“I miei cento anni con il Pci”, in ricordo di Marisa Cinciari Rodano

In ricordo di Marisa Cinciari Rodano, deputata ventennale del Pci scomparsa sabato 2 dicembre, condividiamo questo suo contributo pubblicato nel primo numero del 2021 della rivista cartacea di Micromega, intitolato “Il Pci che ho vissuto”. Marisa è nata lo stesso giorno del Partito comunista italiano, nel quale entra 25 anni dopo, quando Togliatti fa venir meno la pregiudiziale dell’adesione all’ideologia marxista-leninista. Nel 1944 è tra le fondatrici dell’Udi. Da cattolica, insieme al marito Franco Rodano, non si è mai sentita a disagio nel Pci. Convinta sostenitrice della svolta della Bolognina, lascerà la politica con la nascita del Pd. Una storia di coerenza lunga cento anni.

Marisa Cinciari Rodano

La militanza antifascista
Sono nata il 21 gennaio 1921, proprio nel giorno in cui a Livorno l’ala di sinistra, marxista, del Partito socialista abbandonò il Congresso, dando vita al Pci. Una singolare coincidenza, alla luce del mio futuro rapporto con questo partito. Naturalmente non posso ricordarmene, né mio padre, già podestà di Civitavecchia, deve avermene parlato. Era del resto convintamente fascista e mia madre, mantovana e di famiglia ebraica, non si occupava di politica. Eravamo una famiglia abbiente, abitavamo in un bell’appartamento di piazza Colonna, a Roma.
Fu al liceo, l’Ennio Quirino Visconti, che iniziò la mia militanza politica. Con alcuni compagni di scuola cominciammo a interrogarci se si potesse fare qualcosa contro lo scoppio della guerra, che sembrava imminente. Eravamo molto preoccupati e ricordo che ci riunivamo fra ragazzi e ragionavamo sulle iniziative da prendere. Tra essi c’era anche Franco Rodano, mio compagno di classe e mio futuro marito, che nel 1943 fonderà il Movimento dei cattolici comunisti. Iniziammo così alcune attività di informazione contro la guerra, cercando anche contatti con gli operai e altri militanti contro il regime. Un impegno che manterrò anche una volta finito il liceo e iniziata l’università.
Nel maggio del 1943, proprio durante una di queste iniziative, forse denunciati da qualcuno, fummo scoperti e arrestati. Franco fu rinchiuso a Regina Coeli, io alle Mantellate. Ricordo che in cortile, durante l’ora d’aria, incontravo moltissime ragazze che erano lì per procurato aborto: l’interruzione di gravidanza allora era un reato e tale sarebbe rimasta, come noto, fino al 1978. Fummo liberati il 25 luglio 1943. Nelle settimane successive, fra il 25 luglio e l’8 settembre, si lavorò a ricostruire i partiti e le associazioni democratiche. Con l’occupazione nazista di Roma passammo alla clandestinità, eravamo, come si diceva allora, “schedati”.

Furono, quei nove mesi dell’occupazione, un periodo allo stesso tempo terribile ed entusiasmante. Scrivevamo slogan antifascisti sui muri, distribuivamo volantini e stampa clandestina, seminavamo chiodi a tre punte sulle strade percorse dai mezzi militari nazisti, tenevamo i contatti tra i dirigenti antifascisti clandestini di stanza a Roma, cercavamo di aiutare le famiglie senzatetto che vivevano sotto gli archi degli acquedotti o in altri alloggi di fortuna. Non avevo nessun incarico ufficiale, ero soltanto una militante come tanti. E d’altro canto in quel periodo non si pensava certo a distribuire incarichi.
Il 4 giugno 1944, giorno della Liberazione di Roma, lo ricordo bene. Un amico tipografo che lavorava al Messaggero ci aveva fatto entrare nella sede del giornale, che si trovava (e si trova tuttora) in un punto strategico di via del Tritone, all’angolo con la strada che – tramite un traforo – conduce a via Nazionale. Ricordo il grande senso di felicità che provai affacciata al balcone di quel palazzo alla vista dei soldati inglesi, americani, neozelandesi… era la Liberazione!

I primi anni nel Pci
Subito dopo lo sbarco degli Alleati, Togliatti rientrò in Italia e, con quella che passò alla storia come la svolta di Salerno dell’aprile del 1944, tolse la pregiudiziale antimonarchica – ossia sostenne la tesi dell’unità del fronte antifascista, monarchici inclusi – che invece il Partito d’Azione e i socialisti volevano mantenere. Anche molti nel Pci erano contrari a questa linea. I militanti che si erano formati nella clandestinità e all’estero (in particolare in Unione Sovietica) – poco avvezzi alla democrazia, timorosi di perdere la loro identità e desiderosi di fare dell’Italia un “Paese socialista” – consideravano la linea di Togliatti un cedimento, un deteriore compromesso allo scopo di conquistare posizioni di potere. Io invece ero favorevole, pensavo che la lotta contro il fascismo e per una democrazia plurale dovesse avere la priorità sul resto.

Io e mio marito ci iscrivemmo al Pci nel 1946, dopo che il V Congresso del Partito decise di far cadere la pregiudiziale marxista ai fini dell’iscrizione. Devo dire che non mi sono mai sentita a disagio, da cattolica, dentro il Pci. Una volta venuto meno l’obbligo di aderire all’ideologia marxista, si poteva essere quello che si voleva dentro al Partito. Non si può dire lo stesso della Chiesa: papa Pio XII infatti ci scomunicò. Un fatto che vissi come una profonda ingiustizia. In ogni caso, io e mio marito continuammo a professare la nostra fede, aiutati da monsignor Achille Silvestrini, divenuto in seguito cardinale, che continuò a somministrarci i sacramenti anche se in teoria ne eravamo esclusi. 

Seguirono anni molto complessi anche sul piano internazionale, nei quali pure il mio giudizio sul Partito e sulle sue posizioni fu controverso. Per esempio considerai un errore la condanna di Tito da parte di Mosca, così come trovai assurdo che si ritenessero controrivoluzionari gli operai di Berlino Est che protestavano nel 1953 contro il governo della Ddr. E naturalmente considerai assolutamente sbagliata la repressione sovietica della rivolta ungherese del 1956: mi sembrava che i dissidenti avessero ragione, o perlomeno che non fosse giusto colpirli in quel modo. Allo stesso tempo però non accolsi positivamente il rapporto Khruščëv. Sia io sia mio marito lo scrivemmo e lo dichiarammo pubblicamente: il giudizio su Stalin che ne emergeva era unilaterale e ingeneroso. Stalin aveva infatti unificato l’Unione Sovietica, dato spazio a chi viveva in località isolate, riconosciuto il ruolo delle donne anche fuori della famiglia, favorito l’attività dei lavoratori agricoli e molto altro. 

L’Udi, le donne e il Partito
Sono stata tra le fondatrici, nel 1945, dell’Unione donne italiane (Udi), nata con l’obiettivo di organizzare le donne per farle uscire dalla condizione di minorità e vedere riconosciuti i loro diritti nella Costituzione che di lì a poco sarebbe stata approvata. Una parte del Pci – tra cui Luigi Longo, che nel 1964 succederà a Togliatti alla guida del Partito, e in parte forse anche Amendola – era ostile al progetto perché molto legata a una vecchia visione in base alla quale le donne non avrebbero dovuto impegnarsi in un’organizzazione autonoma, ma limitarsi a reclutare altre donne nelle file del Partito. Decisivo fu l’appoggio di Togliatti, che si schierò senza esitazioni a favore della nascita dell’Udi.

Nel Pci di allora c’era peraltro ancora parecchio moralismo. Ricordo che la relazione tra Nilde Iotti e Togliatti era malvista. Io ero amica di entrambi e mi adoperai, senza grande successo per la verità, per far accettare la loro relazione dentro il Partito. Ricordo anche con grande amarezza la vicenda di Teresa Noce, una partigiana amata e riconosciuta, che era stata anche in diversi campi di concentramento. Tornata in Italia dopo la guerra, fu una delle 21 donne elette all’Assemblea costituente. Insomma, una vera eroina. Nel 1953, suo marito Luigi Longo – dal quale si era separata da diverso tempo per i suoi continui tradimenti – ottenne senza il suo consenso l’annullamento del matrimonio alla Sacra Rota. Dopo aver appreso questo fatto dai giornali, Teresa Noce decise di denunciare la cosa alla Commissione centrale di controllo del Pci che però, anziché stigmatizzare il comportamento di Longo, espulse lei dalla direzione, privando questa grande partigiana del ruolo che le spettava. 

Che il rapporto del Pci con le donne fosse complicato lo dimostra anche il fatto che per diversi anni queste ultime sono state completamente rimosse dalle celebrazioni della Resistenza. Una cosa che mi dava molto fastidio perché sapevo che le donne avevano avuto un ruolo fondamentale durante la Resistenza: nella lotta per il pane, contro i bombardamenti, nella liberazione degli arrestati eccetera. Ci è voluto molto tempo per riconoscerlo, così come tanto tempo c’è voluto per riconoscere il ruolo importante che le donne hanno svolto nella Costituente. Il fatto che all’articolo 3 il primo degli elementi che viene citato come motivo di non discriminazione sia il sesso è stato il risultato, niente affatto scontato, dell’azione unitaria all’Assemblea costituente delle donne di tutti i gruppi politici. 

Gli anni Sessanta e Settanta
Dal 1963 al 1968 sono stata vicepresidente della Camera dei deputati, prima donna nella storia a ricoprire questo incarico. Gli anni Sessanta furono anni di profondi cambiamenti nella società italiana, cambiamenti che non sempre il Pci riuscì a cogliere. Pensiamo alla posizione assunta dal Partito nei confronti del movimento studentesco sessantottino… 

In quell’anno ero candidata al Senato, nel collegio Civitavecchia-Civita Castellana, un collegio di ferro per il Pci e per giunta il mio collegio naturale, perché vi avevo soggiornato nei periodi di vacanza e avevo svolto ricerche sulla storia di quelle località. Lo girai palmo a palmo ed ebbi quindi modo di sentire il polso del Paese, attraversato dai grandi movimenti degli studenti, con le occupazioni di scuole e università, le manifestazioni e gli scontri, come quelli di Valle Giulia, a Roma. Manifestazioni e scontri che si vedevano per le strade di tutti i Paesi europei e anche degli Usa. Io simpatizzavo per gli studenti in lotta e non mi opponevo a che i miei figli vi partecipassero. Ero solo preoccupata che non si facessero male. 

Allo stesso tempo davo però un giudizio molto negativo sulla contestazione della cosiddetta sinistra nei confronti del Pci, perché indebolire il Pci significava rafforzare le posizioni conservatrici che c’erano nel Paese e quindi, di fatto, rafforzare la destra. Mentre, pur con tutti i suoi limiti, il Pci continuava a rappresentare l’unica forza davvero progressista all’opera nel Paese.

Il 1968 fu anche l’anno del terremoto nella Valle del Belice, in Sicilia. Ricordo che, in qualità di vicepresidente della Camera, mi precipitai nei luoghi distrutti dal sisma, dove tutti erano accampati per strada. Le lentezze nella ricostruzione diedero luogo ad aspre polemiche.

La fine degli anni Sessanta, nel nostro Paese, fu anche il periodo del grande dibattito sul divorzio. Io ero favorevole fin dai tempi dell’Assemblea costituente, quando le donne elette si erano dichiarate favorevoli all’introduzione del diritto al divorzio in Costituzione, proposta che non passò per l’opposizione in particolare dei democristiani, Camillo Corsanego in testa. Anche il Pci non aveva posizioni particolarmente avanzate sulla questione, anzi c’erano parecchie resistenze. Tuttavia la legge Fortuna-Baslini – che finalmente nel 1970 introdusse il divorzio nel nostro Paese – poté contare sull’appoggio del Pci. Ricordo però che durante la campagna referendaria promossa dal fronte che mirava all’abolizione della legge, nel Pci quasi tutti erano convinti che noi donne, che avevamo girato l’Italia a parlare con le altre donne, ci sbagliassimo, che non avessimo interpretato bene la realtà. Ebbi in proposito una polemica anche con Adriana Seroni, responsabile femminile del Pci.

Gli anni Sessanta e Settanta furono anche gli anni di una mia (e non solo mia) iniziale fascinazione per la figura di Mao Zedong e per il maoismo. Successivamente però cambiai idea, perché mi resi conto che la sua era ormai una forma di dittatura illiberale, in cui si perseguitavano gli oppositori, e che la sua politica era negativa per la pace e i rapporti internazionali. Un discorso simile vale anche per Fidel Castro, personaggio straordinario cui inizialmente mi appassionai salvo poi dover constatare che Cuba non aveva avuto lo sviluppo che ci si sarebbe aspettati, trasformandosi gradualmente in un regime piuttosto chiuso.

Speranze tradite
Apprezzai molto l’azione di rinnovamento del Pci condotta da Enrico Berlinguer (il compromesso storico, l’occupazione della Fiat e, successivamente, la grande marcia dei lavoratori contro i licenziamenti e il suo intervento ai cancelli dell’azienda…) e fui profondamente addolorata dalla sua improvvisa scomparsa.

All’epoca ero europarlamentare (lo sarò per tutti gli anni Ottanta) all’interno del gruppo che raccoglieva tutte le forze della sinistra, da quelle socialdemocratiche più moderate fino ai comunisti. Ricordo che allora eravamo ancora animati dai princìpi del movimento europeista fondato da Altiero Spinelli, che auspicava la costituzione di una Unione Europea democratica e unita, fondata sulla giustizia sociale e i diritti. Un obiettivo che penso sia ancora auspicabile perché, se non si realizza, l’Europa stretta tra gli Stati Uniti, da un lato, e le potenze asiatiche, dall’altro, non conterà più niente.

Quel decennio si chiuderà con la grande cesura costituita dal 1989: cade il Muro di Berlino, cambia il mondo. Ricordo l’emozione che provai dopo il discorso di Achille Occhetto alla Bolognina. Non nascondo, e non nascosi neanche allora, la preoccupazione che nasceva dal fatto di avviarsi per un sentiero ignoto e dagli esiti fin troppo incerti. Ma la situazione era complessa in quel novembre 1989. E apprezzai il coraggio con cui Occhetto affrontò il tempo difficilissimo del crollo del Muro di Berlino, il suo tentativo di preservare il Pci e la sua storia e di costruire una prospettiva nuova per la sinistra in Italia. Condivisi la scelta (e votai a favore) del cambio di nome del Partito e della fondazione del Pds, Partito democratico della sinistra. 

Non ho condiviso, invece, molte delle scelte che sono state compiute in seguito. E in particolare quella di dar vita al Partito democratico. Sentivo che quella “fusione a freddo” – come è stata definita – non si poneva in continuità con la storia della sinistra italiana e neppure con le scelte compiute nel 1989, che costituivano un tentativo di costruire una «cosa» completamente nuova a sinistra, non certo il cedimento al mainstream liberista che andava ormai per la maggiore evidentemente anche a sinistra. Per questo non mi sono mai iscritta al Pd né a nessun altro partito.

CREDITI FOTO: ANSA / ALESSANDRO DI MEO

 



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