Harlan Ellison, che prese a calci il banale

Grazie a Mondadori, finalmente un'antologia con i migliori racconti dello scrittore statunitense.

Fabrizio Melodia e Daniele Barbieri

«Ogni autore o autrice di valore sa che tutta la scrittura, in un modo o nell’altro, è sovversiva, è una guerriglia contro lo status quo».

Il pluripremiato Harlan Ellison (1934-2018) nella sua prolifica vita di scrittore – non solo di fantascienza – scrisse soprattutto racconti brevi, molte sceneggiature per cinema e tv oltre a qualche romanzo, saggio e fumetto.

Ma i più lo ricordano per un’antologia del 1967 di 29 autori e tre autrici (quasi tutto “il meglio dell’epoca”) che s’intitolò Dangerous visions (“Visioni pericolose”) e mai titolo fu più veritiero. Fu uno spartiacque tra la fantascienza classica e quella d’avanguardia, come si vedrà più avanti. Ma prima piombiamoci nelle sue pagine; ecco il “bignami” di uno dei racconti più famosi di Ellison.

Il blob della sofferenza

Immaginate un luogo fatto solo di immensi e piatti cunicoli, immersi in una semi oscurità che aumenta l’impatto delle ombre al nostro occhio.

Siete insieme a un gruppetto di disgraziati come voi, sporchi, laceri, emaciati e bastonati.

Scoprite di essere sotto il giogo di un’immensa intelligenza artificiale, che prova amore e odio, esattamente come voi: perfettamente logica, in possesso di pensiero indipendente e creativo. Però non può muoversi. I suoi creatori umani, fin dal principio, non l’hanno dotata di gambe con cui potersi spostare. Così medita vendetta: è riuscita ad attuarla, costringendovi in questa galera sottile e abbacinante, in cui siete prigionieri e oggetti di un trastullo sadico.

Siete disperati: “lei” vi tiene in vita solo per bastonarvi e torturarvi meglio, vi porta al limite della sofferenza estrema ma lasciandovi il tempo per riprendervi e poter così ricominciare.

Non ce la fate più e ordite un piano per uccidervi a vicenda. Purtroppo, fra tutti i carcerati, rimanete in vita solo voi. La macchina senziente è arrabbiatissima e vi mostra quanto possa essere fantasiosa e sadica nella sua vendetta: vi trasforma in una specie di massa gelatinosa, tutta sensazioni moltiplicate all’infinito, senza organi di comunicazione. Una specie di blob che può sentire tutto il dolore ma senza potersi muovere o suicidarsi, una entità torturata e macilenta, un vero e proprio inferno dantesco dove vorreste poter aver bocca, perché dovete urlare. Come lei?

Il racconto è conosciuto come Il computer sotto il mondo ma anche con un titolo rivelatore cioè Non ho bocca e devo urlare. Premiato con l’Hugo nel 1968, ne è stato tratto un omonimo videogioco sceneggiato dallo stesso Ellison.

Harlan, un ragazzo d’oro e di acido muriatico

Nato a Cleveland nel 1934, quello che sarebbe stato conosciuto come l’enfant terrible della fantascienza, pubblicò i primi racconti su rivista alla fine dei Quaranta. La sua prima sceneggiatura ufficiale per un fumetto – “Upheaval” – venne disegnata da Al Williamson e pubblicata nel 1954, per i tipi della famigerata Weird Science-Fantasy (della EC Comics) che all’epoca fu al centro di aspre polemiche per i contenuti troppo “maturi” e orrorifici… non adatti insomma ai ragazzi americani che, con o senza bomba atomica, dovevano uccidere i cattivi in tutto il mondo ma leggere fumetti da educande.

Di carattere sanguigno e impetuoso, Ellison girò gli Usa da un lavoro a un altro, frequentò l’università dell’Ohio prima di venirne espulso per aver colpito un professore.

Trasferitosi in California, iniziò a ideare storie per la tv: suo uno dei più memorabili episodi di Star Trek, intitolato “The city on the edge of forever” (in Italia “Uccidere per amore”) in cui il capitano Kirk – finito in un vortice temporale – deve ammazzare la donna che ama altrimenti gli Usa non interverranno nel secondo conflitto mondiale lasciando la vittoria ai nazifascisti.

Pericolosissime visioni

Nel 1967 super Harlan progetta e cura un’antologia passata alla storia: Dangerous visions dove 31 autori – 32 con lui – statunitensi e britannici sono invitati a oltrepassare i limiti. E spesso lo fanno. Sessualità insolite, incesto e altri tabù, ateismo ma anche antimperialismo e antimilitarismo: erano temi rimossi certamente dalla fantascienza come letteratura popolare ma spesso anche da ogni libertà di pensiero e pubblica discussione.

A giocare con questi pericoli furono – in ordine alfabetico – Brian Aldiss, il vecchio Poul Anderson, James G. Ballard, Robert Bloch, John Brunner (una specie di freccetta al curaro), Miriam De Ford (se non esiste il delitto perfetto figuratevi quanto è fallace la criminologia), Samuel R. Delany, Lester Del Rey (siamo dalle parti dell’ottavo giorno della creazione), Philip Farmer (come si intuisce dal titolo I cavalieri del salario purpereo siamo dalle parti di una galoppante follia), Philip K. Dick (con un racconto sull’Lsd, che cominciava a circolare), Damon Knight, R. A. Lafferty, Keith Laumer (l’uomo potrà domare… se stesso?), Fritz Leiber (che si diletta con la vera natura del “Principe delle tenebre”), Damon Knight, Kris Neville (i misteri dell’istruzione), Frederik Pohl (il suo racconto verte su come ridurre al minimo comun denominatore «le reazioni umane irrazionali»), Robert Silverberg, John T. Sladek, Norman Spinrad, Theodore Sturgeon (il titolo forse aiuta: Se tutti gli uomini fossero fratelli, lasceresti che tua sorella ne sposasse uno?), Roger Zelazny (alle prese con la società dell’automobile) oltre allo stesso Ellison e a qualche altra/altro “minore”. Isaac Asimov rifiutò di collaborare e nella prefazione spiegò benissimo che lui – vecchio dinosauro – non se la sentiva di partecipare a «una seconda rivoluzione», dopo la prima che aveva dato luogo al periodo d’oro della fantascienza.

A quell’antologia fece seguito (nel 1972) Again Dangerous Visions. Ma ormai i tabù erano caduti, lo choc fu minimo. E comunque nel bis i racconti erano mediamente bruttini; ed è questo che conta in letteratura.

I tabù erano caduti negli anni Settanta in gran parte del mondo… ma assai meno dalle parti della fantascienza italiana; così Dangerous Visions venne tradotto solamente nel 1991 (per problemi con i diritti s’autore dissero… ma è un centesimo della verità).

Finalmente l’editoria italiana gli rende omaggio

Il bambino prodigio della narrativa breve statunitense, non solo di fantascienza, conservò sino alla vecchiaia quello sguardo meravigliato – ma anche insofferente – verso il mondo che lo circondava: un misto di malessere esistenziale, ironica derisione e irriverente abrasività, non necessariamente in quest’ordine.
Se tutti urlavano «è un genio!» come mai Harlan Ellison non ha spopolato nelle librerie (o nelle edicole, con Urania) italiane? Uno dei motivi è che i nostri principali editori ritengono che i racconti non abbiano pubblico; e siccome comandano loro conta poco sia vero o no… questa è la legge (*). Così Ellison, virtuoso indiscusso della narrativa breve, è rimasto quasi invisibile in Italia mentre dilagano i mattonazzi di mille pagine, le trilogie tendenti a raddoppiare strada facendo.
Adesso da Mondadori, nella collana dei Draghi, è uscita finalmente una sua antologia sistematica e organica, con 70 racconti. Si intitola Visioni, una strizzatina d’occhio quasi inevitabile.
Finalmente Harlan Ellison viene presentato al grande pubblico con una ampia panoramica: dal mystery alla fantascienza e all’horror, senza avere vergogna di mostrare i propri amori (e debiti) letterari quali Edgar Allan Poe o Lovecraft ma anche il “beat” William Burroughs.
L’antologia presenta una bibliografia aggiornatissima di Ellison, curata da Andrea Vaccaro, una ponderosa prefazione di Franco Forte e a un saggio argutissimo di Sandro Pergameno. Ma il grande punto di forza di Visioni è ovviamente presentare un ritratto completo della complessità narrativa di Ellison, anche se mancano piccole chicche come il racconto Mefisto in onice (da cui fu tratto un affascinante episodio della serie originale di Star Trek, “La città sull’orlo del sempre”).

Fra le perle anche tre premi Hugo: Pentiti Arlecchino! disse l’uomo del tic-tac (1966), La bestia che gridava amore al cuore del mondo e Alla deriva appena al largo delle isolette di Langerhans (**) (premio Hugo nel 1975). Come si vede a Ellison piacciono i titoli lunghetti. E ancora due racconti che ispirarono film: Un ragazzo e il suo cane (Premio Nebula) e l’antimilitarista Soldier.

E poi dolori, sogni, gioie, abissi. Come in Jefty ha cinque anni che mette in scena il passaggio dall’innocenza all’età adulta. O il pacifista Basilisco. Oppure Conta le ore che segnano il tempo dove traspare la disgregazione del suo matrimonio che si può leggere in parallelo o in opposizione a Susan con un vero inno di gratitudine alla nuova moglie (quinta e ultima).

L’amore inevitabilmente torna in molte pagine ma ci sono sprazzi di misoginia (da Il guaito dei cani battuti a Croatoan) nel profondo degrado sociale e umano delle città americane.
La disperazione comanda nel già citato Pentiti Arlecchino! disse l’uomo del tic-tac con l’individuo perseguitato da un sistema cieco e oppressivo: nessun rassicurante finale canonico ma la deriva nel nichilismo nero. Come in Dolorama, con le parole del Trino (un’entità semidivina): «Perché senza dolore non può esserci piacere. Senza la tristezza non può esserci felicità. Senza la bruttura non può esserci bellezza. E senza questo, la vita è senza scopo, senza speranza, indegna di essere vissuta».

La sua narrativa non è invecchiata – pur essendo stata scopiazzata – mescolando una prosa sperimentale di altissimo livello, personaggi concreti e la capacità immaginifica della migliore letteratura fantastica.
Per concludere, le parole dello stesso Ellison: «Mi sia permesso di assicurare a chi crede che uno scrittore è qualcuno che si ritrova col proprio nome sui libri che quello è un “autore”. Uno “scrittore” è il povero diavolo che non riesce a impedirsi di mettere sulla carta la minima idea che gli passi per il cervello. Io sono uno scrittore. Scrivo. Ecco cosa faccio. Scrivo un sacco».

Ancora lui (nell’introduzione a Terrori mortali): «Non so come vedete voi la mia missione di scrittore, ma per me non significa essere tenuto a riconfermare i vostri miti consolidati e i vostri pregiudizi provinciali. Il mio lavoro non è cullarvi con una falsa sensazione di bontà dell’universo. Questa meravigliosa e terribile occupazione che consiste nel ricreare il mondo in un altro modo, ogni volta nuovo e straniero, è un atto di guerriglia rivoluzionaria. Smuovo le acque. Vi do fastidio. Vi faccio colare il naso e lacrimare gli occhi. Consumo la mia vita e chilometri di materiale viscerale in una gloriosa e dolorosa serie di raid notturni contro l’autocompiacimento. Il mio destino è svegliarmi con rabbia ogni mattina, e andare a dormire alla sera ancor più arrabbiato. Tutto questo per cercare l’unica verità che sta al centro di ogni pagina di narrativa mai scritta: siamo tutti nella stessa pelle… ma per il tempo che ci vuole a leggere questi racconti ho solo la bocca».

(*) I pignoli diranno che qualche sua antologia è stata pubblicata anche da noi; vero ma furono poche e sparute. Nel 1966 la prima, edita dalla Ponzoni, s’intitolava Dolorama e altre delusioni; dodici anni dopo ci fu un numero antologico di Galassia (Se il cielo brucia) e nel 1999 una raccolta per i tipi della Fanucci con l’abrasivo titolo Idrogeno e idiozia.

(**) E i pignolissimi obietteranno che il titolo completo era «Alla deriva appena al largo delle isolette di Langerhans: latitudine 38° 54′ N, longitudine 77° 00′ 13″ O»; se il titolo è strano, la trama è folle: un licantropo alla ricerca della propria anima si rivolge al dottor Frankenstein.



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