I social media fanno male. Anche la politica se ne è accorta, ma non basta

Il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo di Joe Biden in cui il Presidente attacca le Big Tech, accusandole di sfruttare i dati personali e di estremizzare la polarizzazione delle opinioni. La lettera sembra preludere l'intenzione di contrastare il potere delle aziende monopolistiche della Silicon Valley, ma non sarà un percorso facile.

Maurizio Pugno

Lunedì 11 gennaio 2023 il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo di Joe Biden in cui il Presidente attacca le Big Tech, come Facebook e YouTube, accusandole non solo di sfruttare i dati personali della gente e di violare i diritti civili delle donne e delle minoranze, ma anche di alterare le regole del gioco in economia, di estremizzare la polarizzazione delle opinioni, e di mettere a rischio il benessere dei bambini. Si tratta di accuse che capovolgono luoghi comuni sulla libertà economica e sulla neutralità della tecnologia, e aprono imprevedibili scenari in cui interventi di politica industriale e sociale saranno chiamati a rincorrere il progresso tecnologico.

Il primo luogo comune che viene capovolto è la ‘sovranità del consumatore’, cioè l’idea, tanto cara ai libri di testo di economia e alla scuola liberista, secondo la quale il consumatore ha la capacità e libertà di decidere cosa consumare perché sa cosa gli dà benessere, e quindi decide di fatto cosa sarà prodotto. Le Big Tech, invece, offrono prodotti così ben studiati da riuscire a plasmare il consumatore, con la conseguenza di alterare, a lungo andare, la sua capacità di perseguire il proprio massimo benessere. Il quadro è ancora più fosco se si guarda ai risultati degli ormai innumerevoli studi in psicologia e neuroscienze (ma anche in economia), secondo i quali l’uso intensivo dei social media tende a dare dipendenza e a danneggiare la salute mentale, soprattutto nei più giovani. Il meccanismo principale parte dal confronto con gli altri che invece di essere uno stimolo per la crescita personale diventa fonte di insoddisfazione cronica, specialmente negli anni di formazione della personalità.

Il secondo luogo comune che viene capovolto riguarda lo Stato che, a partire dalla teorizzazione della scuola liberista, è considerato ‘nemico’ del consumatore, in quanto grava con le imposte sui prezzi e quindi sul carrello della spesa, ed offre servizi che i privati potrebbero produrre in modo più efficiente. Per capire quanto questa idea sia parziale e anche fuorviante, si può ricordare che le precedenti amministrazioni George W. Bush e Barack Obama, preoccupate per la riduzione della crescita economica americana, confidarono nella capacità delle Big Tech di risollevare l’economia grazie a innovazioni tali da aumentare la produttività e, allo stesso tempo, ridurre i prezzi dei nuovi prodotti. A questo scopo prima Bush e poi Obama indebolirono l’applicazione delle leggi antitrust e ridussero di fatto l’aliquota delle imposte sulle società. Ma recentemente ci si è accorti che il contributo delle Big Tech alla crescita economica non è arrivato, e che i benefici per il consumatore ottenuti con l’abbassamento dei prezzi dei prodotti tecnologici è pagato in termini di malessere, nonché di inasprimento dei contrasti sociali. Se si vuole cercare un ‘nemico’ del consumatore, quindi, non è una buona idea individuarlo nello Stato, da cui, piuttosto, ci aspetteremmo un intervento sull’industria privata.

Il terzo luogo comune che viene capovolto è la neutralità della tecnologia, secondo cui è soltanto l’uso fatto i consumatori che rende la tecnologia ‘buona’ o ‘cattiva’. Ma questo è solo parzialmente vero, perché fondamentale è stato invece l’uso che ne hanno fatto le imprese. È esemplificativo il caso del World Wide Web, il sistema che permette un facile accesso e condivisione dei contenuti di Internet. Era stato concepito nei primi anni ’90 come mezzo gratuito per diffondere informazioni e conoscenza da Tim Berners-Lee quando lavorava presso il CERN, l’ente internazionale di ricerca fisica. Il Web poteva così diventare un mezzo moltiplicatore di libertà e democrazia, e quindi di benessere. Oggi invece il Web è diventato un’altra cosa – osserva sconsolato l’inventore – perché le Big Tech l’hanno praticamente monopolizzato e organizzato per fare profitti, e in modo nuovo. Non solo si appropriano dei dati privati di tutti coloro che utilizzano i servizi come i social media, ma si appropriano anche del tempo delle persone, e a questo scopo sono molto indulgenti a facilitare i più diversi messaggi cha passano sulle loro piattaforme, anche quelli molto dannosi. Una volta attratte le persone, il loro benessere non è più un obiettivo. E nemmeno le persone stesse, soprattutto se giovani, sono molto capaci di utilizzare questa tecnologia così organizzata per il proprio benessere, perché le forze in campo sono troppo impari: da una parte ci sono i professionisti della produzione e commercializzazione che se sbagliano (e non fanno profitti) sono immediatamente puniti dai concorrenti, dall’altra ci sono i consumatori che appaiono come dei dilettanti, perché si accorgono in ritardo quando sbagliano (perché ciò che hanno acquistato non li fa star bene), e spesso non sanno nemmeno dove cercare i loro errori.

Quali sono, dunque, gli interventi di politica industriale e sociale che ci dobbiamo aspettare? Le possibili direttrici degli interventi sono tre. La prima punta a limitare la libertà di scelta del consumatore. È il caso del divieto di utilizzare i cellulari durante le lezioni a scuola, come è scritto nella recente circolare del Ministro Giuseppe Valditara. Interventi di questo tipo sono solitamente molto impopolari tra coloro che li subiscono, e dovrebbero essere basati su un dibattito con gli scienziati e gli operatori per valutarne le opportune modalità. Sembrerebbe incoraggiante il precedente caso del divieto di fumare nei luoghi pubblici, che studi scientifici hanno dimostrato utile anche per i fumatori stessi. Ma nel caso dei social media i divieti non possono che avere efficacia temporanea, perché il mercato dei prodotti tecnologici corre velocissimo, e troverà modi per aggirare ogni divieto. Non abbiamo ancora ben imparato a controllare quanto gli studenti hanno copiato i loro compiti dalla rete, che apprendiamo dai giornali la notizia di un nuovo software di intelligenza artificiale già oggi disponibile che è in grado di svolgere i compiti scolastici.

La seconda direttrice di intervento è quella di cambiare l’utilizzo dei prodotti delle Big Tech ove possibile. Tipicamente nell’istruzione questo richiede di cambiare profondamente i metodi d’insegnamento e di apprendimento. Da strumenti di controllo e di informazione, i nuovi mezzi digitali devono diventare strumenti di motivazione e sviluppo dei talenti e delle capacità degli studenti. Deve essere valutata con attenzione però la cosiddetta gamification didattica oggi molto propagandata, cioè l’apprendere giocando. Infatti, come ci ricorda anche la ricerca nelle neuroscienze, l’apprendimento è efficace quando le nuove nozioni non sono solo legate a un fatto contingente, ma sono ben integrate alle conoscenze acquisite precedentemente, e questo richiede tempo nonché un po’ di sforzo. Non sarà facile, quindi, trovare e implementare con successo i necessari metodi d’insegnamento, e prima ancora, formare le competenze necessarie tra gli insegnanti.

Ancora più difficile sarà cambiare certe abitudini nell’utilizzo dei prodotti delle Big Tech a cui sono tentati i genitori, come tipicamente rabbonire le bizze del bambino mettendogli tra le mani un tablet o uno smartphone. Eppure è stato recentemente dimostrato che questo è deleterio per il suo sviluppo emotivo e sociale. E’ vero che i nuovi prodotti tecnologici possono aiutare enormemente i genitori nell’educazione, ma bisogna saperli usare. Occorrerebbe quindi diffondere informazioni scientificamente fondate sul loro uso e sulle conseguenze che ne derivano. Ma intervenire oltre nell’educazione dei figli è e sarà un’impresa delicata e molto impervia.

La terza direttrice di intervento può essere qui auspicata, ma è anche la più impegnativa e improbabile. Si tratterebbe di costruire piattaforme digitali a controllo pubblico che possano competere efficacemente con quelle private. Dovrebbero far proprie le migliori pratiche di utilizzo delle nuove tecnologie già oggi sperimentate, svilupparle e diffonderle per renderle come dei nuovi standard. Il patrimonio pubblico storico-culturale, a cui si potrà facilmente aggiungere il patrimonio dei dati sull’istruzione e la sanità, costituirebbe una formidabile base di partenza.

Per concludere, l’articolo di giornale di Joe Biden promette bene, e l’impostazione europea sulla materia sembra essere ancora più determinata. Ma la strada sarà terribilmente lunga e in salita, e di questo, ahinoi, le Big Tech non possono che rallegrarsi.

 

 

Foto Canva | doram



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