Ideologia e capitale totale

Per la rubrica “Rileggiamoli insieme”, mettiamo a confronto ideologia e capitale totale con "Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa" di Eagleton e "Ideologia" di Galli.

Paolo Favilli

RILEGGIAMOLI INSIEMEIdeologia e capitale totale

1.  Eagleton, Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa, Roma, Fazi, 2007 (Prima edizione Verso Books, 1991)

2.  Galli, Ideologia, Bologna, il Mulino, 2022

«Oggi l’Occidente trabocca di politici di sinistra la cui ignoranza delle tradizioni socialiste, anche di quelle da cui essi provengono, è certamente effetto tra l’altro dell’amnesia postmodernista. (…) Con conformismo darwiniano, buona parte della cultura di sinistra ha preso il colore del suo ambiente storico: se viviamo in un’epoca in cui il capitalismo non può essere sfidato, allora, a tutti gli effetti, esso non esiste. Quanto al marxismo Lenin era un “elitista”, teoria e organizzazione politica sono “maschili”, e (…) interessarsi di produzione materiale è “economicismo”»[1].

Cito da un libro di Eagleton, ma non da quello di cui si parlerà in questa rubrica. Il professore di Oxford, infatti, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso dedicò all’analisi del forte consolidamento ideologico in atto, anche il volume da cui è tratto il brano citato.

«Amnesia postmodernista» e con questa affermazione Eagleton collega strettamente il concetto di ideologia ad una «dominante» culturale» che proprio negli anni in cui esce il suo libro sull’idea pericolosa sull’ideologia sembrava essere totalmente pervasiva.

In quello stesso decennio un altro professore americano di letterature comparate, Fredric Jameson, scriveva a proposito della dominante culturale «postmodernista: «Questi ultimi anni sono stati caratterizzati da un millenarismo alla rovescia, in cui le premonizioni del futuro, catastrofiche o redentive, hanno lasciato il posto al senso della fine di questo o di quello (fine dell’ideologia, dell’arte o delle classi sociali)»[2], financo alla «fine della storia».

«Fine delle ideologia» e «fine della storia» sono teorizzazioni (ideologie?) il cui significato culturale e politico non può essere compreso se non nelle loro relazioni con le logiche di accumulazione dominante nella forma capitalismo affermatisi a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento. Scrive ancora Jameson: «Non si tratta di questioni meramente teoriche: esse hanno infatti conseguenze politiche e pratiche urgenti, come risulta evidentemente dalla sensazione comune dei soggetti del Primo Mondo, ossia di abitare davvero esistenzialmente (…) in una “società postindustriale”, dalla quale è scomparsa la produzione tradizionale e in cui le classi sociali di tipo classico non esistono più; convinzione che ha effetti immediati sulla prassi politica»[3]. Un contesto in cui sembra del tutto naturale sostenere la tesi della «fine delle ideologie».

In realtà ancora oggi ci troviamo di fronte a un vero e proprio universo che riguarda il concetto di ideologia nei suoi rapporti con la scienza sociale, con il discorso politico e, più in generale, con il campo della battaglia delle idee.

Se questo è il campo di indagine si comprenderà bene come non sia possibile affrontare la questione partendo da una definizione di ideologia e si debba invece procedere individuando precisi nodi storici in cui quel concetto si sia trovato ad operare.

Terry Eagleton ha proposto una lista con 16 definizioni di ideologia. Alcune di queste definizioni sono tra loro compatibili pur accentuando in maniera diversa alcuni significati. Altre sono del tutto incompatibili. «Il punto  (…) è che lo stesso frammento di discorso può essere ideologico in un contesto, e non esserlo in un altro; l’ideologia è una funzione del rapporto tra un’espressione e il suo contesto sociale»[4]. Perciò la storia del concetto diventa essenziale alla comprensione della molteplicità, necessariamente declinabili in termini storici, dei rapporti tra le definizioni.

2) Il termine nasce in un particolare contesto, e con una accezione molto precisa. Gli «ideologi» di allora, a differenza di quelli di oggi, sapevano di esserlo e rivendicavano esplicitamente il senso del loro progetto culturale e politico. Gli «ideologi» di oggi, tanto più tali quanto più considerano il loro pensiero conforme alla natura delle cose, tacciano di ideologico il pensiero che rifiuta tale naturalizzazione, il pensiero critico, insomma. Per loro «l’ideologia (…) come l’alitosi è qualcosa che appartiene sempre agli altri»[5].

È in un testo dal titolo Mémoire sur la faculté de Penser, letto il 20 giugno 1796 da Antoine L.C. Destutt de Tracy all’ «Institut national des sciences et des arts – Classe de sciences morales et politiques»  che appare per la prima volta il termina «ideologia» intesa come «nuova scienza delle idee».

Il conte Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy può considerarsi una di quelle personalità che con maggior coerenza sia culturale che politica ha attraversato il lungo periodo che si apre con la Grande rivoluzione del 1789 e si chiude con la piccola rivoluzione del 1830. La sua storia è quella di un nobile liberale, erede della grande tradizione inglese di Locke e protagonista del radicalismo liberale nel contesto dell’Illuminismo francese. Coerenza, precisamente quella di un liberale del tutto partecipe alla temperie delle «rivoluzioni borghesi», cui parteciperà dagli avvenimenti del 1789 fino a quelli del 1830 quando, a 76 anni, «s’engagea avec une curiosité patriotique et périlleuse au milieu des barricades»[6]. La coerenza di chi aveva costruito la propria «scienza delle idee», dalla quale si doveva derivare una pratica di comportamento, procedendo «avec l’analyse des chimistes et les formules rigoureuses des mathématiciens»[7] secondo metodologia rigorosamente deduttiva.

L’ideologia, dunque, nasce proprio come «scienza», e scienza che non intende chiudersi in una dimensione troppo settoriale. Anzi Destutt de Tracy la pensa come tendenzialmente indagatrice dei fenomeni esclusi dalle indagini della «fisica», la scienza che godeva del più alto prestigio. Tutto ciò che non rientra nell’ambito della fisica si poteva definire come metafisica. Una parola che, opportunamente rinnovata tramite specificazioni «nuove» sull’oggetto dell’indagine, avrebbe potuto definire anche la «nuova» scienza delle idee. Ma quale rinnovamento sarebbe stato percepito continuando ad usare «un mot (…) si cruellement discrédité»? Sarebbe stato come se «l’astronomie, lors sa rénovation, avait été confondue sous une même désignation avec l’astrologie» [8].

In sostanza l’ideologia si propone come l’asse intorno a cui costruire una rigorosa scienza «morale» come base dell’azione politica, in quella situazione: iniziativa legislativa e di governo.  Tradotto nel linguaggio odierno, scienza morale equivale sostanzialmente all’area delle «scienze sociali» con forti contaminazioni con l’area delle «scienze umane».

3) Il rapporto tra teoria scientifica e funzione pratica della teoria, è alla base del carattere «vacillante», come l’ha definito Balibar, del concetto di ideologia. Un concetto che «continua a tradursi in eclissi, deviazioni antitetiche e spostamenti di problematiche»[9]. E proprio all’interno di questo caratterere «vacillante» si snoda l’analisi di Eagleaton.

«L’emergere del concetto di ideologia non è un semplice capitolo di storia delle idee. Al contrario, esso è intimamente legato alla lotta rivoluzionaria e si presenta fin dall’inizio come un’arma teorica della lotta di classe. Arriva sulla scena presentandosi come inseparabile dalle pratiche materiali degli apparati ideologici di Stato e la sua stessa nozione è teatro di contese tra interessi ideologici»[10].

Da Marx si possono ottenere «almeno tre significati diversi di ideologia, e nessuna idea chiara sulla loro interrelazione»[11]. Il termine può indicare «credenze illusorie»  che cosiderano se stesse come fondamento della storia e che prescindono dalle condizioni reali che le generano. Può indicare il complesso di idee attraversocui le classi dominanti legittima sé stesse. Può avere significato allargato «fino a racchiudere tutte le forme concettuali nelle quali si combatte la lotta di classe, inclusa probabilmente la coscienza delle forze politiche rivoluzionarie»[12].

In queste «forme concettuali» la «vacillazione» non si svolge solo tra conoscenza scientifica e conoscenza illusioria, ma anche nell’ambito del complesso sistema di relazioni che non si risolve nella dinamica di una netta opposizione. L’ideologia, infatti, più che un problema di realtà che si inverte nella mente, è un problema di mente che registra una reale inversione.

Nel Capitale la questione dell’ideologia è strettamente legata al «feticismo della merce», cioè ad un processo che è di per sé insieme di illusione e di realtà.

In virtù del “feticismo della merce”, i rapporti umani appaiono in modo mistificato come rapporti tra cose; e questo ha diverse conseguenze ideologiche. Primo il funzionamento reale della società è offuscato e nascosto: il carattere sociale del lavoro è celato dietro la circolazione delle merci, a loro volta non più riconoscibili come prodotti sociali. Secondo (benché questo sia un punto sviluppato solo dalla tarda tradizione marxista), la società viene frammentata da questa logica della merce. Non è facile coglierla come totalità, data la natura atomizzante della merce che trasforma l’attività collettiva di lavoro sociale in relazione tra cose morte, separate. Cessando di apparire come totalità l’ordine capitalistico rende se stesso meno vulnerabile alla critica politica. Infine, il fatto che la vita sociale sia dominata da entità inanimate le dà una falsa aria di naturalezza e inevitabilità: la società non è più percepita come una costruzione umana e perciò modificabile dall’uomo[13].

Le illusioni sociali sono radicate in contraddizioni reali, ed è l’analisi specifica di questo panorama contraddittorio, di questo oggetto specifico che permette di rilevare l’aspetto di verità presente anche nelle conoscenze illusorie. Perciò «le ideologie sono formazioni complesse, differenziate al loro interno, con conflitti tra i vari elementi che devono continuamente essere rinegoziati e risolti»[14]. Tale continua rinegozione si svolge in un «un ambito di significato complesso e conflittuale in cui alcuni temi saranno strettamente legati all’esperienza di specifiche classi mentre altri saranno più “fluttuanti”, tesi ora in una direzione ora in un’altra nella lotta tra poteri rivali. L’ideologia è un regno di conflitto e di mediazione in cui il traffico è sempre costante: significati e valori sono rubati, trasformati, incorporati, ceduti, riguadagnati, rimodulati da classi e gruppi differenti»[15].

Come abbiamo visto l’analisi di Eagleton sull’ideologia si svolge contemporaneamente alle sue riflessioni su altre «illusioni», quelle del postmodernismo, quindi di un universo nel quale l’ideologia viene declinata come «fenomeno discorsivo». Ciô significa che sia i dati di realtà che quelli di falsità dell’ideologia vanno ricercati non tanto nei concetti quanto nelle «parole» con cui il discorso è costruito, nella loro ambiguità ed indeterminatezza. Sciogliere i nodi che paiono inestricabili nel discorso ideologico tra i «segni», entità materiali,  e i «significanti», i mezzi della rappresentazione, non è possibile, per Eagleton, se restiamo all’interno della logica discorsiva.  «Ma – conclude –  c’è un luogo in cui queste forme di coscienza possono essere trasformate in modo quasi immediato: la lotta politica.»[16]. Il mondo estrerno alle «forme discorsive», insomma, è luogo decisivo sia per la comprensione delle illusioni, sia delle possibilità di una dialettica del reale.

4) Un ventennio dopo la pubblicazione del libro di Eagleton lo studioso di filosofia politica Carlo Galli ha scritto una guida per orientarsi negli itinerari di quel concetto, di quella pratica non solo discorsiva, di cui nei nostri tempi è stata decreatata la «fine», insieme a quella della «storia», ovviamente. Un compito non facile, mi sembra però che Galli, nel suo breve, ma nello stesso tempo densissimo e compatto volumetto, sia riuscito nell’intento che si proponeva.

L’autore, nonostante l’impianto prevalentemente teorico del suo modello argomentativo, non ne resta prigioniero. «L’inizio è sempre un movimento sociale reale» afferma, e, sulla base di questa constatazione, il pur indispensabile strumento teorico trova momenti di concretizzazione nel rapporto con i processi storici. Inoltre, visto che «la comprensione dell’ideologia non può essere solo formale (strutturale, funzionale e intellettuale), essa «deve essere una genealogia» (p. La comprensione, cioè, deve nutrirsi di sapere storico poiché è l’ideologia ad avere «uno spessore concreto e storico»[17].

Il fatto che uno stesso frammento di discorso possa essere ideologico in un contesto e non esserlo in un altro risulta essere, di per sé, un moltiplicatore di definizioni. Insieme al fatto che l’ideologia è una funzione del rapporto tra un’espressione e il suo contesto sociale. Perciò la storia del concetto diventa essenziale alla comprensione della molteplicità, necessariamente declinabili in termini storici, dei rapporti tra le definizioni. Carlo Galli articola la propria analisi proprio nella ricostruzione dei nessi, e soprattutto delle contraddizioni, che caratterizzano l’insieme dei suddetti rapporti.

La chiave interpretativa, forse la più importante, ch’egli utilizza è racchiusa in questa icastica espressione: l’ideologia è «un’Aufklärung percorsa dalla dialettica», un’illuminazione che si combina con propaganda e cultura; «insomma una contraddizione».  La contraddizione dialettica sta nel cuore dell’ideologia perché in questo cuore c’è «la critica, la pretesa “scientifica” – più o meno fondata, “articolata, potente – di chiarire e organizzare concettualmente l’esistenza collettiva». Dialettica implicita nella tensione insopprimibile tra una scienza sociale intesa come strumento di conoscenza precisa e rigorosa del reale e la sua traducibilità politica in «un progetto di ordine nuovo»[18].

Galli, a mio pare giustamente, ha posto la «critica» come fondamento del polo dell’ideologia che ha «pretese “scientifiche”». Le caratteristiche degli strumenti analitici tramite i quali la «critica» viene esercitata, però, sono in grado di dirci molto sul grado di fondatezza delle «pretese». La marxiana critica dell’economia politica, ad esempio, ha in sé, non, ovviamente, nelle scolastiche che ne sono derivate, una struttura «vacillante», come direbbe Balibar? Penso di no.

In realtà la critica dell’economia politica è aspetto fondamentale della critica dell’ideologia. Si tratta, infatti, di una vera «cesura epistemologica» nel modo di considerare tanto economia che pensiero economico.  Ancora nel momento attuale, sul piano teorico, l’unica antitesi «scientifica» alla fase in corso di totalitarismo neoliberista.

Nella nostra vicenda lunga quasi 250 anni l’ampiezza delle «vacillazioni» non poteva che essere legata a circostanze storiche specifiche. Oggi, nelle circostanze storiche che stiamo vivendo, è scomparsa la tensione originaria? Se, come sostiene un luogo comune ripetuto ossessivamente da gran parte della pubblicistica corrente, siamo ormai nel tempo della fine delle «ideologie» (già l’uso del plurale è indicatore di un’avvenuta ampia vacillazione), ciò significa che la scienza sociale ha assunto una trasparenza assoluta.

Nella parte conclusiva del saggio una prospettiva del genere è sottoposta a critica radicale. Con linguaggio asciutto e rigoroso Galli delinea un quadro dominato non da una narrazione economico-sociale frutto di una «trasparenza assoluta» della scienza, bensì da un dominio «assoluto» dell’ideologia.

Paolo Favilli

[1] T. Eagleton, Le illusioni del postmodernismo, Roma, Editori Riuniti, 1998 [Edizione in lingua inglese nel 1996], pp. 34-35.

[2] F. Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma , Fazi Editore, 2007  (Duke University Press, 1991), p. 19.

[3] Ivi, p.68.

[4]T Eagleton, Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa,  Roma, Fazi Editore, 2007, p. 22.

[5] Ivi, p. 13.

[6] F.A. Mignet, La vie et les travaux de Destutt de Tracy, «Revue des Deux Monde, période initiale», tome 30, 1842, pp. 685-711. La cit. p. 711.

[7] Ivi, p. 698.

[8] Mémoire sur la faculté de penser, Par Destutt (Tracy), membre associé, «Mémoires de l’Institut national des sciences et arts», Paris, Baudouin, Thermidor an VI, p. 323.

[9] E. Balibar, La vacillazione dell’ideologia nel marxismo, in Idem, La  paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, Milano, Mimesis, 2001, p. 96.

[10] T Eagleton, Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa, ,cit., p. 91

[11] Ivi, p. 107.

[12] Ivi, p. 108.

[13] Ivi, p. 109.

[14] Ivi. p. 62.

[15] Ivi, p. 127.

[16] Ivi, p. 266.

[17] C. Galli, Ideologia, Bologna, il Mulino, 2022, pp. 19 e 65

[18] Ivi, pp. 9, 10, 11.

 

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