Il caso Santanchè e il dilemma di Meloni

In un paese civile o civilizzato, una Santanchè qualsiasi sarebbe già stata costretta a dare le dimissioni da Ministro, senza bisogno di essere sentita in Parlamento. La vicenda è interessante, sotto molti aspetti, ma serve soprattutto a illuminare, spietatamente, quello che chiameremmo il paradosso Giorgia.

Michele Marchesiello

In un paese civile o civilizzato, una Santanchè qualsiasi sarebbe già stata costretta a dare le dimissioni da Ministro, senza bisogno di essere sentita in Parlamento.
Ma, tant’è, tenuto conto dei precedenti e del fatto che la (so to speak) signora somiglia terribilmente al Paese che qualche Potenza maligna ha sostituito a quello che credevamo di conoscere, dubitiamo fortemente che la Santanchè sarà costretta a imboccare la via delle dimissioni.

La vicenda è interessante, sotto molti aspetti, ma serve soprattutto a illuminare, spietatamente, quello che chiameremmo il paradosso Giorgia.
Esistono infatti due Meloni. Una è quella che vediamo tirata a lucido e compunta nelle sedi internazionali, soprattutto comunitarie, nella veste – udite udite! – di Presidente dei Conservatori e Riformatori europei. Allora la Nostra si atteggia a Margaret Thatcher: una Thatcher in versione Garbatella, diciamo alla matriciana, ma atlantista, europeista, diligente allieva di Mario Draghi, leggermente imbarazzata dalle cattive compagnie sovraniste. Se perde a volte la sua posticcia imperturbabilità, succede solo nei confronti di quei pochi giornalisti che osano porle domande imbarazzanti.
È noto ormai che la politica estera non interessa granché agli italiani, tanto meno ai compagni di viaggio della presidente del consiglio, che vedono in Bruxelles solo la fonte di cospicue elargizioni destinate ad ingrassare le rispettive clientele.

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L’altra Meloni è quella casalinga, vernacolare, che – arrampicatasi avventurosamente sul cocuzzolo del potere (vero albero della Cuccagna) – da un lato si circonda di fedelissimi famigli e dall’altro cerca di tenersi in equilibrio rispetto alle variegate componenti di una folkloristica quanto rissosa maggioranza. Rinviismo, indecisionismo, accentuato familismo segnano allora la curiosa debolezza di donna soi disant ‘forte’ nei confronti della compagine di destra che ci governa.

Quando con gli occhi glauchi fuori dalle orbite grida ‘Non mi lascio intimidire!’, non è solo agli avversari dell’opposizione che si riferisce, quelli che ‘pacatamente, serenamente…’ gestiscono la routine folkloristica e rituale di una garbatissima resistenza. No: Meloni grida di non lasciarsi intimidire – e quindi di temere di lasciarsi intimidire – dall’interno del proprio schieramento, e non solo da quelli degli altri due partiti, Lega e FI, ma anche, forse soprattutto, dai suoi compagni, o camerati, intenti a premere l’acceleratore nella direzione di una democratura di stampo orbaniano para-meta-neofascista.

Ecco perché l’esito del caso Santanchè si presenta rivelatore di questa ambiguità che caratterizza la nostra premier. Se la signora resterà al suo posto di ministro, vorrà dire che Meloni è stata costretta a soggiacere a quanti vedono in Santanchè un modello insuperabile nella corsa al potere e ai suoi privilegi. In caso contrario – come ci auguriamo – vorrà dire che Meloni ha fatto un altro passo, piccolo ma importante, verso un’idea originale – chissà quanto condivisa e realizzabile ma certamente lecita – di conservatorismo all’italiana. Dove quello che si vorrebbe conservare (ma in Italia sarebbe forse una innovazione) è il senso rigoroso dello Stato e del bene comune.

CREDITI FOTO: Flickr | Edoardo Baraldi



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