Se 22 anni e mezzo vi sembran pochi. Il caso Floyd e il dilemma della giustizia

Ha prevalso la giustizia o l’ingiustizia? Quando una pena è abbastanza severa? Cosa fare contro l’insopportabile violenza poliziesca? Gli interrogativi che pone con forza la condanna per l’uccisione di George Floyd non riguardano solo gli Stati Uniti.

Elisabetta Grande

Derek Chauvin, il poliziotto che il 25 maggio del 2020 ha ucciso George Floyd premendogli un ginocchio sul collo per più di nove minuti fino a fargli esalare l’ultimo respiro, ha infine ricevuto la sua pena. Condannato il 20 aprile di quest’anno per tre capi di imputazione da una giuria di 12 persone, venerdì 25 giugno il giudice Peter Chaill ha stabilito per lui una pena detentiva di 22 anni e mezzo per il reato più grave, che ha assorbito gli altri due. Secondo il così detto processo bifasico o biforcato, caratteristico del modello americano, l’accertamento della responsabilità penale e la commisurazione della pena fanno capo a due soggetti differenti. Così, dopo la condanna di Chauvin da parte della giuria popolare, che aveva dato risposta alle imponenti proteste di piazza seguite alla morte di Floyd, l’attesa per la determinazione giudiziale della pena era alta. È, infatti, soprattutto su quel piano che si gioca la rivendicazione dell’importanza della vita di un uomo nero. Black lives matter, le vite dei neri contano, infatti, non solo se la violenza assassina e razzista della polizia americana viene finalmente riconosciuta, ma anche se essa viene severamente punita.

Quando, però, e in base a quali criteri, una pena è abbastanza severa? E quali, più in generale, sono i limiti dell’uso del diritto penale nei confronti dell’insopportabile violenza poliziesca? Sono questi gli interrogativi che la condanna a 22 anni e mezzo di reclusione di Derek Chauvin pone con forza e che non riguardano solo gli Stati Uniti.

Certamente se paragonati – fra le tante condanne di analoga durezza – alla pena a vita irrogata in California a Pablo Garcia – soltanto di recente uscito dalla prigione di San Diego dopo 24 anni di prigionia, grazie a una modifica della così detta legge sul terzo strike[1] – per aver scassinato una macchina, 22 anni e mezzo di prigione sono davvero pochi.

La sanzione inflitta a Chauvin non soddisfa peraltro neppure il bisogno di quella che viene chiamata “psychological closure”, traducibile come il superamento psicologico del trauma da parte dei familiari. Il fratello di George Floyd – Rodney – ha infatti significativamente definito la sanzione stabilita dal giudice Chaill “a slap on the wrist”, cioè una semplice tirata d’orecchi, mentre il nipote – Brandon Williams – ha chiarito come la condanna a 22 anni e mezzo di reclusione (sostituibile dopo 15 anni, in caso di buona condotta, con la libertà vigilata) non renda giustizia alla famiglia, che ha perso per sempre George e per questo sta ora scontando una pena a vita. A ben vedere, la psychological closure – sovente invocata negli States a giustificazione della pena capitale – scivola facilmente nel soddisfacimento di un innato desiderio di vendetta, laddove solo l’applicazione del principio occhio per occhio dente per dente sembra, in quell’(illusoria) ottica, idonea alla pacificazione di chi abbia subito un torto.

Visti nella prospettiva di Derek Chauvin, 22 anni e mezzo di reclusione – pur riducibili a fronte di un comportamento che dimostri la sua riabilitazione – sono invece moltissimi. Ciò non solo perché se gli andrà bene l’uomo, ora quarantacinquenne, uscirà a 60 anni, altrimenti quasi a 68; ma anche e soprattutto per il motivo che difficilmente l’ex-agente avrebbe potuto aspettarsi di essere condannato, tanto meno con quelle aggravanti di crudeltà e abuso di autorità, che hanno fatto lievitare la sua sanzione dai 12 anni e mezzo – previsti dalle linee guida del Minnesota per chi non abbia precedenti penali – a 22. Al contrario, con ogni probabilità, Chauvin doveva aver pensato che il suo comportamento corrispondesse a quanto richiestogli dal sistema. E qui sta il dramma.

Negli Stati Uniti, infatti, se la violenza della polizia produce circa 1000 morti l’anno, dal 2005 – ossia su migliaia e migliaia di morti ammazzati per mano delle forze dell’ordine – secondo lo studio dell’accademico Philip M. Stinson, nell’intero paese si contano solo 44 casi di condanne per omicidi di poliziotti in servizio![2]). L’esercizio dell’azione penale, il rinvio a giudizio e, a maggior ragione, l’applicazione di una pena in capo a un poliziotto che sopprime una vita mentre lavora sono, dunque, assai più che una rarità. Il sistema dà agli agenti una vera e propria licenza di uccidere e fa credere loro di essere nel giusto quando usano una forza letale che viene sempre ritenuta legittima.

È in particolare l’atteggiamento assunto dalla Corte Suprema federale ad aver creato una simile distorsione. Attraverso una serie di pronunce, risalenti agli anni ‘80, la SCOTUS ha, infatti, da un canto attribuito alle forze dell’ordine un’immunità qualificata sul piano della responsabilità civile, che si è trasformata in uno scudo impenetrabile contro ogni possibile loro condanna al risarcimento dei danni nel caso di omicidi commessi in servizio. D’altro canto la sentenza Graham v. Connor (490 U.S. 386) del 1989, intervenendo in materia di uso eccessivo della forza, ha chiarito che per misurare la ragionevolezza del comportamento della polizia, quindi la sua legittimità, una giuria non può non prendere in considerazione la particolare tensione in cui gli agenti si trovano ad operare. «Il calcolo della ragionevolezza deve includere il dato che la polizia è spesso costretta a decidere quanta forza è necessaria nella mera frazione di un secondo (split-second judgment), in circostanze che sono tese, incerte e in rapida evoluzione», aveva scritto il Chief Justice William H. Rehnquist a nome dell’intera Corte. La ragionevolezza va dunque misurata sul parametro del poliziotto medio – non dell’uomo medio – e irragionevole è solo quella forza che un altro poliziotto (ragionevole) considererebbe tale. Benché Graham v. Connor fosse una pronuncia relativa a un caso civile, lo standard stabilito dalla SCOTUS è diventato da allora il metro su cui parametrare la scriminante dell’uso legittimo di qualunque forza – anche letale – da parte della polizia, in tutti i casi penali, sia statali che federali. A quel criterio si sono uniformati, infatti, tanto i parlamenti (quando si sono espressi), quanto le giurisprudenze statali.

È per via del criterio della ragionevolezza della forza, così come enunciato in Graham v. Connor, che già a monte i prosecutors non esercitano l’azione penale, le grand juries non rinviano a giudizio o ancora le giurie, nelle rare eventualità in cui i casi giungono fino a loro, non condannano. Se altri poliziotti testimoniano, infatti, che trovandosi nelle stesse condizioni dei colleghi si sarebbero comportati nello stesso modo, la forza utilizzata non potrà essere considerata eccessiva e l’agente sarà scriminato. Difficile che il blue wall – la nota cortina di omertà e solidarietà fra agenti di polizia – non eserciti la sua influenza: con ciò il cerchio si chiude e i poliziotti restano di regola impuniti. Dati, poi, gli stereotipi che da sempre nella società americana costruiscono i neri come soggetti pericolosi – e più sono grandi e grossi più nell’immaginario collettivo sono tali – il colore scuro della pelle del fermato inevitabilmente finisce per giustificare una reazione più violenta da parte della polizia. La proverbiale straordinaria forza degli uomini neri, cui si aggiunge la possibilità di un «delirio eccitato»[3], rappresentano, così, valide ragioni agli occhi del poliziotto medio per esercitare una forza letale contro chi sia nero, disarmato e magari costretto per minuti al suolo sotto il peso di un ginocchio. Diventa allora ragionevole uccidere il fermato e l’omicida è scriminato per un uso legittimo della forza.

Si spiega così perché la pressoché totalità delle morti per mano della polizia non trovi risposta penale. Nei casi più eclatanti – catturati magari dai video dei cellulari – cui viene data ampia diffusione mediatica, la città transa la lite civile, risarcendo somme ingenti alla famiglia a scopo pacificatorio dell’intera comunità colpita. Nel caso di George Floyd il risarcimento ha raggiunto l’iperbolica cifra di 27 milioni di dollari. Raramente, però, una giuria penale è investita del caso e ancora più raramente essa giunge a condannare. Gli episodi di Michael Brown, il ragazzo nero ucciso a Ferguson, Missouri il 9 agosto del 2014 dopo una discussione con la polizia alla quale urlava «ho le mani in alto, non sparare»; o di Eric Garner, il robusto signore nero nello stesso anno atterrato e ucciso dalla polizia di New York mentre disarmato vendeva delle sigarette di contrabbando; o di Tamir Rice, il bambino nero di 12 anni ucciso da una pattuglia nel 2015 mentre giocava in un parco di Cleveland con una pistola giocattolo; o di Philando Castile, il trentaduenne nero ucciso nel 2016 in Minnesota al volante della sua macchina dopo aver dichiarato di possedere legalmente un’arma da fuoco; o ancora di Saheed Vassell, un nero trentaquattrenne ammazzato nel 2018 a Brooklyn perché mentalmente disturbato si aggirava con un tubo di metallo scambiato per una pistola, sono solo alcuni fra i moltissimi esempi di forza letale della polizia rimasta impunita. Assurti all’onore delle cronache, i primi quattro casi furono portati di fronte al grand jury, che nei primi tre non rinviò a giudizio; l’ultimo caso superò il vaglio del grand jury, ma la giuria infine non condannò. In tutte quelle ipotesi le famiglie ottennero in via transattiva risarcimenti milionari. Per la morte di Vassell invece, la cui vicenda ricevette meno notorietà mediatica a livello nazionale e internazionale, le cose andarono diversamente: secondo il tipico copione della maggioranza degli episodi di violenza poliziesca meno pubblicizzati, il prosecutor archiviò subito il caso e la famiglia ancora adesso non ha ricevuto alcun indennizzo o risarcimento.

È poi particolarmente interessante constatare come il principio enunciato in Graham v. Connor – secondo cui è ragionevole la quantità di forza necessaria a respingere una violenza, così come valutata da un poliziotto che prende la sua decisione nel giro di una frazione di secondo – stia alla base delle linee guida su cui gli agenti americani vengono regolarmente addestrati. Questo crea negli stessi l’impressione che una reazione estrema sia sempre possibile, anzi doverosa, giacché – è questo che viene loro insegnato – in qualunque circostanza è in gioco la sopravvivenza propria o altrui. «Una generazione di agenti di polizia si è formata sul significato pratico di quel principio e ha passato decenni ad applicarlo in ogni caso in cui ha dovuto decidere la quantità di forza da usare. Quella decisione è quindi entrata a far parte del DNA delle forze dell’ordine e spesso non ci si rende neppure conto di quanto essa determini nei fatti i loro comportamenti», ha spiegato una rivista di polizia dopo la morte di Michael Brown a Ferguson.

A fronte di tutto ciò si può quindi davvero drammaticamente immaginare che Derek Chauvin pensasse di comportarsi secondo le aspettative del sistema nel momento in cui teneva premuto il ginocchio sul collo di George Floyd, che chiedeva di poter respirare. Tanto più che molte altre volte l’agente Chauvin aveva agito allo stesso modo, senza alcuna conseguenza né penale né disciplinare, nonostante le proteste e gli esposti delle vittime della sua violenza, rimaste fortunatamente vive.

È questo il quadro in cui occorre valutare la condanna a 22 anni e mezzo del poliziotto di Minneapolis per la morte di George Floyd. Una morte certamente evitabile agli occhi di chi non vive nel clima ossessionato e violento in cui è addestrata la polizia statunitense, ma che in circostanze altre sarebbe stata relegata al piano delle tante per le quali, ben che vada, si arriva a un verdetto di assoluzione da parte della giuria. Le condizioni straordinarie in cui il processo di Chauvin si è svolto, dovute a una mobilitazione senza pari del movimento Black Lives Matter, non hanno infatti soltanto subito convinto il prosecutor, l’Attorney General del Minnesota Keith Ellison, a esercitare – con il benestare del grand jury – l’azione penale. Esse hanno anche determinato – a dibattimento – il crollo di quel muro di protezione della categoria di appartenenza, il blue wall, che di norma conduce all’assoluzione dei rari imputati: i colleghi di Chauvin hanno infatti, in via del tutto eccezionale, testimoniato contro di lui.

È dunque la giustizia o l’ingiustizia ad avere infine prevalso? Se la morte di George Floyd è aberrante, lo è altrettanto un sistema i cui frutti sono i tanti Derek Chauvin che produce, convinti in fondo di svolgere al meglio il proprio pericoloso compito di tutela della sicurezza collettiva quando ammazzano brutalmente i loro presunti avversari. È la cultura di guerra nella quale sono immersi, che trova sostegno in un sistema giuridico che copre ogni loro brutalità, a muovere i tanti Chauvin statunitensi e a convincerli di essere nel giusto. Una condanna in controtendenza oggi, che dovesse rivelarsi isolata, servirebbe soltanto a immolare sull’altare di una finta inversione di rotta chi non era stato avvisato che l’inutile sacrificio sarebbe toccato proprio a lui.

Solo seri cambiamenti legislativi e giurisprudenziali, innanzitutto, ma anche – e conseguentemente – nel tipo di formazione delle forze dell’ordine, possono davvero evitare le assurde e quotidiane morti per mano della polizia statunitense. Nel frattempo, se non si vogliono ridurre i fondi ad essi destinati – come il movimento Black Lives Matter chiede – occorrerebbe se non altro smettere di dispiegare massicciamente gli agenti di polizia nelle zone in cui vive la parte nera ed economicamente più debole della popolazione, per reprimere i reati di droga (spesso di lieve entità) o i comportamenti dei ragazzini indisciplinati a scuola. Se ciò non avverrà, la condanna a 22 anni e mezzo di reclusione di Derek Chauvin – con annessa detenzione in solitary confinement perché non si suicidi – rappresenterà per vittime e colpevoli, così come per la società americana tutta, una mera farsa della giustizia.

NOTE

[1] Su cui mi si consenta, E. Grande, Il terzo strike. La prigione in America, Sellerio 2007.

[2] Peraltro spesso derubricati in fase di condanna come reati più lievi. Si tratta, inoltre, dei soli omicidi commessi con armi da fuoco, che tuttavia sono la quasi totalità dei casi. Le ipotesi in cui sia condannato chi non abbia fatto uso di armi sono, per quanto possibile, perfino più rare, dice Stinson.

[3] Si tratta di un termine medico controverso, ma fatto proprio dai manuali delle forze dell’ordine statunitensi, che indicherebbe una capacità reattiva fuori dal comune in chi abbia assunto sostanze psicotrope.

 

(Credit Image: © G. Ronald Lopez/ZUMA Wire)



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