«Il 41 bis è stato utile e lo è ancora, perché la mafia non è un fenomeno transitorio»

A partire dai casi Messina Denaro e Cospito le considerazioni del magistrato Sebastiano Ardita.

Maria Concetta Tringali

La cattura di Matteo Messina Denaro, arrivata dopo una latitanza durata trent’anni, e lo sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il 41-bis animano il dibattito nel paese, da settimane. Messa a tacere la questione dell’ergastolo ostativo a dicembre con la legge sulle misure in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti che non collaborano con la giustizia, al centro rimane il tema caldissimo del regime penitenziario speciale.
Consiste nella modifica, introdotta ad opera del decreto legge Scotti-Martelli nel giugno del ’92, a cavallo delle stragi di mafia, che interviene sulla legge che norma l’ordinamento penitenziario. E lo fa con l’aggiunta di un disposto, dal tenore inequivocabile: «Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, (…), il Ministro di grazia e giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, (…), l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza».

Stiamo parlando di reati di mafia e di detenuti (che possono essere sia condannati in via definitiva sia in attesa di giudizio o in stato di custodia cautelare) per i quali, per la prima volta, la legge permette una sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario.

È il 2002 quando poi la norma passa da una dimensione di provvisorietà (nasceva con una scadenza, il 1995, più volte prorogata) a quella di strumento utilizzato con la finalità preventiva di limitare la frequenza dei contatti fra i boss e i loro affiliati all’esterno. Interrompere i rapporti per impedire che l’organizzazione criminale possa continuare ad avere una guida, decapitare le famiglie mafiose è la ratio. Il regime delle proroghe (lo ricorderemo) ha peraltro assicurato la revoca del 41-bis per scadenza dei termini a numerosi detenuti (oltre trecento), proprio all’indomani delle stragi di Capaci e Via d’Amelio, e questo va detto senza infingimenti.

A leggere i numeri aggiornati al dicembre 2022, il 41-bis interessa 748 detenuti (di cui 13 donne), dato a cui va aggiunto l’arresto di Messina Denaro rinchiuso da metà gennaio nel carcere dell’Aquila.

MicroMega, che alla questione ha dedicato diversi contributi, oggi ha incontrato Sebastiano Ardita, già componente togato del CSM, per molti anni direttore generale del dipartimento detenuti e trattamento del DAP.

Dottore Ardita, lei è anche autore di un libro dal titolo “Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere“. È certamente la persona più indicata per aiutarci a fare chiarezza: quanto ha pesato il carcere duro nella lotta alla mafia? Quanto è servito ad arginare il fenomeno?

Il 41-bis è solo uno strumento di prevenzione, ma è riuscito ad impedire molti delitti ed è stato un deterrente rispetto allo strapotere dei capi mafia. L’unico errore da non commettere è considerarlo un fenomeno dettato dalla emergenza. Perché il fenomeno mafioso che intende contrastare non è affatto transitorio, ma anzi è stabile e saldo nel tessuto sociale di molti territori.

Sull’anarchico in sciopero della fame da più di 100 cento giorni per contestare proprio il regime speciale, sulle manifestazioni e le sassaiole davanti al carcere di Opera dove è stato trasferito per esigenze legate al suo stato di salute, sulle prese di posizione di politici e società civile, proviamo a farci un’idea più precisa. Cosa pensa di Cospito e della situazione che si è venuta a creare?

Penso che sia una situazione un po’ complicata in cui occorre distinguere tra legittimità delle scelte e strategia complessiva. La decisione di applicare il 41-bis a Cospito è più che legittima, il provvedimento firmato dalla Ministra Cartabia è scritto molto bene ed evidenzia tutti gli aspetti su cui si fonda la decisione. Il punto è che utilizzando lo strumento nei confronti di realtà diverse da quella mafiosa occorre anche tener conto del pericolo di saldare interessi di altre componenti contro il regime speciale. In ogni caso si tratta di una scelta di politica criminale su cui spetta al Governo l’ultima parola.

I presupposti in diritto, dunque, nel caso di specie ci sono. Ma, certamente, non possiamo omettere di considerare che quella sul 41-bis sia una scelta precisa che tira in ballo l’esecutivo. Come fortemente politicizzato ne è il tema. I profili che quel regime illumina sono molteplici, tutti per la verità affrontati dalla Corte costituzionale nel corso di decenni. È a dir poco scivoloso il terreno del bilanciamento tra le esigenze di ordine e sicurezza (che il regime del carcere duro sottende) e quelle che impone il rispetto del diritto alla salute, che è diritto incomprimibile (lo sanno bene i giuristi e le giuriste). Qualcuno l’ha definito un equilibrio difficile, forse impossibile.  Esiste una “questione 41-bis” che le condizioni di salute dell’anarchico hanno contribuito a rimettere al centro del dibattito?

Lo sciopero della fame è una condizione autoimposta che può nuocere alla salute, ma questo non toglie che a Cospito si debba dare tutta l’assistenza prevista ove sia necessario. Nel caso che abbiamo davanti non c’è alcuna questione che riguardi la salute causalmente collegata alla concreta applicazione del regime. Il 41-bis non prevede alcuna minore assistenza sanitaria, rispetto al regime ordinario di detenzione. In ogni caso se le condizioni di salute dovessero peggiorare a causa dello sciopero della fame saranno garantite tutte le misure sanitarie previste per ogni detenuto.

Quando si parla di 41-bis, si dice (forse più a torto che a ragione) “carcere duro”. Dalle pagine del suo libro si fa invece estrema chiarezza, su un punto che troppo spesso si è prestato a grandi strumentalizzazioni: «Il carcere diventava duro per impedire che da lì partissero gli ordini dei capimafia, non certo perché si volesse far soffrire apposta qualcuno. Non era previsto che si dovesse stare in isolamento assoluto, né venivano imposte sofferenze fini a sé stesse, perché ciò sarebbe stato contro i principi fondamentali che tutelano i diritti dell’uomo». La misura pone un problema con cui ogni regime deve fare i conti: quello del divieto di trattamenti inumani. Per la Corte EDU l’Italia s’è già resa colpevole di aver violato l’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (su tortura e trattamenti degradanti). È accaduto ad esempio in occasione della proroga del regime speciale disposta per Bernardo Provenzano, ad appena qualche mese dalla sua morte. Per la Corte di Strasburgo il nostro paese aveva violato il divieto in quella precisa circostanza e calpestato diritti, in quanto non si era debitamente valutato il deterioramento cognitivo del detenuto. Lei crede che oggi si aprano oggi nuove o rinnovate riflessioni su 41-bis e trattamenti inumani?  

Credo che in quel caso, come anche in questo, molto abbia giocato l’aspetto simbolico del 41-bis che è un modo con cui i governi intendono affrontare una questione criminale. Ecco perché si suole dire che questa è una misura che, una volta adottata, se non viene annullata con i ricorsi giudiziari è poi difficile che venga ritirata.

Ma su 41-bis e incostituzionalità, la Consulta in più occasioni ha ribadito per quel regime la non incompatibilità con i principi costituzionali. Nessun contrasto con i diritti fondamentali della persona, con quelli di inviolabilità della libertà personale e di finalità rieducativa della pena. Ciò, tuttavia, solo in presenza di due condizioni, è chiaro: che la misura sospensiva dell’ordinario trattamento non imponga ulteriori e più gravose restrizioni della libertà rispetto a quelle della detenzione e che – per l’appunto – non violi il divieto di trattamenti disumani e degradanti, o annulli la finalità rieducativa della pena. Vede altri profili di illegittimità costituzionale a carico del regime al quale sono sottoposti i boss?

In realtà la corte tra il ‘93 e il ‘96 ha sancito che sono vietati i trattamenti disumani e degradanti – limiti cosiddetti esterni – e tutte le misure che non siano direttamente funzionali alle esigenze di impedire i contatti con l’esterno – limiti interni –. Sono due categorie generali che nel corso degli anni sono state riempite di casi concreti.

Ad esempio, l’isolamento assoluto è incostituzionale perché impatta sui limiti esterni, in quanto lede il diritto fondamentale alla socialità. Il divieto di cuocere cibi, non è legato a un diritto fondamentale, ma si è ritenuto incostituzionale perché non funzionale alle esigenze del regime, e quindi inutilmente vessatorio.

Altra questione attualissima è quella che attiene al diritto di difesa. Si è parlato molto di Messina Denaro e della nomina conferita alla figlia della sorella, avvocata Guttadauro. La Corte Costituzionale già nel 2013 definiva i contorni di questo rapporto, con riferimento al limite imposto ai colloqui («fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari») concludendo che per come congegnati erano incompatibili con la garanzia di inviolabilità sancita dall’articolo 24, secondo comma, della Costituzione. L’inasprimento del regime speciale operato nel 2000 dal “Pacchetto sicurezza” lasciava intravedere un ragionamento – gravido di conseguenze – che pareva fondarsi su un sospetto: che anche il difensore si potesse prestare a fare da veicolo per messaggi e comunicazioni. Più di recente, il giudice delle leggi ha cassato il visto di censura della corrispondenza tra detenuti al 41-bis e difensori. Incontestabile è che il diritto di difesa sia “principio supremo” dell’ordinamento costituzionale, che comprenda il diritto di conferire con il difensore e che trovi precise corrispondenze nel diritto internazionale dei diritti umani. Messina Denaro non ha ancora ricevuto la visita in carcere della nipote e qualcuno si chiede già se attraverso quella nomina non si stiano di fatto superando i limiti imposti, per gli incontri con i parenti, a chi è al carcere duro. La Camera penale di Cosenza (in risposta a un articolo pubblicato sul Corriere della Sera) si dice attonita per ciò che definisce «un facile accostamento avvocato-assistito, mediaticamente agevolato dal legame familiare», accostamento cui addebita un percorso che conduce alla demolizione dello Stato di diritto. Che ne pensa?

Penso che si debba guardare caso per caso. Nella gran parte gli avvocati svolgono in modo corretto il loro fondamentale ruolo. Ma vi possono essere casi – ne sono venuti alla luce alcuni nel passato – che vedono vere e proprie condotte di favoreggiamento se non di partecipazione alle attività criminali degli assistiti. È chiaro che occorre presumere la correttezza ed assicurare i contatti. Nel caso di violazioni della legge il Codice penale si applica anche agli avvocati, come a tutti gli altri cittadini.

Sono molteplici gli attacchi al regime speciale che in queste settimane provengono anche da intellettuali e da una certa parte politica. Il 17 gennaio, sui suoi social, la filosofa Donatella Di Cesare scriveva «No al 41 bis – per Cospito, per Messina Denaro, per chiunque»; sulle pagine del Riformista denunciava ai danni dell’anarchico «la colpevole inerzia di questo governo» attribuendole «il terribile sapore di una ripugnante vendetta». Nel suo libro lei definisce il regime del 41-bis «un passo decisivo nella lotta alla criminalità organizzata ma anche l’inizio di un braccio di ferro tra Stato e mafia che è tutt’altro che finito». Sul regime destinato ai boss stiamo assistendo a questo braccio di ferro?

Diciamo che la distanza dagli anni delle stragi induce alcuni a sottovalutare la capacità di rigenerazione delle compagini mafiose. Tutto il testo è frutto di un dibattito tra sensibilità diverse.

Questione di sensibilità, certamente. Ma sembra difficile non farsi sfiorare dall’idea che si stia facendo slittare la questione su un piano ideologico. A chi giovi, poi, allontanare il discorso dalla mera valutazione degli aspetti tecnici (quei presupposti che devono presiedere alla concessione o al mantenimento della misura), è domanda che dovremmo porci prima di ogni altra. Come, provando ad allargare la prospettiva e a pesare anche le recenti dichiarazioni del ministro Nordio sulle intercettazioni insieme al fuoco incrociato sul 41-bis, non si può non tentare di immaginare quale scenario queste manovre disegnerebbero. Dove crede che stia andando il Paese?

Mi sembrano discussioni diverse, ma entrambe generate da una certa insofferenza verso l’azione repressiva dello Stato.

 

Foto: Facebook | Sebastiano Ardita



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