I mille volti della dissidenza russa

La professoressa Mara Morini, esperta di Est Europa, spiega i diversi orientamenti politici della dissidenza russa e quale ruolo possono giocare nel conflitto in corso.

Cinzia Sciuto

Dopo l’attentato alla figlia di Aleksandr Dugin la questione dei dissidenti russi è tornata sotto i riflettori. Di questo e della guerra in Ucraina a sei mesi dal suo inizio abbiamo parlato con Mara Morini, professoressa associata di Scienza politica all’Università di Genova dove insegna Politics of Eastern Europe e Politica comparata, autrice di La Russia di Putin (il Mulino, 2020).
Dopo l’attentato a Dar’ja Dugina si si è ricominciato a parlare dei dissidenti russi. Ma quanto è consistente il dissenso in Russia e quanto realmente pericoloso per il regime di Putin?
È difficile dirlo, perché con la macchina di repressione messa in atto da Putin i dissidenti fanno molta fatica a esprimersi e rimangono in uno stato latente. Una repressione che, già in atto negli anni scorsi, si è rafforzata nei mesi della guerra, per cui chi non sostiene Putin e magari non è neanche favorevole all’invasione russa dell’Ucraina solitamente non si espone per evitare di essere imprigionato, licenziato, di avere ricadute pesanti e negative nella propria vita. È come se si fosse ricreato in questi mesi uno stato di terrore di vecchia memoria. Si parla di almeno – sono dati della fonte indipendente Meduza – 16.000 persone incarcerate.

La dissidenza è oggi, quindi, più debole?
A mio parere sì, ma dobbiamo anche precisare che “la dissidenza” come movimento unico non esiste e non si è formata/organizzata in questi mesi di guerra. Il dissenso nei confronti di Putin ha radici diverse. Ci sono i dissidenti di orientamento più liberale e democratico, che hanno sempre avuto come punto di riferimento Grigorij Javlinskyj, leader del partito “Jabloko” oppure Boris Nemtsov, leader dell’Unione delle forze di destra, che è stato ucciso nel 2015 e, poi, il più conosciuto in Occidente: Aleksej Navalnyj che ha creato la “Fondazione per la lotta alla corruzione”, sciolta nel luglio 2020. Dalle elezioni parlamentari del 2003 queste forze politiche non hanno più accesso alla Duma (la camera bassa del parlamento) perché non superano la soglia di sbarramento: l’opposizione extra-parlamentare è frammentata e non c’è un leader che sia riuscito a renderla coesa. Sono, ormai, “voci fuori dal coro” che fanno presa su una parte dell’intellighenzia, della media borghesia, degli intellettuali a San Pietroburgo e a Mosca, ma non incidono concretamente sul resto dell’opinione pubblica russa. Navalnyj, grazie all’utilizzo dei social, è, invece, riuscito a coprire quasi tutta la Federazione Russa, ma raggiungendo solo la fascia più giovane o under 50 della popolazione. Tuttavia, è difficile aspettarsi un movimento ben organizzato e forte perché molti di questi giovani scappano e quelli che restano cercano di sopravvivere, sapendo benissimo quali rischi corrono in caso di palese protesta.

E ci sono poi “dissidenti” che di democratico hanno ben poco…
Esatto. Ci sono oppositori al regime che sono, di fatto, forze di estrema destra, radicali, neofasciste che avevano già un riferimento negli anni Novanta con l’organizzazione Pam’jat che ha sempre partecipato alle elezioni, ma non ha mai avuto un grande riscontro in termini di consenso elettorale e che sono collegati anche ai movimenti radicali di estrema destra presenti in Ucraina e nel resto d’Europa. Si tratta di forze che in relazione alla guerra in Ucraina, per esempio, non criticano il regime per aver iniziato la guerra, ma perché sono scontenti di come la sta conducendo e premono per una soluzione immediata, anche con uso di armi non convenzionali, per “prendere” l’Ucraina.

L’Esercito repubblicano citato da Ponomarev come autore dell’attentato a Dugina come si colloca in questo spettro?
Si tratta di una realtà poco diffusa in tutta la Russia che ha rivendicato qualche attentato negli anni scorsi in alcune zone del Paese, ma senza destare troppo clamore, senza costituire un problema concreto per il Cremlino. In realtà, non ci sono molte fonti per capire quanto si possa davvero parlare di “esercito”, quanto sia strutturato, e soprattutto di che natura sia la sua la dissidenza nei confronti di Putin, ma, dalle poche fonti che abbiamo, possiamo dire che si colloca nello spettro non democratico dell’opposizione a Putin.

Con una opposizione così frammentata e soprattutto di natura così diversa, difficile immaginare un cambio di regime a Mosca?
Il punto è che a proposito di Putin si parla molto di uomo solo al comando, ma le cose non sono così semplici. Nel senso che Putin ha sempre fatto “la sintesi” delle diverse tendenze presenti all’interno del Cremlino: è stato un buon faction manager, che ha negoziato tra le varie “correnti” di potere. Non credo che un’eventuale destituzione di Putin o un colpo di Stato sia un’opzione praticabile nel breve e medio periodo perché chiunque voglia sostituire Putin deve contare sull’appoggio delle due fazioni determinanti del sistema putiniano: l’esercito e le forze di sicurezza. Il rischio è che il dopo Putin non comporti l’ascesa di un leader più democratico. Tra gli oppositori di Putin ci sono, infatti, anche coloro che ritengono troppo “morbido” l’approccio di Putin alla guerra. E questa opinione è condivisa non solo dai nazionalisti di destra, ma anche da quelli di sinistra: nel Partito comunista russo, per esempio, ci sono ampie fazioni nazionaliste e reazionare che sostengono il disegno imperiale della Grande Russia che include la Bielorussia, l’Ucraina e che implica la difesa dei russofoni ovunque siano nel mondo, oltre che un rafforzamento della partnership con l’Oriente.

Che ruolo giocano in tutto questo le sanzioni dell’Occidente contro la Russia?
Da un lato, le sanzioni sono un segnale geopolitico netto e inequivocabile per stigmatizzare il comportamento della Russia che ha violato il diritto. Dall’altro lato, non dobbiamo illuderci troppo sulla loro efficacia concreta. Come diversi economisti hanno osservato, l’economia russa si sta dimostrando molto più resiliente del previsto e la popolazione non sta subendo effetti drammatici tali da protestare contro il presidente Putin. Inoltre, puntando sul nazionalismo/patriottismo russo, culturalmente e storicamente molto radicato, la propaganda del Cremlino ha presentato le sanzioni come l’ennesima dimostrazione di “una guerra dell’Occidente” che non vuole riconoscere la grandezza della Russia: al momento, le sanzioni stanno rafforzando il sentimento antioccidentale e antiamericano dei russi. Infine, non dobbiamo fare l’errore di applicare schemi concettuali, le nostre lenti, a realtà così diverse: quello che forse funzionerebbe qui, non è detto che funzioni in un contesto come quello russo, dove a subire gli effetti delle sanzioni sono più le popolazioni della media borghesia urbana che non le masse della popolazione che vive nelle zone rurali e che non si mette certo le mani fra i capelli se non trovano più un McDonald’s. Effetti più incisivi e diretti sono, invece, presenti nel settore industriale.

L’economia russa si basa principalmente sulle fonti energetiche e su questo fronte il fatto che i Paesi europei stanno progressivamente diversificando le loro fonti di approvvigionamento potrebbe rappresentare un duro colpo per l’economia russa, no?
Pure su questo non mi farei troppe illusioni. Anche se noi siamo rimasti sorpresi dall’invasione russa dell’Ucraina, si tratta, in realtà, di un’operazione preparata da molto tempo. Il rafforzamento delle relazioni con la Cina, con l’India e con i Paesi africani portate avanti negli ultimi anni, per esempio, servivano proprio per preparare il terreno a un suo allontanamento anche economico dall’Occidente.

Le perdite che la Russia sta subendo sul campo potrebbero incrinare il consenso di cui gode Putin?
Nella prima fase della guerra sembrava che quei giovani soldati mandati a morire per una guerra che non veniva neanche chiamata tale potessero mettere in crisi il progetto putiniano. Ricordiamo che una parte di quei giovani erano stati inviati in Ucraina a sostegno dell’arrivo di squadre speciali all’aeroporto di Hostomel nei pressi di Kiev e della destituzione di Zelens’kyj. I carri armati che abbiamo visto arrivare dalla Bielorussia e circondare Kiev dovevano servire per mantenere la sicurezza nella capitale, non certo per intraprendere un’azione di guerra. Le cose poi sono andate diversamente e Putin ha dovuto cambiare i propri piani. Però anche nel caso dei soldati morti in guerra, la propaganda, soprattutto fra gli over 50 è ancora efficace: questi giovani sono morti da eroi per difendere la patria dagli attacchi dell’Occidente, dall’ampliamento della Nato, dall’interferenza degli Stati Uniti che si ostinano a non riconoscere la forza della superpotenza russa. È una narrazione che “dà un senso” al dolore delle madri.

Allora cosa può incrinare il potere di Putin?
È molto difficile da dire perché la storia russa e sovietica ci ha sempre colto di sorpresa. Potrebbe essere un indebolimento politico di Putin, dovuto a un malcontento diffuso anche tra le fazioni che lo sostengono. C’è la variabile dell’elezione presidenziale del 2024 di cui tener conto, ma, come dimostrano i sondaggi più accreditati, Putin gode ancora di un grande consenso popolare. Il fatto che sia stato costretto a trasformare l’“operazione speciale” in una guerra di logoramento potrebbe sul medio-lungo periodo avere degli effetti controproducenti in ambito economico e militare. Ricordiamo che Putin ha emanato un decreto presidenziale, già lo scorso marzo, per aumentare il numero dei coscritti e ha innalzato l’età dei contratti di natura privata (volontari) sino a 60 anni: l’obiettivo è, per ora, evitare la mobilitazione generale nel Paese. Vedremo se la propaganda del regime riuscirà a mantenere saldo il consenso della maggioranza della popolazione e se l’esercito e i servizi continueranno a sostenere Putin. Il “fattore tempo” è quello a noi più sconosciuto, difficile da prevedere, ma potrà determinare la direzione della guerra a favore o meno della Russia di Putin.

Cosa accadrebbe se l’Occidente smettesse di sostenere l’Ucraina?
Al di là delle varie e legittime posizioni politiche e morali, questi sei mesi hanno dimostrato che la fornitura delle armi all’Ucraina ha reso molto più difficile l’occupazione dell’intero territorio ucraino al Cremlino. Al momento, la Russia detiene oltre il 20% (Crimea inclusa) del territorio e difficilmente lo cederà in futuro. Senza il sostegno occidentale l’Ucraina perderebbe questa guerra, ma la domanda da porsi è: fino a quando i governi occidentali e la Nato riusciranno a sostenerla? Questa è la scommessa di Putin: fino a che punto l’Occidente riuscirà a gestire la situazione politicamente e, soprattutto, economicamente? Se non ci riuscirà, sarà una sconfitta per l’Unione Europea, per la Nato, per l’Occidente, ma soprattutto per la democrazia. È plausibile che si perverrà a un compromesso quando una delle due parti sarà in difficoltà. Quanto ciò sarà in linea con le aspettative del governo e del popolo ucraino, è un’altra questione…

(credit foto EPA/SERGEY GUNEEV/KREMLIN POOL/SPUTNIK)



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