I volti della biopolitica

Con l’esplosione della pandemia, le misure di controllo biopolitico si sono intensificate, passando, in termini foucaultiani, da strategie disciplinanti a un approccio governamentale e normalizzante. Per studiare questi passaggi è utile il saggio di Ottavio Marzocca, "Biopolitics for Beginners. Knowledge of Life and Government of People" (Mimesis 2020), che permette anche di comprendere meglio il dibattito sulla biopolitica che si è svolto sulle pagine dell'ultimo “Almanacco di Filosofia” di “Micromega”.

Carlo Crosato

1. Ricominciare da Foucault

Se si risale alle prime occorrenze della parola “biopolitica”, ci si imbatte in una serie di autori tedeschi dei primi decenni del secolo scorso, teorici dello Stato in senso organicistico, naturalistico e, in generale, vitalistico. Approfondendo la metafora dello Stato come corpo vivente, autori come Rudolph Kjellen, Karl Binding, Eberhard Dennert, Eduard Hahn, rigettano l’idea della politica come limite artificiale imposto agli impulsi naturali, per rinvenire un irriducibile fondo naturale che deve essere conservato dallo stato politico in cui esso trova l’ovvia continuazione. Si tratta di nozioni che avranno grande fortuna durante i decenni del fascismo in Europa, e altrettanto discredito dopo la Seconda guerra mondiale, sebbene non siano mancati, dagli anni Sessanta fino agli anni Novanta, tentativi di recuperare il concetto di “biopolitica” al fine di offrire una rappresentazione sociologica dell’agire politico fondata sugli esiti della socio-biologia, della biologia comportamentale, dell’evoluzionismo.

Quando, durante il corso “Bisogna difendere la società” e nel volume dello stesso anno La volontà di sapere, Michel Foucault introduce nel suo apparato concettuale la nozione di “biopolitica”, la storia di questa parola assume un corso ben differente, aprendo un orizzonte di studi politici nuovo e ancora oggi promettente. Lo testimonia il recente libro di Ottavio Marzocca, Biopolitics for Beginners. Knowlodge of Life and Government of People, Mimesis 2020. L’inversione prodotta da Foucault con i suoi lavori è duplice. Da un lato, lungi dal ricondurre la politica a costanti naturali determinanti, egli ricostruisce in chiave genealogica la costruzione della sfera semantica della vita nell’intreccio di specifiche strategie politiche. Dall’altro lato, mettendo almeno provvisoriamente tra parentesi i concetti che tradizionalmente hanno funto da cardini attorno cui ha ruotato l’autonarrazione del pensiero politico moderno, Foucault si cala nella complessità relazionale, per osservare la disposizione storica assunta dai discorsi e dalle relazioni e per dimostrare la natura contingente e articolata di quanto solitamente si è portati a credere necessario e unitario.

Nel 1976, Foucault organizza il proprio discorso sul biopotere secondo i versanti dell’anatomopolitica, che circonda e definisce il corpo parcellizzandone tempi e spazi, e della biopolitica, che economizza le proprie risorse applicandosi alla popolazione, ottimizzandone i processi vitali e, nei termini che lo stesso Foucault conierà l’anno successivo, governandone la storia in direzione del benessere di ciascun membro e della comunità tutta. È in questi termini che, spiega Foucault, la politica fa della vita il proprio oggetto privilegiato e, anzi, produce la vita.

Ma la vita non ha forse sempre costituito l’obiettivo della politica, fin da Aristotele? L’idea dell’uomo come animale politico e della politica come attività volta alla buona vita rappresentano un nesso indubbiamente strutturale, e la lettura offerta da Arendt e ricostruita nella sua complessità da Marzocca, testimonia questo legame antico e problematico. Tale nesso si modifica e si fa perfino più evidente in età moderna, quando Hobbes sistematizza il concetto di sovranità in funzione della tutela della vita tout court, un artificio istituzionale per la sopravvivenza in primo luogo biologica. O almeno così il pensiero politico moderno legittima se stesso, raggiungendo la soglia dell’incontestabilità. E anche quando lo stato di diritto liberale mitigherà la presa del potere sovrano hobbesiano, tra la promozione della vita e della libertà e la politica vi sarà la sola intermediazione del diritto e delle istituzioni del potere, così da permettere un corso regolare ma quanto più spontaneo e naturale alla libertà dell’individuo. Ed è proprio conservando l’autonarrazione di un potere che promana dall’alto per ramificarsi nei mille rivoli di realtà per pacificarla e favorirla, che la teoria della sovranità conserva la propria legittimità anche in uno scenario liberaldemocratico come quello diffuso oggi. Tuttavia l’innovazione foucaultiana che inaugura gli studi della biopolitica consiste proprio nello sfondamento di questa autolegittimazione del potere come sottrazione o come cessione in favore di una convivenza pacifica, e della legge come limite imposto alla libertà perché essa possa meglio esprimersi.

Almeno dall’epoca moderna, pur trincerandosi dietro la visione teorica tipica del potere sovrano e piegandola alle novità della filosofia liberale, il potere intesse relazioni di tipo produttivo a partire dai livelli più quotidiani e immediatamente a contatto con gli individui: ciò impedisce di affrontare il potere come dimensione puramente alienante al fine di recuperare una presunta purezza del soggetto, in quanto l’individuo deve la propria esistenza proprio alle relazioni di potere che lo circondano e senza le quali non sarebbe; a quelle relazioni che in tanto lo assoggettano in quanto lo soggettivano, e lo soggettivano in funzione di un assoggettamento possibile. Si tratta di relazioni reali, ben oltre la superficie dell’artificio sovrano; e si tratta di relazioni mirate al nutrimento, al disciplinamento, al governo, all’allevamento. È su tale scala che si deve quindi lavorare per analizzare, comprendere e contestare i dispositivi che ci coinvolgono, definendo la nostra identità e la nostra stessa vita, al di là della griglia giuridica intessuta dal potere in senso moderno. Si rendono così disponibili matrici di intelligibilità utili a comprendere le geometrie di potere che hanno attraversato la globalizzazione, la razionalità neoliberale, la governance, ma anche per dare nuovo vigore alla critica in ambito di diritto penale, di istituzioni mediche e psichiatriche, di fenomeni migratori.

2. Destituzione, costituzione, istituzione

Il ricco volume di Marzocca permette di apprezzare la novità foucaultiana non solo in sé, ma anche chiarendone le conseguenze teoriche e le prospettive che essa ha aperto. In primo luogo, si segnalano le versioni di biopolitica provenienti dal cosiddetto Italian Thought, che ambiscono a rivedere e, in larga misura, correggere il lavoro di Foucault sulla modernità.

Si pensi per esempio al lavoro di Giorgio Agamben, il quale, con profondità ontologica, risale alle forme e ai movimenti fondamentali del pensiero e della politica occidentali, fino all’antichità greca. Foucault avrebbe trascurato il nesso della politica antica con la vita, ma soprattutto non avrebbe compreso fino in fondo il meccanismo ontologico che sovrintende alla costruzione del concetto di vita, di essere umano e, a ben vedere, di ogni positività storica. È un meccanismo che, intrecciando le intuizioni aristoteliche sulla coppia potenza-atto con la elaborazione schmittiana della nozione di sovranità, Agamben descrive nei termini dell’eccezione, della produzione di uno spazio di frontiera alogico, anomico, alegale, incluso nel regno della ragione, della norma, della legge solo in quanto funzionale alla decisione di cosa può essere davvero pensato, detto, fatto. Uno spazio di frontiera, cioè, incluso solo in quanto escluso, transitabile solo da un’istanza sovrana. E così è anche per il rapporto che lega la vita umana e la legge, processo che non riguarda solo la biopolitica moderna e che implica strutturalmente una geometria sovrana per funzionare, così da conciliare necessariamente bio- e tanato-politica. L’epoca moderna, quella che ha impegnato Foucault, è la declinazione più appariscente di tale ontologia, essendo la vita nuda coinvolta come quell’impolitico su cui direttamente si rivolge la politica. Nell’antichità si produceva una vita pura transitando la quale si umanizzava l’animale e si produceva uno “scarto” impolitico. In epoca moderna invece è l’impolitico a essere il prodotto primario, in conseguenza del quale si ottiene l’umano e il politico. L’eccezione in epoca moderna si fa sempre più invasiva, prendendo a occupare la zona normale, finendo per coincidere con essa. La politica contemporanea – e il campo di concentramento, sul quale il libro di Marzocca si sofferma in maniera quanto mai opportuna – viene descritta da Agamben come il momento in cui eccezione e norma coincidono, in un meccanismo ormai fuori giri che, privo di appigli, impone a ciascuno una vita biologica assurta a compito storico.

Agamben, fedele al proprio impulso ontologico, suggerisce vie di emancipazione attraverso prassi capaci di disattivare i meccanismi metafisici della sovranità ontologica e politica, al fine di riconquistare lo spazio di frontiera che il potere taglia costantemente con la propria decisione. Attraverso una teoria della potenza destituente, Agamben ambisce a illuminare la possibilità di una vita non più transitabile dal potere, che riconquisti la propria potenza integrale senza che questa venga messa all’opera e racchiusa in una qualche forma di identità. Una forma che Agamben avvicina portando esempi di uso non operativo del corpo, come quello dello schiavo, che opportunamente Marzocca sottolinea essere lavoro servile consumato nel momento in cui viene erogato, proprio come le attività del terziario nelle società industriali, ossia, fatalmente, attività maggiormente esposte allo sfruttamento.

Di diverso tenore sono le riflessioni di Antonio Negri, il quale insiste sulla potenza costituente, rivolgendo la propria attenzione immediatamente al quadro contemporaneo della globalizzazione. Laddove Agamben segnala la carenza foucaultiana rispetto alla biopolitica premoderna, Negri si rivolge alla post-modernità notando le lacune foucaultiane nel riconoscimento di tale passaggio. In primo luogo, Negri ridefinisce i termini del dibattito, definendo il biopotere come l’insieme di tecnologie di potere sulla vita, mentre la biopolitica, in una accezione positiva, come l’esperienza di soggettivazione e libertà, il complesso delle resistenze e lo spazio in cui le relazioni, le lotte e la produzione di potere maturano. In accordo con lo spirito marxista che orienta il proprio pensiero, Negri segnala come l’incapacità di Foucault di apprezzare appieno l’importanza ontologica della produzione, subordinandola alle altre numerose dinamiche sociali, avrebbe condotto il pensatore francese lontano dal riflettere su quella che egli definisce una “economia politica della vita”. Marzocca ricorda come, a ben vedere, Foucault abbia sviluppato un importante e intenso lavoro in merito alla razionalità economica e al modo in cui, in essa, il soggetto si trova prodotto e governato: come dimostrato dal capitolo che Marzocca riserva allo sviluppo degli strumenti foucaultiani in relazione alla dimensione economica, tale lavoro ha permesso a Foucault di prolungare la propria critica della governamentalità e della biopolitica anche oltre la crisi dello Stato moderno, ossia proprio là dove Negri si è impegnato a condurla.

La biopolitica nel senso di Negri non è solo un confronto con i dispositivi di biopotere, ma anche un processo di soggettivazione, che apre la possibilità di riconoscersi in una moltitudine, creativa, molteplice e diffusa, resistente al dominio del capitale. È l’impero stesso, nella sua configurazione biopolitica, a preparare il campo per tale soggetto rivoluzionario, privo di radici se non la comune sottomissione allo sfruttamento del capitale. Si tratta di una radicalizzazione della teoria del potere costituente in senso rivoluzionario che, scrive Marzocca, non beneficia degli esiti della genealogia della cura di sé nel pensiero antico, di quell’intenso lavoro critico e autocritico con cui Foucault ha a lungo tentato di arginare il riprodursi – autodialettizzato – di nuove forme di dominio.

Anche Roberto Esposito si è confrontato con la biopolitica foucaultiana, cercando in particolare di chiarire le cause per cui la biopolitica conserva movenze tanatopolitiche. L’insufficiente approfondimento da parte di Foucault di questo aspetto sarebbe cagionato dalla sua parziale problematizzazione dei concetti stessi di vita e di politica, assunti nella loro distinzione e solo in un secondo momento fatti interagire. Il paradigma con cui Esposito mira a spiegare la trasformazione della politica in biopolitica, e l’oscillazione di quest’ultima fra tendenze costruttive e distruttive, è l’immunitas, il carattere immunitario della politica rispetto a pericoli esterni e alla disintegrazione. La nozione di immunitas rimanda immediatamente all’intreccio ontologico di vita e politica, natura e storia, nell’immagine di un corpo politico soggetto a una condizione che nega o riduce il suo potere per espanderlo. Quella dell’immunitas, da intendersi come correlato negativo della communitas, è una gestualità che non si limita al respingimento dei pericoli, ma incorpora il pericolo in una forma immunizzata per divenire a esso resistente. Starebbe dunque nell’immunità – categoria tangente alla biologia e alla politica – la spiegazione della ambiguità bio-tanatopolitica, l’intrinseca dimensione negativa di ogni movimento inclusivo, fino al raggiungimento di momenti parossistici simili alle malattie autoimmuni in cui il corpo dirige le proprie energie difensive contro di sé.

A confronto con la negatività della geometria intimamente teologico-politica della biopolitica occidentale, attraverso il percorso finemente ricostruito da Marzocca, Esposito è giunto negli ultimi anni a mettere a punto la proposta di un pensiero istituente, il quale ponga al centro il tema del conflitto, rappresentato dalla politica secondo un ordine simbolico entro cui ogni realtà sociale si esprime nella sua partecipazione a una tensione ininterrotta e inesauribile, com’è anche quella tra la vita in quanto tale, nella sua “animalità”, e la vita qualificata e politica.

Rimane inevaso, in queste tre prospettive analizzate da Marzocca, il problema della distinzione fra la vita naturale e la vita politicamente qualificata, così interessante nella trattazione sviluppata da Hannah Arendt: una distinzione capitale e paradigmatica per Agamben, che però si risolve, in età antica, nella subordinazione della vita naturale alla vita politica, e nell’assegnazione, in epoca contemporanea, di un compito biologico alla storia politica; Negri accantona in maniera più diretta tale distinzione, dirigendo la propria attenzione a un mondo biopolitico in cui la produzione e la riproduzione economica e politica coincidono, e dunque la prospettiva ontologica e quella antropologica tendono a sovrapporsi; lo stesso Esposito attribuisce alla distinzione arendtiana un presupposto non verificato, secondo cui l’unica forma valida di attività politica è quella riconducibile all’esperienza della polis greca, rimanendo inutilizzabile nello studio dei problemi e delle potenzialità della attuale polis globale. E tuttavia quanto prezioso è l’avvertimento di Arendt di non perdere di vista le distinzioni fra le forme della “vita activa”, oggi quanto mai sfumate.

Avverte Marzocca, per quanto la distinzione fra zoe e bios risulti anacronistica e, forse, arbitraria, è possibile trarne un’occasione di riflessione. È ciò che fa, negli ultimi anni della sua vita, Foucault, immaginando di collocare fra questi due poli una terza categoria: quella dell’ethos, della capacità critica, gradualmente e coraggiosamente guadagnata, di smarcarsi dalle trame più costrittive del potere sulla vita, dalla socializzazione della forza produttiva e della sostanzialità carnale e impersonale della vita in quanto tale. Concependo il bios non come una vita qualificata ma come una vita da qualificare, Foucault illumina un compito etico ed eminentemente politico nella soggettivazione autonoma, nella costruzione singolare della propria vita, in una autocostituzione sempre in fieri. Un compito che non perde la propria attualità in un’epoca in cui le coordinate politiche subiscono un profondo rimescolamento.

 3. Biopolitica oggi

L’Almanacco di Filosofia n. 8 del 2020 di Micromega ospita un articolato dibattito, aperto da una lettera in cui il direttore Flores D’Arcais sostiene la vaghezza e l’inutilizzabilità delle tesi foucaultiane e dello studio della biopolitica da esse inaugurato. Fra obiezioni cui già Foucault aveva dovuto far fronte in vita e il rilevamento di contraddizioni davvero presenti in un pensatore così asistematico e autocritico, Flores evidenzia l’incertezza di un paradigma sicuramente affascinante, che però poco e male si attaglia a quella concretezza così reale e viva in cui Foucault voleva calarsi, a meno di non piegare arbitrariamente la realtà in funzione della richiesta di legittimità del filosofo. Foucault parlava esplicitamente di una fiction storica, di uno sguardo obliquo, rischioso ma promettente, per osservare la storia a partire da un’urgenza attuale, e per aprire strade emancipative inedite; un esercizio che può essere inteso come vano paravento al disimpegno politico.

Nella risposta alla lettera a lui indirizzata, Roberto Esposito riconosce le inevitabili contraddizioni che solcano il pensiero foucaultiano, ma afferma con forza l’incidenza e l’attualità del paradigma biopolitico. E, d’altra parte, come si è detto, da decenni Esposito è impegnato a interpretare e riorientare quel paradigma: c’è da credere che, nei giorni in cui rispondeva a Flores, Esposito fosse impegnato nella conclusione del suo ultimo libro, Istituzione (ilMulino), in cui, una volta di più, la questione della istituzione della vita e, viceversa, la gerarchizzazione delle istituzioni in funzione della vita sono messe in questione e discusse. «Mai come nell’anno appena trascorso politica e vita hanno intrecciato le loro orbite, con esiti altamente problematici e ancora incerti». Ma, seguendo l’itinerario tracciato da Ottavio Marzocca ci si rende conto che il paradigma biopolitico, fin dalla sua nascita, non ha mai perso attualità, dimostrando anzi di sapersi applicare ai temi più scottanti della storia, come l’economizzazione delle vite e dell’ambiente.

La crisi dello stato sociale ha coinciso con l’emergere di pratiche mediche sempre più dominate dalla ricerca genetica e dalla biologia molecolare. Con il potenziamento della biomedicina, l’individuo e il suo gruppo genetico formano un vero e proprio microcosmo: il corpo non è più, come nella disciplina descritta da Foucault, regolato nei suoi gesti e nei suoi tempi, ma scomposto e ricombinato, e riprogrammato con una profonda ridefinizione dei confini fra vita e morte. L’evoluzione tecnica in senso genetico accompagna importanti trasformazioni sul piano etico e politico: la dimensione biologica e vitale incide profondamente nella costituzione e nel rinnovamento dei soggetti in campo, nella formalizzazione di nuovi diritti e doveri e, in generale, di nuove forme di politica.

Marzocca, confrontandosi con il pensiero del britannico Nikolas Rose, interroga l’ottimismo con cui questi esclude un ritorno di una visione deterministica della vita e di nuove forme di eugenetica e di razzismo. Marzocca dialoga con una simile tesi anche a partire dall’affermazione di sempre crescenti spinte nazionalistiche e razziste. Ma la visione di Rose risulta problematica anche rispetto alla dimensione di responsabilità etica che egli vede imporsi fra l’individuo e la società in materia di salute, rendimento lavorativo, riproduzione: una forma di autogoverno del proprio capitale umano, privato e di matrice economica, che opportunamente Marzocca definisce compromesso da un sostrato neoliberale, come confermano d’altra parte, gli studi della filosofa Melinda Cooper, sulla privatizzazione e finanziarizzazione della cura per la vita.

Come ha scritto nel 2003 Nancy, proponendo di completare il paradigma biopolitico con il concetto di ecotecnia, la vita qualificata si fonda forse sulla vita naturale, ma la vita naturale è ormai inesorabilmente dominata dalla tecnica. E questo vale per la vita umana quanto per ogni altra forma di vita. In merito alla attualissima questione ambientale, lo sforzo di Marzocca è quello di collocare l’ecologia scientifica tra la ragione scientifica e la biopolitica. Quando, nel 1972, viene pubblicato The Limits of Growth, rapporto commissionato dal Club di Roma al Massachusetts Institute of Technology, si afferma l’urgenza di porre un freno allo sviluppo industriale, al suo sfruttamento di risorse e all’inquinamento, e la necessità di affrontare la questione demografica in termini di sostenibilità. Nasce l’ambientalismo contemporaneo, e vengono delineati i modi in cui ancora oggi viene percepita la questione ambientale, in particolare mediante la categoria della “sostenibilità” quanto a sfruttamento e a crescita demografica su scala globale. Ed è su scala globalizzata che la politica ha cominciato a predisporre i primi tentativi di affrontare le questioni ambientali, mediante conferenze e protocolli.

Si tratta, scrive Marzocca, di una globalizzazione scientifica e politica che precede di una decina d’anni la più nota globalizzazione economica che ancora oggi ci coinvolge. E tuttavia è un vantaggio che si ribalta presto, relegando l’ecologia a inseguire l’economia, per condizionarne appena e invano il corso. Le ragioni di questo rovesciamento possono essere reperite in primo luogo nel fatto che la questione ambientale è posta fondamentalmente già in termini economicistici e biopolitici, così che essa si ponga già dalle proprie strutture elementari in subordine rispetto a uno scenario dominante, quello dello sviluppo economico, che è in fin dei conti quello entro cui la società moderna è stata concepita e governata. Ma anche l’accomodamento della riflessione scientifica ecologica su scala globale in corrispondenza del binomio crescita industriale – crescita demografica, ha concorso a questa perdita di terreno dell’ambientalismo, in favore di economia, cui l’industria fa capo, e biopolitica, cui si riferisce la demografia. Marzocca ricostruisce la genealogia dell’ecologia contemporanea, a partire dalla nascita della geografia botanica, dall’affermarsi della teoria evoluzionistica darwiniana, dalla formazione della teoria degli ecosistemi novecentesca, fino a giungere a dimostrare come la comprensione e il controllo dell’ambiente si siano sempre rivolti a strumenti di efficientamento del rendimento tipici di una biopolitica economicistica. Ed è su queste linee di faglia che lo studio della biopolitica e delle razionalità che la solcano, fra cui anche quella economica neoliberale, si dimostra quanto mai attuale, per penetrare le strategie politiche circolanti, nell’intimo intreccio fra vita umana e ambiente entro cui essa si svolge e deve essere governata e potenziata, nel connubio fra matrici di intelligibilità e strumenti prescrittivi, e per non rimanere invischiati in pratiche politiche destinate a replicare e confermare inconsapevolmente lo status quo.

Infine, e strettamente intrecciata agli squilibri ambientali, allo sfruttamento delle risorse e all’allevamento intensivo, la biopolitica alla prova della diffusione pandemica del virus Sars-Cov2, una realtà che non solo ha profondamente modificato le nostre abitudini di vita, ma ha anche intensificato la penetrazione politica e medica nelle trame più intime della vita dei cittadini. Marzocca chiarisce con lucidità lo stretto legame tra le alterazioni ecosistemiche delle relazioni umane con le altre specie e il ricorrere sempre più frequente di pandemie zoonotiche. Si tratta, dunque, della conseguenza della antropomorfizzazione del pianeta, dell’enfasi posta sulla sola specie umana trascurando la complessità relazionale che la lega all’ambiente di cui è parte integrante. La comprensione degli elementi in gioco è tutt’altro che agevole, come ogni tentativo di penetrare un evento di tale portata ancora in corso. Ma gli strumenti predisposti dagli studi della biopolitica rendono evidenti specifiche strategie approntate: la strategia più diffusa, e chiaramente meno efficace, è quella di un sistema globale e altamente tecnologico di monitoraggio delle avvisaglie pandemiche, con la raccolta statistica centralizzata di informazioni proventi da tutto il mondo; con l’esplosione della pandemia, tuttavia, le misure si sono intensificate, passando, in termini foucaultiani, da strategie disciplinanti a un approccio governamentale e normalizzante. Ben oltre quanto poteva prevedere Foucault, poi, si sono messi in campo gli strumenti tecnologici del riconoscimento facciale e del tracciamento.

Lo studioso di biopolitica è chiamato a testare sul campo il proprio armamentario in occasioni simili, ed è ciò che Marzocca fa alla fine del suo libro, in particolare interrogando alla prova dei fatti l’eccezione di matrice agambeniana e il paradigma dell’immunità di Esposito.

Il libro di Marzocca, come si è cercato di tratteggiare, non offre solo un quadro completo della storia della biopolitica, ma avanza anche un invito a lasciarsi coinvolgere nella formulazione di strumenti oggi quanto mai preziosi per la lettura della contemporaneità.

 

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