I ruoli di genere stereotipati sono una causa di stagnazione economica

I ruoli di genere ancora legati a stereotipi diffusi che vogliono le donne più adatte alla "cura" e gli uomini come più interessati al successo sono una delle cause della stagnazione economica in Italia. Per esempio precludono l'accesso delle donne alle materie STEM, che proprio nei Paesi a più alta disuguaglianza di genere rappresentano una delle leve principali per la ricerca dell'indipendenza femminile. Lo svela un convegno organizzato da Asvis - Alleanza per lo sviluppo sostenibile - e il Forum Disuguaglianze e diversità.

Federica D'Alessio

L’economia ha bisogno, per un sviluppo più sano e sostenibile e per incrementare il benessere economico generale, di rivoluzionare i ruoli di genere uscendo dagli stereotipi, figli di visioni maschiliste, che si traducono in condizioni lavorative, economico-sociali e materiali di grande arretratezza non solo e non tanto per le donne quanto per il Paese intero, visto che le donne ne rappresentano la maggioranza e non una minoranza. Questa, in sintesi estrema, l’idea-forza del Convegno organizzato il 23 maggio da Asvis – Agenzia italiana per lo sviluppo sostenibile – e Forum Disuguaglianze e divesità. Una mattinata lunga e intensa di lavori e relazioni collegate ai cosiddetti Gruppi di lavoro sui Goal, ovvero gli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’Onu nell’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile, da raggiungere entro il 2030.
Ad aprire e coordinare i lavori Flavia Melchiorri Terribile insieme a Rosanna Oliva De Concilisiis, coordinatrici entrambe di gruppi di lavoro dei Goal, che insieme a Linda Laura Sabbadini dirigente dell’Istat hanno offerto un quadro serio e preoccupante della relazione fra arretratezza della condizione femminile in Italia e arretratezza economica del Paese tutto. “La forza delle donne che si esprime nella vita quotidiana copre l’evidenza di un’arretratezza culturale del Paese in merito alle discriminazioni di genere”, ha dichiarato Sabbadini, che si traduce in arretratezza anche economica. Fra i Paesi OCSE, l’Italia è penultima, davanti solo alla Turchia, e a pari merito con il Costarica, per accesso al lavoro da parte delle donne. La metà delle donne non lavora, neanche nelle regioni più ricche della penisola, e la situazione è critica anche per quanto riguarda l’accesso ai lavori più basilari, non solo e non tanto per la difficoltà allo sviluppo di una carriera professionale. Gli stereotipi contribuiscono a produrre questa situazione, se è vero che come ricordava Melchiorri Terribile, da un’indagine Istat del 2018 emergeva come il 58,5% della popolazione concordasse con l’idea che gli uomini fossero meno adatti delle donne alle faccende domestiche, che per l’uomo il successo nel lavoro è più importante che per le donne, e che fosse l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia”. Visioni condivise anche dal 45,3% dei giovani.

Solo un “balzo culturale”, secondo Sabbadini, attraverso adeguati percorsi di presa di coscienza collettiva e dunque di formazione, particolarmente per figure come gli insegnanti, gli addetti ai media, gli psicologi, che faccia superare visioni “impermeabili alla realtà” che ancorano tuttora le donne a ruoli di genere scritti per loro e per la loro subordinazione – ricordava anche Lella Palladino del Forum DDD – potrà consentire alle donne un accesso al lavoro più egualitario e dunque un rivoluzionamento dell’intero quadro economico del Paese, quello in cui oggi un lavoratore su tre – particolarmente donna, giovane, meridionale – è un lavoratore/una lavoratrice povera, inchiodata al precariato e a contratti a termine.

Questo nonostante le donne nei Paesi OCSE, Italia compresa, rappresentino la maggior parte delle persone laureate, sebbene ancora una percentuale molto bassa dei laureati nelle materie cosiddette Stem, ricordava Ersilia Vaudo, astrofisica e dirigente dell’Agenzia Spaziale Europea, oltre che Presidente dell’Associazione Il Cielo Itinerante che porta in giro l’amore per l’astronomia fra i bambini che vivono in zone più economicamente e socialmente svantaggiate del Paese.

Anche nel mondo del lavoro Stem, notava Vaudo, vigono molti stereotipi di genere, che stridono ancora di più con condizioni economiche rovesciate rispetto a quelle del mercato del lavoro. Per esempio, “nel settore digitale l’Italia insieme all’Irlanda è uno dei Paesi in cui le donne, a parità di competenze, guadagnano di più degli uomini”. Per le donne le materie scientifico-tecnologiche rappresentano “un’autostrada per l’emancipazione” e questo è dimostrato, in qualche modo, anche dal fatto che proprio in quei Paesi dove la disuguaglianza di genere è più marcata; lì le donne – non sostenute dallo Stato né dalla società nella loro indipendenza come individui – si dedicano, in proporzione, di più alle materie Stem che in altri Paesi; perché esse rappresentano un volano fondamentale di “empowerment economico”, cioè di indipendenza. Negli Emirati Arabi Uniti, in Turchia, in Tunisia, in Algeria, le donne sono infatti una percentuale molto alta, oltre il 50%, dei laureati in materie Stem. “È il percorso da seguire per ottenere la propria indipendenza”, laddove nei Paesi dove vige uguaglianza di genere, per esempio, è lo Stato che si incarica di fornire gli strumenti dell’uguaglianza ai cittadini, “senza distinzioni di sesso”.

Questa uguaglianza è ancora lungi dall’essere stata raggiunta, e l’impatto sia delle innovazioni tecnologiche come l’intelligenza artificiale, sia dei cambiamenti climatici laddove entrambi questi nodi vengano lasciati alla “mano invisibile del mercato” può contribuire a peggiorare la situazione delle donne. In conclusione dei lavori, Silvia Vaccaro del Forum DDD ricordava come già oggi la catastrofe climatica abbia un effetto molto differenziato fra uomini e donne: “le donne rappresentano il 70% delle persone povere nel mondo (1,3 miliardi di persone) e dipendono maggiormente dalla scarsità di risorse idriche e alimentari, oltre a essere l’80% degli sfollati per disastri ambientali”. E come è stato ricordato in modi e con accenti anche differenziati durante tutto il convegno, il famoso “paradigma della cura” così pervicacemente ancorato all’immagine femminile, lungi dal valorizzare realmente le competenze millenarie nella cura sviluppate obtorto collo da coloro che, ricordava Annalisa Corrado responsabile Clima della segreteria del PD di Elly Schlein, sono state relegate a tale compito per nient’altra ragione che la subordinazione sociale, i realtà ripropone il solito vecchio schema e riperpetua proprio la subordinazione femminile. Così per esempio anche nel welfare per gli anziani il rischio, sottolineava il sociologo Cristiano Gori – ideatore di una riforma di welfare per gli anziani non autosufficienti a dirla tutta controversa, contestata da altri settori di società a loro volta impegnati per la salute degli anziani e dei cittadini – è quello di continuare a poggiare la possibilità dell’assistenza per le persone anziane non sulle competenze professionali bensì sul ricatto morale dei sentimenti e dei vincoli familiari, quello che, come è stato più volte ricordato sia da Lella Palladino, sia dalla sociologa Chiara Saraceno, condiziona la vita delle donne e le mantiene ancorate ai ruoli stereotipati rendendo anche l’anzianità, molte volte, una ennesima stagione del lavoro di cura, per esempio verso i nipoti. “Fare la nonna” è un ruolo sociale vincolante per le donne, ha affermato Saraceno, “tanto che viene considerato disdicevole non occuparsi, come nonne, della cura dei propri nipoti”.

Ma come superare il paradigma della cura laddove questo richiude le donne nella sfera privata, come riscattarne la parte economica di benessere sociale senza continuare a subire la separazione fra sfera pubblica e sfera privata? Nel convegno non si è discusso molto della controparte, cioè di quanto gli stereotipi e i ruoli di genere pesino sugli uomini: diffondere un paradigma della cura svincolato dalla subordinazione e dai ruoli di genere significa proprio diffonderlo innanzitutto nella parte di società a componente maschile, esigendo oltre che consentendo l’esercizio della cura: cosa cambierebbe con un congedo parentale obbligatorio di mesi, e non di giorni, per i padri? Che cosa con una settimana lavorativa di 4 giorni, o con un reddito di base universale, una forma di welfare individualistico e universalistico che possa sganciare gli uomini e le donne, entrambi, dai ruoli, per valorizzarne le qualità inevitabilmente individuali e differenziate? Il “balzo culturale” da fare di cui parlava Linda Laura Sabbadini è forse impossibile se non avviene contemporaneamente come liberazione delle donne dai vincoli legati al genere, e attribuzione agli uomini di responsabilità a tal fine, tenendo conto della necessità di riequilibrare la differenza di potere fra i sessi. Se è vero infatti, come diceva Annalisa Corrado, che il corpo delle donne così come l’ecosistema sono stati “messi fuori dal mondo del potere e delle decisioni, e la loro assenza giustifica una marea di fallimenti” riequilibrare significa, necessariamente, agire su pesi e contrappesi da una parte e dall’altra.

CREDITI FOTO: ANSA/DANIEL DAL ZENNARO



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