I diritti dei palestinesi sono i diritti di tutti

Gli avvenimenti che dal 7 ottobre a oggi hanno riportato Israele e Palestina al centro dell’attenzione globale ci costringono a sviscerare la complessità del contesto. Dalla rappresentanza politica palestinese agli estremismi religiosi ugualmente pericolosi, dalle strumentalizzazioni dietro alle accuse di islamofobia e di antisemitismo alle resistenze sia laiche che religiose ai diversi regimi oppressione in terra santa. Per orientarsi esiste una bussola ed è quella del diritto internazionale e dei diritti umani, emersi anche grazie al lavoro di giuristi ebrei sopravvissuti alla Shoah, che se oggi non sono garantiti al popolo palestinese, non lo saranno per nessun popolo.

Christian Elia

Ringrazio la redazione di MicroMega per essersi confrontata su quel che accade nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Israele. Sarebbe importante, come ha fatto MicroMega, avere più dibattito – aperto ai lettori – su una questione che in molti davano per ‘archiviata’ dalla storia e che invece drammaticamente dal 7 ottobre ricorda a tutte e tutti noi quanto sia ancora globale. Invitato a partecipare a questo dibattito dico la mia con piacere, anche e soprattutto perché fin dall’inizio di ottobre MicroMega mi ha sempre lasciato spazio per raccontare quello su cui lavoro da oltre venticinque anni.
Ed è proprio di complessità che abbiamo bisogno. Come giustamente viene sottolineato nel testo della redazione, MicroMega non è né “un’agenzia stampa né un quotidiano, bensì una rivista di approfondimento culturale”. Proprio per questo è sulla complessità che bisogna lavorare perché, pur nel rispetto dei colleghi che lavorano per agenzie stampa e quotidiani, negare l’accesso alla stampa internazionale nella Striscia di Gaza durante le operazioni militari è la norma dal 2009. Ed è un problema di democrazia. Si chiamava Piombo Fuso quell’operazione militare, poi vennero Margine Protettivo, Pilastro di Difesa e molte altre. Nomi quasi sempre ispirati a versi religiosi. Senza che ci fosse stato l’orrore di nessun 7 ottobre, Gaza ha conosciuto punizioni collettive e bombardamenti indiscriminati di civili nel 2012, 2014, 2022, solo per citarne alcune. In tutti questi anni, tra i bombardamenti e la chiusura totale della Striscia, i colleghi originari di Gaza si sono raccontati da soli. Ed è in corso il primo conflitto nel quale questo racconto è esclusivo, e questo fenomeno fa parte di un trend mondiale, esploso dopo il 2011 e le rivolte arabe. Comunità intere reclamano il diritto di raccontare la loro storia; il diritto a diventare il soggetto del racconto, senza essere soltanto più l’oggetto. E i vecchi e nuovi ‘fixer’, che non firmavano mai i pezzi dei colleghi, oggi li scrivono e li filmano da soli.
E oggi rimane tutto il resto da raccontare. La Cisgiordania, con l’occupazione, l’esplosione del movimento dei coloni, l’apartheid e la costante e feroce violazione dei diritti. Credo che i giusti riferimenti all’Ucraina– proposti nel dibattito di MicroMega – spingano tutte e tutti a interrogarsi. Come è possibile che solo per i palestinesi non valga la salda denuncia della violazione del diritto internazionale da parte della Russia? Come è possibile che i palestinesi siano profughi che non commuovono nessuno? Sono domande che, lo dico per esperienza personale, i palestinesi hanno smesso di porsi, delusi da ottanta anni di promesse mancate. Dobbiamo porcele noi, per capire quali riflessi ci siano di questa lettura distorta, quali colonialismi e quali razzismi ci attraversano.
Ho rispetto della posizione della redazione, che si dichiara “fermamente convinta che una Palestina libera e indipendente governata da Hamas non offra una effettiva prospettiva di liberazione per il popolo palestinese. Purtroppo lo stesso potere delle fazioni politiche cosiddette “laiche”, in Palestina”. Ma non la condivido. Forse perché, da ateo, temo tutti i fondamentalismi che avvelenano le società, e Ben Gvir non mi spaventa meno di Sinwar. Forse perché mi spaventa che si presuma che il primo sia solo un attore di un contesto democratico, mentre i secondi siano espressione di una feroce dittatura.
Hamas le sue elezioni – le più libere della regione, come ebbe a dire la delegazione del Parlamento europeo nel 2006 – le ha vinte. Hamas è cambiata, molto. In peggio per certi versi, nella postura del governo della Striscia ad esempio, sempre più da clan, ma è su posizioni differenti rispetto al passato, più pragmatiche in politica.
Tanti nella Striscia ne sognano la fine, ma chi non conosce la Striscia non ha chiaro quanto sia molteplice il pensiero palestinese, quanto forte il controllo della società palestinese, a Gaza come in Cisgiordania però, dove essere un dissidente non garantisce maggiori serenità se si critica la laica e profondamente corrotta Autorità Nazionale Palestinese.
Io credo, perché le abito – frequento – vivo da anni, che ci siano straordinarie voci nella società civile palestinese, religiose e laiche. Io mi sono convinto che sono l’occupazione illegale della Cisgiordania e lo stato di assedio a Gaza i nemici principali del dibattito politico ed ero tra coloro che hanno frequentato e vissuto con i ragazzi e le ragazze del movimento GYBO, nel 2011, che pubblicò uno straordinario manifesto, che iniziava con ‘né con Fatah, né con Hamas’. Vennero brutalmente repressi, dall’uno e dall’altro, ma è grazie all’occupazione che questi movimenti, questi partiti e queste gerontocrazie si legittimano come necessarie e insostituibili.
Ecco, credo che la complessità sia sguardo e norme, fatti e dati. Non ho mai pensato che spetta a europei o nord americani decidere quale sia il futuro migliore per Israele e la Palestina. Raccontiamo e tiriamo le connessioni, come quando ci troviamo di fronte all’accusa strumentale di antisemitismo, che annienta il diritto alla denuncia delle azioni illegali dello stato israeliano, e che finisce per indebolire la lotta all’antisemitismo vero. Che preoccupa, come preoccupa l’islamofobia che almeno dal 2001 è un dramma di comunità intere. Criticare Hamas e denunciare l’uccisione dei civili il 7 ottobre non è islamofobia, come non è antisemitismo denunciare i toni genocidiari di importanti esponenti del governo israeliano.
E bisogna continuare a farlo, a tutti i costi. Perché se qualcosa mi hanno insegnato venticinque anni passati a raccontare Israele è Palestina è che non sono né palestinese né israeliano nel giudicare. Ma sono palestinese quando difendo quel sistema di diritti umani emersi dalle macerie della Seconda Guerra mondiale – grazie anche allo straordinario contributo di giuristi ebrei sopravvissuti alla Shoah – perché difendono le nostre stesse libertà. Ma sono israeliano quando denuncio le azioni del suo governo che silenzia le minoranze, arresta i dissidenti e gli antisionisti pestati dalla polizia, i renitenti alla leva, come fanno i colleghi israeliani che stanno facendo un grande lavoro di racconto della resistenza interna al regime israeliano.
CREDITI: ANSA-ZUMAPRESS / Str



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