nostra terra per sempre. Lo hanno già fatto nel 1948. Quindi resterò qui anche se rischiamo di morire”.
La guerra, dunque, è anche guerra delle narrazioni tra Hamas e Israele. Dal 7 ottobre i due belligeranti hanno incrementato gli sforzi per imporre la loro visione del conflitto attraverso filmati di propaganda e la manipolazione dell’informazione. Una guerra di comunicazione che è ovunque, anche nei videogiochi.
Martedì 17 ottobre, un razzo ha colpito un ospedale di Gaza. L’attacco ha immediatamente suscitato un coro di condanne internazionali, soprattutto perché le autorità palestinesi parlavano di un bilancio di centinaia di morti. Ma chi c’è dietro l’attacco? Non appena le prime immagini sono state rese note, è scoppiata una battaglia di comunicazione tra Hamas e Israele, con ciascuna delle due parti che ha accusato l’altra. Hamas, attraverso il suo ufficio stampa e il suo canale Telegram, ha attribuito la colpa dell’esplosione a un missile di fabbricazione americana che “avrebbe potuto essere lanciato solo da un aereo, visto che Hamas non ne possiede”, citando “l’americano Wall Street Journal”. L’informazione, ripetuta più volte sui social network e da alcuni media iraniani e libanesi, in realtà non è mai stata data dal quotidiano finanziario statunitense.
Dall’altra parte, anche la macchina della propaganda israeliana si è rapidamente messa in moto. Con alcune contraddizioni. Prima, Hananya Naftali, portavoce digitale di Netanyahu ha rivendicato l’azione – “Israele ha appena attaccato una base di Hamas all’interno dell’ospedale di Gaza…Un alto numero di terroristi sono morti…è devastante che Hamas lanci razzi da una base interna all’ospedale…” – poi ha cancellato il tweet. Il portavoce di Tsahal, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha convocato una conferenza stampa per presentare alla stampa “le prove” che la Jihad islamica sarebbe responsabile del “tiro sbagliato” che ha devastato l’ospedale battista di Al-Ahli-Arabi. Il portavoce ha poi elencato gli indizi che attestano la versione israeliana – ricostruzione basata su immagini satellitari e registrazioni audio di una conversazione intercettata tra operatori di Hamas – che sono stati ampiamente diffusi sui social network di Tsahal (l’esercito israeliano) e sulle sue ramificazioni. A chiudere la partita, per ora, il veto di Israele a un’indagine indipendente sulla strage. Motivazione ufficiale: “Spero che vi fidiate più di noi, di un Paese democratico, che di un’organizzazione terroristica”, ha detto l’ambasciatore di Israele presso la UE Haim Regev. Nonostante tutto alcune testate e network internazionali stanno continuando la ricerca indipendente su quella strage.

Questa battaglia di versioni, lungi dall’essere aneddotica, illustra la guerra asimmetrica della comunicazione e dell’informazione condotta dalle due parti. Ciascuna parte, con le proprie risorse, sfrutta al meglio il know-how accumulato in anni di sviluppo e perfezionamento di strategie volte a imporre la propria narrazione del conflitto. E, soprattutto, per ottenere il sostegno dell’opinione pubblica internazionale. Lo abbiamo visto per esempio con le reazioni al video del rilascio dell’ostaggio israeliano Yocheved Lifshitz, 85 anni, diventato in breve virale per il saluto quasi fraterno che la donna rivolge ai suoi carcerieri mentre la stanno liberando.
Da quando Tsahal ha deciso di bombardare a tappeto la Striscia di Gaza, l’offensiva militare è stata accompagnata da una campagna digitale a tutto campo, in una varietà di toni, lingue e media. Come simbolo di questa comunicazione a tutto campo, l’esercito israeliano è presente su tutti i social network.
Su X (ex Twitter), Tsahal comunica in sette lingue, tra cui francese, inglese, arabo e russo. Su Telegram, tiene un registro quasi minuto per minuto delle sue operazioni e delle minacce attuali. Su Instagram critica violentemente i leader di Hamas e su YouTube acquista spazi pubblicitari per trasmettere i suoi filmati di propaganda, in violazione delle regole dei media, come ha spiegato bene il sito Arrêt sur images.
Oltre agli account ufficiali dell’esercito e del governo, le comunicazioni dello Stato ebraico sono veicolate anche attraverso personalità influenti sui social network, alcune delle quali sono diventate influencer della causa israeliana. Come Hananya Naftali, il portavoce citato prima, un soldato israeliano che è in parte propagandista di Tsahal e in parte creatore di contenuti, che ha oltre 350.000 abbonati su X e i cui video su YouTube sono visti da centinaia di migliaia di persone. Lo chiamano il Guru dell’Hasbarà una parola che, in lingua ebraica, indica gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni.
Distilla le comunicazioni del governo per un pubblico di lingua inglese, in particolare indiano e americano. In brevi video ritrae sé stesso, con la bandiera israeliana sullo sfondo, e presenta il bombardamento di Gaza come una guerra tra “bene e male”: “La guerra in Israele è anche la vostra guerra, perché il male che colpisce il nostro Paese non conosce confini”.

Secondo il sito web Politico, il Ministero degli Esteri israeliano ha trasmesso cinquanta clip di propaganda in inglese nei Paesi dell’Unione Europea, mentre gli spettatori degli Stati Uniti e del Regno Unito hanno ricevuto rispettivamente dieci e tredici spot. Uno di questi video è stato visto più di tre milioni di volte.
Alcuni di questi video, con contenuti particolarmente espliciti e violenti, sono stati rimossi. Inoltre, diverse piattaforme, tra cui X e Meta, sono state richiamate all’ordine dal Commissario europeo Thierry Breton, responsabile dell’applicazione delle norme UE sulla moderazione dei contenuti online. L’Unione Europea è preoccupata per l’esplosione di immagini violente e di false informazioni sulle piattaforme dopo l’attacco mortale di Hamas e l’operazione militare israeliana di rappresaglia.
Dal 7 ottobre gli utenti di alcuni videogiochi per smartphone molto popolari, accessibili a partire dai 3 anni, si sono trovati di fronte a clip prodotte dal governo israeliano al posto dei soliti noiosi spot pubblicitari. Tra questi c’è il gioco Top Eleven, un best-seller con centinaia di milioni di download.
Il contenuto di questi video viola ampiamente le norme che regolano i contenuti pubblicitari sulle piattaforme online. Mostrano immagini molto crude di violenza, cadaveri di bambini e combattenti armati, e raccontano di abusi fisici perpetrati da Hamas, accompagnati da una musica triste. Altri filmati, dal tono molto più marziale e minaccioso, promettono a chi “attacca” Israele che “pagherà un prezzo pesante”.

I messaggi rimandano principalmente ai canali YouTube di due enti governativi israeliani, il Ministero degli Affari Esteri e il Ministero della Diaspora, entrambi gestiti da membri del Likud, il partito del Primo Ministro Benyamin Netanyahu. Nordeus, l’editore serbo del gioco Top Eleven, ha dichiarato al sito francese Mediapart che sta “compiendo sforzi per bloccare in modo proattivo gli annunci di fornitori terzi” che violano le regole. “Sfortunatamente […], i trasgressori di tanto in tanto sfuggono alla rete sbagliando l’etichetta dei contenuti o cambiando dominio”, ha lamentato l’editore. L’esercito israeliano dice di non aver nulla da comunicare su “tali questioni”.
La consapevolezza del peso dei social network nella costruzione della narrazione ha iniziato a emergere nel 2012, quando Israele ha lanciato la versione digitale dell’hasbara. Questa strategia di comunicazione, pensata per influenzare un pubblico più giovane sommergendolo di immagini e informazioni accuratamente selezionate, è accompagnata dalla creazione di un’unità “nuovi media”, collegata all’ufficio del portavoce di Tsahal.
Nel 2021, l’esercito ha lanciato l’operazione “Guardiani delle mura” in risposta agli attacchi missilistici provenienti dalla Striscia di Gaza e ha bombardato l’enclave palestinese. Allo stesso tempo, dopo aver trascorso nove anni a perfezionare la sua strategia digitale, ha attivato falsi account su Twitter per creare commenti positivi sulle azioni di Tsahal.
Oltre a diffondere ampiamente la propria versione del conflitto, Israele – come abbiamo già detto – è anche particolarmente proattivo nel tenere la Striscia di Gaza lontana dagli occhi e dalle telecamere dei reporter stranieri. I media internazionali hanno difficoltà a documentare il destino delle popolazioni prigioniere dell’enclave palestinese.
Nel 2008, ad esempio, Israele ha deciso di estendere il blocco di Gaza ai giornalisti. I media hanno quindi dovuto accontentarsi delle immagini fornite dai corrispondenti palestinesi che si trovavano nella zona bombardata. Anche gli edifici che ospitano gli uffici della stampa estera non sono stati risparmiati dai bombardamenti.
Recentemente, il ministro delle comunicazioni israeliano ha annunciato l’intenzione di espellere il canale qatariota Al Jazeera dal suo ufficio di Gerusalemme, ripetendo una minaccia fatta nel 2017, criticando la sua posizione pro-Hamas e accusandolo di esporre i soldati israeliani a un possibile attacco da Gaza.

Hamas non è da meno nel suo costante desiderio di controllare le immagini. Nel 2017, ad esempio, Amnesty International si è indignata per l’arresto di due giornalisti, “impedendo ad altri professionisti dei media di svolgere liberamente il proprio lavoro” e imprigionato “almeno dodici palestinesi” per commenti critici postati su Facebook.
Nel 2020, Hamas – lo ha denunciato Reporters sans frontières – ha vietato ai giornalisti locali di lavorare per il canale saudita Al Arabiya. In questi giorni proprio è diventata virale una intervista “non sdraiata” di Rasha Nabil, giornalista di questa emittente che ha incalzato Khaled Meshal, uno dei capi dell’organizzazione integralista.
La Palestina est è al 153esimo posto su 180 paesi nella classifica sulla libertà di stampa stilata ogni anno da Reporters sans frontières, per la quale “le offensive militari israeliane” così come “la politica di Hamas” rappresentano una “minaccia per l’informazione”.
Dal canto suo Hamas, anche se ha solo un account ufficiale sul social network Telegram, il partito islamista ha alle spalle un know-how collaudato che gli permette di diffondere i suoi messaggi e di aggirare la censura. Molto prima che il movimento nazionalista lanciasse l’operazione “Diluvio di al-Aqsa” contro Israele, i suoi organi di propaganda trasmettevano video di loro combattenti che costruivano armi, sparavano razzi e si addestravano a pilotare gli ultraleggeri. Quando i combattenti di Hamas hanno attraversato il muro tra Gaza e Israele, i video del loro assalto sono stati immediatamente pubblicati sui social network, il che implica un certo livello di coordinamento e preparazione.
Nelle sue campagne di propaganda, il partito islamista utilizza diverse tecnologie per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale, e in particolare quella araba, sulle sofferenze dei palestinesi. Il sito web di Hamas, ad esempio, pubblica contenuti in arabo, ma anche in francese, inglese ed ebraico.
Nonostante gli sforzi per comunicare all’estero, l’obiettivo principale dei messaggi di propaganda di Hamas rimane la popolazione palestinese. I canali televisivi e radiofonici di Hamas, entrambi con sede a Gaza e denominati Al-Aqsa, offrono notiziari, fiction e persino programmi per bambini con pupazzi che muoiono per mano dell’esercito israeliano o che fanno commenti antisemiti.
Hamas utilizza anche i media, in particolare i social network, per scopi militari e di sorveglianza. In quella che gli ufficiali israeliani hanno soprannominato “Operazione Cuore infranto”, agenti di Hamas si sono spacciati per giovani donne su Facebook, WhatsApp, Telegram e Instagram, convincendo i soldati in servizio a scaricare spyware sui loro dispositivi mobili tramite applicazioni per incontri.
L’obiettivo, per entrambi i contendenti, è sia promuovere le proprie capacità militari che conquistare l’opinione pubblica straniera alla propria causa.
Ad esempio, dato che gli aiuti finanziari americani rappresentano il 16% del bilancio di Israele, il sostegno dell’opinione pubblica americana è fondamentale per lo Stato ebraico. In Europa, la Francia, che ospita la più grande comunità ebraica del Vecchio Continente, e la Germania, che fornisce un notevole sostegno finanziario, sono particolarmente bersagliate dai messaggi di propaganda pro-Israele. Per questo, fin dalla sua nascita, Israele si è rappresentato come una cittadella assediata, anziché come governo occupante come ripetono le risoluzioni Onu disattese dal 1948, e ha sempre cercato di proiettare un’immagine di invulnerabilità alle potenze regionali rivali. Lo scopo di questa strategia di deterrenza è quello di convincere l’avversario che qualsiasi atto di aggressione fallirà, date le capacità offensive di Israele.
Dall’altro lato, i filmati di propaganda di Hamas hanno lo scopo di instillare un senso di paura nella popolazione israeliana, ma anche di rigenerare il sostegno dell’opinione pubblica araba, molto sensibile alla causa palestinese.
Come in ogni guerra anche a Gaza la verità combatte la propria battaglia: il lavoro giornalistico non è un privilegio dei professionisti, ma un diritto, un bene comune, un antidoto alle “bestie”, alle macchine della propaganda che manipolano dati, storie e immagini, distorcono la realtà e modificano geneticamente i contesti in cui dovrebbero svilupparsi le condizioni per costruire condizioni di vita dignitose per tutte e tutti.

Credit Image: © Omar Ashtawy/APA Images via ZUMA Press Wire



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