Il calcio come metafora della vita

Inginocchiarsi per solidarietà? Un gesto simbolico contro il razzismo svilito a compiacenza nei confronti dell’avversario? Sarebbe auspicabile vedere i giocatori della Nazionale esprimere posizioni libere e consapevoli.

Teresa Simeone

La nazionale di Mancini ci sta divertendo e inorgogliendo col suo gioco: siamo assetati di gratificazioni e ogni riconoscimento diventa balsamo per il nostro senso di appartenenza a un paese ricco di cultura, arte, ingegno, storia, natura. E di bellezza sportiva.

Peccato che il calcio, ormai, checché se ne dica e si voglia, non sia soltanto ciò che si svolge in un campo di 100 metri ma investa ambiti molto più ampi e non sempre coerenti con lo statuto originario. Accade, perciò, che digeriamo il business che lo governa, accettiamo le logiche finanziarie di società quotate in Borsa, sottostiamo alle dinamiche che attraversano il settore del mondo delle scommesse ma gridiamo allo scandalo e alla politicizzazione quando si tratta di assumerne l’essenza e cioè la capacità di veicolare valori come il rispetto dell’avversario, l’accettazione delle regole, il senso di responsabilità, il fair play. Lo si dica ai ragazzi delle periferie che sono avvicinati alla pratica sportiva, che non è vero quello che ripetono gli allenatori quando parlano di accettazione e integrazione, di principio di uguaglianza senza distinzione di origine, colore, etnia, religione. Lo si dica ai giovani che hanno sete di riscatto sociale che lo sport non sempre è dialogo interculturale e cooperazione con l’altro, indipendentemente dalle condizioni di nascita. Lo si dica che in fondo quei valori, richiamati quando c’è bisogno di motivarli, di richiamarli alla correttezza, non sono concreti e sono considerati un pericolo perché estranei a una narrazione che vorrebbe, a fasi alterne, lo sport ora riempito ora svuotato di messaggi come, nello specifico, il contrasto al razzismo.

Le polemiche di questi giorni, tra inginocchiamenti individuali e posizioni in piedi, atti entrambi rispettabili, non possono essere derubricate a semplici ingerenze in un mondo che non ha niente a che fare con lo sport: sappiamo bene che non è così. Non lo è perché ogni scelta definisce chi siamo, in cosa crediamo, quali sono i nostri valori, qual è il modello di società che vorremmo. Naturalmente, la condicio sine qua non è la libertà, che necessariamente si deve accompagnare alla scelta. Non ci può essere azione morale che non sia, come sosteneva Kant, frutto di una libera scelta.

Quando l’Italia ha giocato con il Galles, cinque giocatori italiani si sono inginocchiati; quelli del Galles lo hanno fatto tutti compattamente. Ciascuno è stato libero di assumere la posizione in cui credeva.

Il presidente Gravina ha precisato che la FIGC non ha imposto nulla ai giocatori: peccato, però, che da allora sia iniziato un balletto di dichiarazioni sempre più imbarazzante. Con l’Austria non sappiamo come ci comporteremo. Con l’Austria non ci inginocchieremo. Con l’Austria ci inginocchieremo se lo faranno loro; se non lo faranno, noi non ci inginocchieremo. Si è entrati nella confusione più paradossale. E si è incominciato a rincorrere gli avversari. Il Belgio si è inginocchiato? E allora anche l’Italia lo farà. D’emblée, la scelta individuale è venuta meno: se ne farà una collettiva (ma non si era detto che le scelte sono personali?).

Che senso, ci si chiede, ha tutto questo? Cosa significa che si farà quello che gli avversari decideranno per solidarietà? Solidarietà di cosa? Per cosa? Un gesto simbolico contro il razzismo svilito a compiacenza nei confronti dell’avversario? Come se non avessimo un’intelligenza autonoma, come se la sensibilità non fosse un dato proprio del soggetto, come se l’adesione avesse bisogno di modelli?

È veramente imbarazzante la nuova tipologia di civiltà che la nazionale italiana sta proponendo al mondo e all’Europa: una civiltà speculare, ridotta a mimesi acritica e acefala, meramente camaleontica.

La nota diffusa dalla FIGC e poi corretta nel pomeriggio come “non ufficiale”, cioè come l’espressione personale di un dirigente, dichiarava che la campagna Black Lives Matter non era condivisa dalla squadra ma che, se gli avversari si fossero inginocchiati, allora anche la nostra nazionale lo avrebbe fatto. Avrebbe condiviso, cioè, qualcosa che non condivide se gli altri avessero condiviso e non avrebbe condiviso se gli altri non avessero condiviso. Un pasticcio linguistico, logico, etico. Che richiederebbe quantomeno un chiarimento sulla reale e ufficiale posizione nel merito della Federazione.

Se l’adattamento all’ambiente è una forma d’intelligenza, il conformismo alle idee degli altri è solo incapacità di scegliere con la propria testa e svilimento di quell’alto concetto di libertà che trova la sua essenza nel rispetto di un’indipendenza intellettuale ed etica. Sarebbe auspicabile, perciò, vedere giocatori esprimere posizioni libere e consapevoli.

Sarebbe, altresì, bello vedere, senza strappi e senza ambiguità, anche tra Belgio e Italia quello che è successo tra il Belgio e il Portogallo: tutti inginocchiati, arbitro e assistenti compresi, a simboleggiare il proprio ripudio del razzismo. In silenzio. Senza clamori. Senza tentennamenti, senza compiacimenti, senza la paura di contraddire tifoserie razziste. Sarebbe civile, oltre che libero.

 

(credit foto EPA/Alberto Lingria / POOL)



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