Hannah Arendt, scienza, verità e mondo comune

Le conseguenze politicamente dannose dell’espansione incontrollata della scienza moderna non escludono per Hannah Arendt la possibilità che nella sfera pubblica essa possa svolgere un ruolo positivo: cercare e preservare la verità.

Edoardo Greblo

1. Premessa
Com’è noto, Hannah Arendt non ha mai nascosto forti riserve nei confronti della scienza moderna, che accusa di avere contribuito a rendere più acuta quell’alienazione del mondo i cui “segni quasi infallibili”, scrive con straordinaria preveggenza, si possono cogliere in “una sensibile diminuzione nel senso comune in una comunità e [in] un sensibile aumento di superstizione e credulità” (Arendt 1989, 154). Tuttavia, anche se ritiene che l’espansione incontrollata della mentalità scientifica, che attribuisce ai sensi una minore capacità di cogliere la verità rispetto a quella superiore della ragione, abbia conseguenze negative per la capacità umana di decidere e operare politicamente, Arendt non si spinge sino al punto di escludere che la scienza possa anche svolgere, nonostante tutto, un ruolo positivo nel dibattito pubblico. Un ruolo strettamente correlato all’impegno, proprio della ricerca scientifica, di perseguire la verità – un impegno essenziale per assicurare al mondo delle cose umane, costituito da apparenze che appaiono e scompaiono, una parvenza di stabilità. Stabilità altrettanto essenziale, a sua volta, per garantire alla sfera condivisa dell’agire-insieme la possibilità di sopravvivere al momento dell’azione e del discorso, anche quando – e anzi, forse soprattutto quando – la libertà dell’opinione finisce per scontrarsi con l’evidenza dei fatti.

La critica di Arendt alla scienza moderna viene spesso valutata nel quadro della sua preoccupazione per la decadenza del discorso e dell’azione dal raggio della ordinaria esperienza umana. E in effetti, le sue osservazioni più rilevanti in questo senso vengono proposte nel capitolo finale di Vita activa, che si occupa delle vicissitudini dell’azione, la capacità di produrre le vicende e le storie che costituiscono la fonte da cui scaturisce il significato che illumina l’esistenza umana. In realtà, le critiche di Arendt non mirano soltanto a dimostrare come il ragionamento scientifico sia diverso dall’azione e dal discorso e come sia pertanto pericoloso subordinare la politica alla scienza. Né si limitano a denunciare i diversi modi con cui la rottura della scienza con il mondo delle apparenze abbia provocato la decadenza del mondo pubblico. A ben guardare, infatti, Arendt non ritiene che tutti gli aspetti dell’ideale scientifico possano essere egualmente e automaticamente considerati fattori di decadenza. Ed è per questo che è opportuno ricostruire le forme e le modalità attraverso le quali si è realizzato il processo di separazione tra essere e apparire e, in secondo luogo, prendere in considerazione l’eventualità che la diffusione della mentalità scientifica possa rappresentare, sotto certi aspetti, un salutare antidoto alla tendenza umana – rispetto alla quale la politica non si rivela certo immune – a negare o a pervertire la verità di fatto se questa entra in conflitto con gli interessi di un gruppo o di una fazione.

2. La scienza e l’alienazione dal mondo
Gli effetti negativi della scienza moderna sul mondo pubblico vengono sintetizzati da Arendt con la formula “alienazione del mondo moderno”, che esprime la duplice fuga dalla terra all’universo e dal mondo all’io. Non tutti gli aspetti di questo processo sono riconducibili allo sviluppo della scienza, ma è soprattutto la mentalità scientifica a incidere di più sulla tendenza a ritrarsi dallo spazio dell’apparenza, che si forma ovunque gli uomini condividano le modalità del discorso e dell’azione che anticipano e precedono “ogni costituzione formale della sfera pubblica e delle varie forme di governo, le varie forme, cioè, in cui la sfera pubblica può essere organizzata” (Arendt 1989, 146)
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