Si può uscire dalla “gabbia d’acciaio” del capitalismo?

Il modo di produzione capitalistico non è solo un modo di produzione economico, bensì anche di produzione “antropologico”. In questa puntata discutiamo la fine del capitalismo (o la sua rinascita) con “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” di Weber e “Oltre la mano invisibile” di Kaushik Basu.

Paolo Favilli

Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, (1905), Firenze, Sansoni, 1965.

Kaushik Basu, Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta, Roma-Bari, Laterza, 2013.

1)  Accostare un libro del 1905 scritto da uno dei padri della sociologia moderna, il «Marx della borghesia», com’è stato anche chiamato[1], un libro su cui sono state scritte centinaia di pagine, ad libro molto recente scritto da un economista indiano, professore alla Cornell University, può apparire un’operazione stravagante.
Eppure quando leggiamo la parte conclusiva dell’Opera weberiana non possiamo sottrarci alla profonda impressione che suscitano le sue riflessioni sul «capitalismo vittorioso», sulla «gabbia d’acciaio» come struttura portante di quello che oggi chiamiamo «capitale totale».
Weber stabilisce un nesso preciso tra «gabbia d’acciaio» e «capitalismo vittorioso». Egli è stato uno dei non molti grandi intellettuali che tra i secoli XIX e XX adoperò il termine «capitalismo» in sede scientifica. Marx usò molto raramente il vocabolo e mai ne Il capitale.
Weber, che nel libro in questione mette fortemente l’accento sull’aspetto culturale, religioso, dell’originario spirito del capitalismo, ritiene che il «capitalismo vittorioso» non abbia più alcuna necessità di quel retaggio. Il «capitalismo vittorioso» non ha bisogno di giustificazioni esterne, la sua meccanica di funzionamento ne garantisce la funzione necessaria. La «gabbia d’acciaio» è, infatti, l’esito necessario «di quel potente ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determina con strapotente costrizione (il corsivo è mio) (…) lo stile di vita di ogni individuo, che nasce in questo ingranaggio e non soltanto di chi prende parte all’attività puramente economica»[2].
Weber si preoccupa di non farsi influenzare dal «dominio dei giudizi di valore» e di rimanere costantemente ancorato ad una dimensione scientifica, tuttavia, quando si prova ad ipotizzare il futuro della «gabbia d’acciaio», non può evitare di porsi inquietanti interrogativi.

Nessuno sa ancora chi nell’avvenire vivrà in questa gabbia e se alla fine di questo enorme svolgimento sorgeranno nuovi profeti o una rinascita di antichi pensieri e ideali o, qualora non avvenga né l’una cosa né l’altra, se avrà luogo una specie d’impietrimento nella meccanizzazione, che pretenda di ornarsi di un’importanza che essa stessa nella sua febbrilità si attribuisce.
Allora in ogni caso per gli ultimi uomini di questa evoluzione della civiltà potrà essere vera la parola: «Specialisti senza intelligenza, gaudenti senza cuore: questo nulla si immagina di essere salito ad un grado di umanità non mai prima raggiunto»[3].
Anche il «Marx della borghesia» non poteva fare a meno di porsi domande di senso.
Nella profonda differenza delle prospettive d’indagine sia Marx che Weber individuavano nelle logiche di movimento immanenti del capitale una tendenza ad un sistema di relazioni sociali, economiche, culturali, politiche non solo strettamente coniugate, ma anche indirizzate verso orizzonti totalizzanti dai quali non poteva certo sottrarsi la dimensione della produzione delle idee.
Una ipotizzata dimensione totalizzante diventata, un secolo dopo, realtà del capitalismo vittorioso. Una dimensione totalizzate sui cui possibili esiti si sono interrogati e si stanno interrogando studiosi e protagonisti politici.
Kaushik Basu la fa riesaminando criticamente quelle categorie analitiche dell’economics, quelle categorie neoclassiche alle quali, per molti versi, intende rimanere interno. E questa è un’ulteriore ragione dell’interesse che suscita il suo libro.
Rimane interno perché dalla «gabbia d’acciaio» è impossibile uscire? «Nessuno, neanche chi ci rimette, – scrive Basu – pone in discussione questo sistema perché ne facciamo parte. Ma se provassimo a guardarlo dal di fuori non avremmo difficoltà a renderci conto che la società in cui viviamo è drammaticamente simile, per diversi e importanti aspetti, alle società più elitarie e meno inclusive della storia conosciuta»[4].
Basu si pone il problema di salvare il capitalismo dal capitalismo. È questione al centro di un dibattito politico/scientifico che ha ormai prodotto una nuova biblioteca di Alessandria. Si deve tenere conto, però, che questo nostro presente non è né postmoderno, né postcapitalistico, ma ancora tutto interno alla seconda modernità del capitalismo. Un presente dove, come recita il titolo di un editoriale[5] di un quotidiano svizzero: Il capitalismo è in forma. E il mondo?

2)  Il 16 settembre 2019 il «Financial Times», forse il giornale di riferimento più autorevole delle ragioni del capitalismo-mondo, ha aperto una discussione su quella che con grande enfasi ha chiamato «The New Agenda». L’oggetto al centro della nuova agenda riguarda questo tema: «Capitalism Time for a Reset». L’editore del giornale, Lionel Barber, indica le linee guida della necessaria reimpostazione. L’obbiettivo non deve essere l’aumento del profitto a breve termine per gli azionisti delle imprese. La salute a lungo termine dell’impresa capitalistica consiste nel cercare il profitto con uno scopo (with purpose). Lo scopo dell’allargamento dell’area dei fruitori di quel profitto. Reimpostare il capitalismo è operazione piuttosto radicale. Significa che un modello di accumulazione, quello degli ultimi quaranta’anni è finito, e che è necessario un nuovo modello perché il capitalismo abbia davvero i «secoli contati».
Nello stesso 2019 un filosofo marxista ha affermato: «A ben guardare (…) vediamo che il cambiamento sta già avvenendo sotto gli occhi di tutti: il capitalismo si sta chiaramente disintegrando per diventare qualcos’altro»[6].
Tali affermazioni propongono due visioni dfferenti della transizione in corso. La prima ipotizza un nuovo ciclo di accumulazione fondamentalmente diverso da quello precedente e nei suoi aspetti sostanziali ancora in corso. Un «nuovo» capitalismo che, di per sé, non implica un mutamento di epoca storica. La seconda, invece, ipotizza la transizione verso un «postcapitalismo», quindi un vero mutamento di epoca storica. Temi sui quali esisteva già e si è ulteriormente raffozata un’ampia e qualificata letteratura.

Indipendentemente dalla fondatezza o meno delle proiezioni sul futuro del capitalismo questa letteratura ha un ruolo importante nella comprensione del presente. La maggior parte degli autori, studiosi di alto livello, utilizza strumenti analitici raffinati, spesso nuovi, che danno una rappresentazione non fotografica del presente. È un presente pluridimensionale quello che emerge dagli studi in questione, un lungo e profondo presente. Un presente dal quale alcuni dei lineamenti proiettati sul futuro sono possibili e forse taluno probabile, ma non esiste nessuna strega che come nel Macbeth possa «penetrare con lo sguardo dentro i semi del tempo e dire quale granello germoglierà e quale no»[7].
Dobbiamo, in primo luogo, mettere in evidenza che già la presenza ormai rilevante ai diversi livelli della pubblicistica di una discussione di cui una delle tesi, il reset della forma capitalistica attuale, è diventata la «nuova agenda» del «Financial Times», è un indicatore di primaria importanza. Prima delle microcrisi di fine e d’inizio secolo e soprattutto prima della nuova «grande crisi», quando tutto il discorso sul capitalismo dipendeva dall’assioma che l’adozione universale dei «principi del liberalismo economico» era il frutto di una «logica [che] (…) predispone le società umane al capitalismo»[8], le attuali posizioni del «Financial Times» sarebbero state impensabili.
Oggi anche il sostenitore della logica della predisposizione delle società umane al capitalismo ipotizza la possibilità che nel prossimo futuro portato da quella «predisposizione» ci potrebbe essere il ritorno ad un «mondo malthusiano premoderno a somma zero, nel quale è la depredazione, non la creazione di nuova ricchezza, a essere la via più semplice alla prosperità». Dall’utopia del mercato autoregolato che dà a ciascuno il suo, alla distopia del mercato che produce «ineguaglianze che sono politicamente intollerabili» perché la distribuzione della ricchezza prodotta non si «riverbera […] a vantaggio di tutti»[9].

Il livello raggiunto dalle disuguaglianze è ormai considerato, sia da coloro che vogliono salvare il capitalismo da se stesso, sia da coloro che ne vedono il segno inequivocabile di una disintegrazione, la contraddizione principale dell’attuale fase di accumulazione. L’imponente centralizzazione del capitale che caratterizza tale fase alimenta costantemente i livelli della disuguaglianza.
In una ricerca pionieristica pubblicata nel 2011, ricerca condotta su un insieme di 43000 imprese multinazionali, gli autori, studiosi di sistemi complessi, dimostrano che tali società formano una gigantesca struttura nella quale gran parte del controllo fluisce verso un piccolo nucleo assai compatto di istituzioni finanziarie. I ricercatori considerano il nucleo una «economic “super-entity”»[10], una superentità che pone problemi rilevanti tanto alla scienza economica che alla politica.
Nel dettaglio sono 147 le società che controllano il 40% del valore economico delle multinazionali mondiali, e queste 147 società hanno quasi il completo controllo su se stesse. Un altro fatto rilevante è che i 3/4 della superentità è rappresentato da società finanziarie. Un siffatto livello di concentrazione è presupposto certo non secondario dell’attuale grado raggiunto dallo stato delle disuguaglianze. E all’altro lato l’immiserimento progressivo di fasce sociali che durante i «trenta gloriosi» avevano raggiunto dignitosi livelli di vita.

3) «Quello che credo – e trattandosi di un assioma normativo è il caso di metterlo in bella evidenza – è che la povertà e la disuguaglianza siano un «male». La povertà che esiste oggi nel mondo ha dimensioni inaccettabili. Se il mondo non esplode contro questa ingiustizia è per via degli smisurati sforzi intellettuali profusi per farla apparire accettabile. (…) Che nel mondo ci sia molta disuguaglianza lo sappiamo tutti. Ma se guardiamo attentamente i numeri e ci ragioniamo sopra, la portata di questa disuguaglianza lascia senza fiato.»[11]
Si tratta del punto fondamentale che dovrebbe essere al centro di qualsiasi analisi storica e/o di scienze sociali degna della pienezza del termine analisi. Il fatto che non lo sia ha certamente a che fare con quelli che Basu, come abbiamo visto, ha definito come gli «smisurati sforzi intellettuali profusi per farla considerare accettabile».
L’acquiescenza che predomina nelle nostre società di fronte a una ingiustizia tanto eclatante, però, non è del tutto spontanea: è sorretta da un gran numero di persone che ricavano vantaggi dal sistema. Queste persone rappresentano una minoranza della popolazione mondiale, ma una minoranza che pesa molto; sono quelli che hanno voce e che sono in grado di farsi ascoltare, perché pagano per trasferire le loro idee nei nostri sistemi legali e normativi o perché hanno una migliore rete di contatti e sono saldamente radicati nelle cittadelle del potere.
Questa è una cosa che sanno tutti, eccetto i più sprovveduti. Ma l’acquiescenza è sorretta anche da un altro puntello, costituito da legioni di economisti che fanno il loro lavoro scrivendo editoriali[12].
Non c’è dubbio che il fenomeno indicato corrisponda esattamente alla realtà culturale che sta permeando il discorso dominante sul rapporto economia-società. Si tratta di un indicatore, però, di un contesto di cui la sfera culturale è solo un aspetto di un sistema di relazioni necessarie.

Una dimensione sistemica che il «Marx della borghesia» e il «Marx del proletariato» tratteggiano con analogo modello argomentativo. Abbiamo visto come Weber abbia sottolineato il modo in cui il «capitalismo vittorioso» determina «lo stile di vita», i meccanismi di pensiero, di tutti coloro che stringe nella «gabbia d’acciaio».
E Marx: «Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio»[13].
Ed è dai rapporti materiali di dominazione, luogo fondamentale dell’esercizio del potere, appunto, che prende forma il complesso normativo necessariamente connesso all’articolazione del potere stesso nell’insieme sociale e politico. E la funzione dei dominanti come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee nel loro tempo, non può assolutamente prescindere dalla costruzione di un quadro giuridico che permetta il controllo delle istituzioni culturali a ciò deputate. Il modo di produzione capitalistico non è solo un modo di produzione economico, bensì anche di produzione «antropologico».
Proprio nell’attuale dominante neoliberista la previsione analitica di Marx e di Weber trova una compiuta realizzazione. In tale dominante, infatti, i luoghi di costruzione del pensiero economico sono direttamente interessati dal sistema di relazioni normative che, appunto, del neoliberismo è caratteristica peculiare. Tra il complesso teorico ed il complesso normativo è il secondo che assume la funzione sorrettiva del primo e non viceversa.
Da questo punto di vista il valore realmente conoscitivo della teorica economica dominante (non necessariamente in sede scientifica) non ha effetti di particolare rilievo sulla sua efficacia politica e, appunto, normativa. «Nel XXI secolo lo sfruttamento avv[iene] nell’ambito delle leggi e delle norme»[14], un incontrovertibile dato di fatto che pesa come un macigno sull’ attendibilità della teoria economica dominante al di fuori della sua cornice autoreferenziale. Il fatto che gran parte degli studi pubblicati sulle riviste scientifiche non seguano più la teorica economica corrente, sottolinea Basu, ha effetti limitati su questa «linea di fondo» della scienza economica e sul «suo sottobosco di giornalisti, tecnocrati e funzionari internazionali»[15].

«Viene da domandarsi: – si è chiesto correttamente un economista critico italiano – perché una teoria (…) avulsa dalla realtà (…) e assiomatica (come una religione) resiste così. (…) È come se il pensiero economico dominante fosse rimasto intrappolato nella fisica del XVII secolo e non riuscisse ancora a liberarsi da questo abbraccio mortale»[16].
Basu dichiara che «buona parte dei metodi [da lui usati] provengano proprio dall’opera di Smith»[17], e che proprio su tale base è dimostrabile la funzione sostanzialmente ideologica della sistematica neoliberale.
Il professore della Cornell University nelle 300 pagine densamente argomentate del suo libro utilizza categorie fondate su solidissimo impianto analitico che coniuga elementi tecnici della sua formazione neoclassica, con la critica dell’uso assiomatico di quegli stessi strumenti. Un’eredità del miglior Schumpeter, anch’egli un «neoclassico critico». Con Schumpeter c’è una sostanziale convergenza nell’uso «debole» della parola «scienza» sia per il sapere storico che per l’economia. «Scienza è qualsiasi genere di conoscenza il cui perfezionamento ed approfondimento sia stato oggetto di sforzi consapevoli», sostiene Schumpeter». Ed ancora: «Scienza è senso comune affinato». «Scienza è conoscenza aiutata da strumenti speciali».  La scienza economica è un «agglomerato di campi di ricerca mescolati insieme e mal coordinati»[18].
In questo insieme «la scienza che ci ha donato Smith» è diventata strumento di legittimazione ideologica, sotto le spoglie di «scienza forte», di forme di dominio economico-sociale altrettanto «forti»
Nei dibattiti del XIX secolo sull’imposizione di limiti obbligatori per l’orario di lavoro, Smith veniva sventolato come una bandiera: se i lavoratori si offrivano di lavorare quattordici ore al giorno e gli imprenditori erano disposti a pagarli per avere questa manodopera, che ragione aveva lo Stato di intromettersi? La mano invisibile del mercato garantiva che questo «stato naturale» era L’optimum. Se le donne accettavano di lavorare per un salario inferiore a quello degli uomini e le aziende erano disposte ad assumere donne e uomini a queste condizioni, che ragione aveva lo Stato di intromettersi; Se i poveri si offrivano a un proprietario terriero per lavorare come schiavi e il proprietario terriero trovava l’offerta accettabile, perché non lasciare al mercato la libertà di consentire un contratto del genere; Non erano concetti accademici, ma questioni realmente dibattute e applicate. Ad esempio, nel 1859 lo Stato della Louisiana dichiarò legale la schiavitù volontaria, spesso chiamata waranteeism: significava che gli individui avevano il diritto di diventare schiavi[19].
Un elemento di riflessione che nei suoi lineamenti di fondo è tutt’altro che estraneo alla temperie socio-economica di questo primo quarto del XXI secolo.

Leggi la puntata precedente: Capitalismo camaleontico

[1] D. Cantimori, Post scriptum 1966, a M. Weber , Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1966,  p. 7.

[2] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965, p. 305.

[3] Ivi, p. 306.

[4] K. Basu, Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 309.

[5] S. Toppi, «la Regione», 17 novembre 2019.

[6] S. Zizek, Come un ladro in pieno giorno. Il potere nell’epoca della postumanità, Firenze, Ponte alle Grazie, 2019, p.17.

[7] W. Shakespeare, Tutte le opere, a cura di M. Praz, Firenze, Sansoni, 1964, p. 948.

[8] F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo. La democrazia liberale è il culmine dell’esperienza politica?, Milano, Rizzoli, 1996, p. 127.

[9] F. Fukuyama, Trent’anni dopo. Ritorno su «La fine della storia»?, «Vita e Pensiero», 3, 2018, pp. 10-21. La cit. p. 18.

[10] S.Vitali, JB. Glattfelder, S. Battiston (2011) The Network of Global Corporate Control, PLoS ONE 6 (10): e25995.

[11]K. Basu, Oltre la mano invisibile…., cit,  pp. 232-233.

[12] K. Basu, Oltre la mano invisibile….,  cit, pp. 7-8.

[13] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, «Meoc», V, 1972, pp. 44-45.

[14]K. Basu, Oltre la mano invisibile….,  cit, p. 9.

[15] K. Basu, Ivi  cit, p. 21.

[16] M. Gallegati, Acrescita. Per una nuova economia, Torino, Einaudi, 2016, p. 28.

[17]K. Basu Oltre la mano invisibile….,  cit. p. 14.

[18] J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Torino, Einaudi, 1959, pp. 9 e 13.

[19] K. Basu Oltre la mano invisibile….,  cit. p. 18.



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