Il 1° maggio di Pietro Ichino: si salvi chi può

Anche quest’anno il giuslavorista ha inteso contribuire alla festa dei lavoratori con riflessioni molto discutibili.

Renato Fioretti

Anche quest’anno, come da consolidata tradizione, Pietro Ichino ha inteso contribuire alla festa dei lavoratori “a modo suo”!

In questo senso, nel 2016 esultava [1] per un aumento dell’occupazione pari all’1,2 per cento e una diminuzione della disoccupazione dal 13 all’11,4 per cento, dimenticando, però, uno stato del mercato letteralmente “drogato” dallo sgravio fiscale sul costo del lavoro introdotto dal governo Renzi con la legge di stabilità del 2015.

Si trattava, tra l’altro, di benefici concessi non solo nel caso di un’assunzione in più ma, addirittura, anche nel caso di un’assunzione a fronte di un licenziamento!

Una situazione che, nel medio-lungo termine, relativamente alla trasformazione da lavoro a termine a lavoro a tempo indeterminato, finì con il dimostrare [2] che “la stabilizzazione millantata del Jobs-act sarebbe venuta meno una volta terminati gli sgravi contributivi” [3]. Contemporaneamente, l’ex senatore Pd, contestava al Ministero del lavoro l’assoluta inoperatività della rete dei Centri per l’impiego.

Nel 2017, il giuslavorista milanese, alias “Il licenziatore” [4], ribadiva le contestazioni al Ministero del lavoro per il mancato avvio dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive (ANPAL) – formalmente istituita dal Jobs-act per fornire servizi efficaci per la ricerca di lavoro a inoccupati e disoccupati – e per il mancato impegno di corrispondere ai lavoratori il c.d. “assegno di ricollocazione” per pagare i servizi di assistenza offerti loro dalle agenzie private “accreditate”.

Peccato – per lui – non aver ritenuto opportuno esprimere tanto legittimo sdegno e biasimo, nei confronti delle istituzioni pubbliche, prima ancora che – attraverso l’entrata in vigore dei decreti di cui al Jobs-act – divenissero operative le misure tese a ulteriormente ridurre i diritti e le tutele previste dalla vigenza della “giusta causa” e del vecchio contratto di lavoro a tempo pieno terminato e indeterminato.

Nella stessa occasione, Pietro Ichino fu artefice di quella che – in attesa della prossima –considero una delle sue migliori “performance”.

Alludo alla sua estemporanea proposta di un 1° maggio che sarebbe riduttivo definire assolutamente “alternativo”.

L’idea secondo la quale i vigili urbani, i conducenti dei mezzi pubblici, i chirurghi, i dipendenti di un pastificio, quelli del Ministero del lavoro e i dipendenti pubblici (per limitarmi ai suoi esempi) [5], avrebbero dovuti festeggiare la ricorrenza offrendo una giornata di lavoro gratuito.

In sostanza: un salto all’indietro di ben 131 anni; anzi, peggio!

Il tutto, naturalmente, al fine di sostituire [6] i “soliti concertoni, sventolio di bandiere e cortei autoreferenziali”.

Come se, di lavoro sostanzialmente “semi-gratuito” o praticamente tale, dai ricercatori a 800/900 euro al mese ai giovani della kermesse milanese dell’Expo 2015, non ce ne fossero già abbastanza.

Rivoluzionario, si, ma sconcertante. Degno di un cultore di quello che sarebbe il neo Diritto del lavoro in un distopico futuro.

Il 1° maggio 2018 fummo cortesemente dispensati dalle sue esternazioni perché dedicato alla raccolta delle recensioni a un suo libro.

Nel 2019 fu il turno delle (ricorrenti) critiche al nostro sistema di protezione del lavoro rispetto agli standard europei. Come se i lavoratori italiani non avessero già pagato abbastanza – in termini di riduzione dei diritti e delle tutele – grazie all’ormai antico e sin troppo monotono ritornello “Lo chiede l’Europa”.

La stessa Ue che rappresenta un sistematico riferimento quando si tratta di teorizzare riforme in peius, ma sistematicamente ignorata quando, ad esempio, si tratterebbe di adeguare i salari, istituire un minimo legale o ridurre l’orario di lavoro settimanale.

In sostanza, un provincialismo “di maniera” – con un insopportabile abuso di terminologia anglosassone – modellato a proprio uso e consumo.

La festa dei lavoratori dello scorso anno fu, invece, caratterizzata da una vera e propria “chicca”.

Come definire altrimenti l’idea [7] secondo la quale – in un Paese che (prima o poi) sarà costretto a prendere drammaticamente atto di una grave recessione economica (fino ad oggi sottaciuta al grande pubblico) che, molto probabilmente, richiederà sudore e sangue ai “soliti noti”: cioè disoccupati, pensionati, lavoratori e, comunque, povera gente – il 1° maggio possa essere dedicato a “un’idea nuova di mercato del lavoro”.

Una condizione, cioè, nella quale siano i lavoratori a “scegliersi l’imprenditore più capace di valorizzare il loro lavoro”.

Al riguardo, se è certamente vero che nel nostro Paese si registra la sostanziale assenza di adeguate “politiche attive” del lavoro – il che impedisce a centinaia di migliaia di inoccupati e disoccupati di usufruire di adeguati servizi di informazione, orientamento e formazione professionale – e, nel contempo, appare disarmante l’incapacità, da parte delle strutture preposte, di svolgere in modo soddisfacente il compito di agevolare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, è altrettanto vero che le forze in campo affrontano una lotta impari.

Infatti, la situazione nella quale si trovano oggi i lavoratori italiani e gli aspiranti tali non è di certo quella che Pietro Ichino definisce “un’economia industriale matura”; tutt’altro.

Ciò è stato reso possibile – anche grazie al suo contributo teorico (marcatamente negativo, a mio parere) di “influencer” – perché in Italia, negli ultimi 20 anni, uno degli obiettivi cardine del processo di riforma del mercato del lavoro “è stato rappresentato dalla volontà di frantumare il potere dei lavoratori e delle loro rappresentanze sindacali”. [8]

L’ormai famigerato “Libro bianco”, la legge 30/2003, il decreto legislativo 276/2003, il decreto Sacconi (138/2011), la legge Fornero (92/2012), il sostanziale smantellamento dell’art. 18 dello Statuto ad opera della Fornero prima e di Renzi dopo, il Jobs-act, il superamento del vecchio contratto di lavoro a tempo indeterminato, la “liberalizzazione” dei rapporti di lavoro a termine, la miriade di norme e provvedimenti tutti tesi ad indebolire i lavoratori – la parte già più debole tra le parti – in aggiunta alla flessibilità assurta a totem e divenuta ormai sinonimo di precarietà diffusa, il lavoro “povero” e, addirittura, quello “gratuito”, hanno ridotto i lavoratori italiani in una condizione – credo senza precedenti né affini, in Ue – di grande sudditanza e subalternità; anche culturale, purtroppo.

In questo quadro, quindi, immaginare la possibilità che un lavoratore (o aspirante tale) sia nella condizione di decidere il settore, la sede e/o l’azienda presso la quale lavorare, ovvero, come addirittura sostiene Pietro Ichino, “scegliere e ingaggiare l’imprenditore”, non è difficile, raro o, utopistico; è, più semplicemente, assurdo.

Tra l’altro, di là dell’ormai drammatica situazione occupazionale presente in Italia, escluso che tale possibilità (scegliere ed ingaggiare l’imprenditore) rappresenti null’altro che una provocazione intellettuale lanciata da un fine teorico qual è Pietro Ichino, è anche da escludere – a mio parere – che possa effettivamente realizzarsi; anche in un’economia industriale matura.

In definitiva, con alle spalle 35 anni di attività sindacale, ventidue dei quali trascorsi quale componente la Commissione Regionale per l’Impiego di una Regione difficile qual è la Campania e senza alcuna intenzione di mostrarmi irriguardoso, credo che una tale opzione sia, in realtà, irrealizzabile e rappresenti quella che, a Roma, giusto per ricorrere a un francesismo, definirebbero una “fregnaccia”!

Detto questo, senza neanche tentare d’immaginare cos’altro potrà sortire dal cilindro da prestidigitatore di Pietro Ichino per il prossimo 1° maggio 2022, concludo con la cronaca relativa al “Primo maggio nell’era del recovery plan”. [9]

Relativamente all’ultima ricorrenza, evito di soffermarmi sull’opportunità di utilizzare termini quali hard-to-fill vacancies, coaching, job counseling, job self-service, hub-lavoro, open space, minimum wage, e via di questo passo, per limitarmi a rilevare il ricorso a un altro, anch’esso abusato, stereotipo: “In Italia si censiscono oltre un milione di posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di un’offerta di manodopera corrispondente”.

E ancora: “non si trovano tecnici informatici, infermieri, operai per la meccatronica, ingegneri, ma neanche i panificatori, i macellai, i sarti, gli idraulici, gli elettricisti, i falegnami”.

In definitiva, a parere di Pietro Ichino “tali enormi giacimenti occupazionali restano inutilizzati perché alle persone che potrebbero esservi interessate non si danno i necessari servizi di orientamento professionale, informazione e formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti”.

Su questo punto, ritengo ovvio concordare con Pietro Ichino circa il fatto che talvolta reperire, ad esempio, tecnici particolarissimamente specializzati in informatica di altissimo livello e/o operai 4.0 con qualificazioni superiori alla media può, oggettivamente, presentare qualche difficoltà.

Trattasi, però, di un problema facilmente superabile, se considerate le modalità attraverso le quali di norma, in Italia, si accede a un posto di lavoro “privato”.

Ciò che, piuttosto, sarebbe evidentemente opportuno far rilevare – soprattutto a un cultore del Diritto del lavoro di grande livello qual è Ichino – è che, nella stragrande maggioranza degli altri casi, il “bacino” dei disponibili resta tale perché, in realtà troppo spesso, le condizioni proposte ai lavoratori – in termini economici e contrattuali – sono ai limiti della sopravvivenza e del ricatto esistenziale.

Una triste realtà – a tutti ampiamente nota – imposta dall’esistenza di una vera e propria giungla delle c.d. “tipologie contrattuali” disponibili, di centinaia di contratti “pirata”, di precarietà diffusa in forma endemica e di norme che, come sosteneva il compianto Luciano Gallino a proposito dell’art. 8, della legge 14 settembre 2011, nr. 148, hanno fatto fare “un salto indietro di mezzo secolo alla nostra civiltà del lavoro”.

Al riguardo, Pietro Ichino è sicuramente “persona ampiamente informata sui fatti”!

 

NOTE

1. Fonte: “1° maggio: non è ancora una festa di tutti gli italiani”; su pietroichino.it del 30 aprile 2016.

2. Fonte: “Non è lavoro, è sfruttamento”; di Marta Fana, Ed. Economica Laterza.

3. Non poche, inoltre, le denunce da parte di lavoratori costretti a dimettersi da contratti a tempo indeterminato per poi essere riassunti con contratto “a tutele crescenti” da un’impresa creata ad hoc; così da poter godere degli sgravi elargiti senza alcun pudore.

4. Sostenitore della controriforma dell’art. 18 dello Statuto, nonché teorico del c.d. “Contratto unico” che, grazie al governo Renzi, sarebbe stato realizzato attraverso la formula dell’attuale “Contratto a tutele crescenti”; con il definitivo superamento del vecchio contratto a tempo indeterminato.

5. Peccato che manchino le arti forensi ed i professori universitari!

6. Fonte: “Proposta per il 1° maggio 2017: al centro il lavoro e non le chiacchiere”; su pietroichino.it del 2 maggio 2017.

7. Fonte: “1° maggio: l’intelligenza del lavoro”; su pietroichino.it del 1° maggio 2020.

8. Vedi Nota 2

9. Su pietroichino.it del 1° maggio 2021.



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