I dilemmi etici posti dallo sciopero della fame di Cospito

Si pongono gravi e complessi interrogativi etici a partire dallo sciopero della fame di Alfredo Cospito. Rifiutare l’alimentazione è infatti una forma di lotta estrema.

Cinzia Sciuto

Come abbiamo già avuto modo di osservare, nella vicenda di Alfredo Cospito si intrecciano questioni diverse che vanno tenute distinte. Fra queste, quelle di carattere etico poste dalla scelta di intraprendere lo sciopero della fame, una forma di lotta estrema che non può non interrogarci, sono particolarmente gravi e complesse. La discussione è resa ancora più difficile dalla circostanza che a scegliere questa forma di lotta in questo caso è una persona che ha commesso gravi reati, per cui argomentare in un modo o in un altro diventa presto oggetto di strumentalizzazione, come sanno bene i parlamentari Pd attaccati da Donzelli.  Ma provarci è doveroso.

E allora chiediamoci: che giudizio morale merita la scelta di Cospito di intraprendere lo sciopero della fame? Quello di Cospito è un “ricatto” nel senso proprio del termine? E il ricatto è sempre e in qualunque circostanza moralmente condannabile? Avvertiamo il lettore che nelle righe che seguono non ci sono risposte, solo frammentari contributi alla riflessione collettiva.

Un primo elemento che qualifica un’azione dal punto di vista morale è l’intenzione. Cospito ha dichiarato di non fare lo sciopero della fame per ottenere un vantaggio per sé (motivazione egoistica) ma per ottenere un obiettivo collettivo (motivazione altruistica). Questo al netto di quello che ciascuno di noi può pensare di questo obiettivo: sia che si condivida la posizione di Cospito sul 41-bis sia che non la si condivida, la natura del suo gesto rimane motivata da ragioni “tecnicamente” altruistiche. Questo sul piano morale fa la differenza, e rende questa scelta moralmente diversa da quella di chi nella medesima situazione facesse lo sciopero della fame per uscire lui dal 41-bis.

Naturalmente l’idea che il 41-bis sia un regime carcerario incompatibile con il rispetto della dignità umana è la convinzione di Cospito (e di molti altri per la verità), ma altrettanto nobile (ossia non egoistica) è l’idea, sostenuta praticamente da tutti i magistrati antimafia, che invece il 41-bis sia uno strumento indispensabile in relazione ad alcuni specifici profili di detenuti: nell’un caso viene posto come valore supremo la dignità della vita umana nella sua singola individualità e direi anche corporeità, nella seconda la tutela della sicurezza della collettività. Il bilanciamento fra valori è una delle questioni più complesse e, temo, in ultima analisi irrisolvibili della convivenza umana.

 

C’è poi la questione della sincerità dell’intenzione: se domani Matteo Messina Denaro iniziasse lo sciopero della fame contro il 41-bis e dichiarasse di farlo non per uscirne lui né tantomeno per consentire ai mafiosi maggiori possibilità di manovrare l’organizzazione criminale anche dal carcere, ma in quanto incompatibile con la dignità umana, sarebbe lecito avere qualche dubbio sulla sincerità della sua intenzione. Ma il foro interiore è inaccessibile per chiunque, anche per Cospito. E sappiamo poi bene quanto anche nella più nobile delle intenzioni possa celarsi il vulnus dell’egoismo (fosse anche solo l’egoismo dell’affermazione dei propri ideali).

Per comodità di discussione diamo comunque per certa la sincerità dell’intenzione, ma con questo abbiamo detto tutto? Basta che un’intenzione sia nobile (ripeto: non sto dicendo condivisibile, ma nobile nel senso tecnico di non egoistica) per renderla moralmente lecita? Naturalmente no, perché a comporre un’azione concorrono anche altri elementi: lo scopo, i mezzi che si scelgono per raggiungerlo e le conseguenze (più o meno volute) che si realizzano. Con motivazioni “tecnicamente” nobili (ossia non squisitamente egoistiche) si possono infatti perseguire gli scopi più abietti (persino qualche nazista poteva essere “sinceramente” convinto della “bontà” di quello che faceva per l’intera umanità); e per raggiungere scopi nobili, vengono talvolta impiegati mezzi moralmente inaccettabili.

Quali mezzi specifici nelle situazioni concrete siano moralmente leciti e quali no è impossibile stabilirlo in astratto e a priori. Alcune linee guida però vengono in soccorso: c’è per esempio una differenza fra il ricatto che usa violenza contro gli altri e quello che usa violenza contro se stessi. “Se non fai A, uccido tuo figlio” è una condizione moralmente diversa da “Se non fai A, mi uccido”. Quest’ultimo caso pone qualche problema concettuale in più, perché il soggetto che ricatta sta mettendo a rischio la propria vita. Questo non significa automaticamente che l’uno è irricevibile mentre l’altro sì, ma solo che le due situazioni rappresentano profili etici diversi.

La vicenda Cospito infine pone ancora un altro tema, quello della libertà di disporre del proprio corpo: è sempre e in qualunque condizione moralmente accettabile disporre arbitrariamente del proprio corpo? Ponendo astrattamente come condizione generale l’assenza di qualunque forma di coercizione, fare lo sciopero della fame fino al punto di rischiare la morte, rifiutare le cure, scegliere l’eutanasia, decidere di prostituirsi, mettere a disposizione il proprio utero per una gravidanza per altri, infliggersi volontariamente del dolore fisico, sono tutte situazioni in cui si dispone “liberamente” del proprio corpo, ma sono tutte equivalenti sul piano etico (e anche etico-politico)? Una visione puramente liberale risponderebbe di sì, una visione liberale “mitigata” da considerazioni di carattere sociale inviterebbe a una maggiore prudenza, sia perché la condizione astratta che abbiamo posto (ossia la completa assenza di qualunque forma di coercizione) è appunto tale, ossia astratta, dunque irreale (si pensi al caso della prostituzione che, anche quando scelta “liberamente”, si esercita sempre nell’ambito di condizioni date), sia perché essendo l’essere umano un animale per eccellenza sociale le conseguenze della libera disposizione sul proprio corpo hanno sempre effetti anche sugli altri, sia in termini sociali generali sia in termini concreti e individuali (si pensi al caso del bambino nato da gestazione per altri). Lo sciopero della fame non ha conseguenze dirette su altri individui, ma ne ha molte sociali, che poi è il motivo per cui lo si fa. È una forma di pressione sulla società, sui decisori politici, sull’opinione pubblica che fa leva sul senso di empatia e umanità che dovrebbe indurre chiunque almeno a porsi il problema segnalato in modo così eclatante.

Sarebbe auspicabile che la vicenda Cospito servisse ad approfondire nell’opinione pubblica la conoscenza e la consapevolezza rispetto a queste e altre questioni. Ahimè, con questa destra al governo è molto più probabile che essa invece serva solo a restringere spazi di democrazia, persino quelli istituzionali, come gli ignobili attacchi di Donzelli ai parlamentari Pd mostrano.

Foto Ansa



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