Il Concordato Stato-Chiesa compie 40 anni

Ci sono voluti più di quattro decenni e due referendum, il primo sul divorzio e il secondo sull’aborto, per la prima modifica sostanziale del Concordato. È il governo Craxi che firma il nuovo Concordato il 18 febbraio del 1984, che rappresenta tutt’altro che una vittoria per lo Stato. Questo patto pone le basi per l’odierno 8x1000, una delle principali fonti di reddito della Chiesa, oltre a fornire alla Santa sede decisivi strumenti per la proliferazione della religione cattolica, in un paese in cui ormai il 37% della popolazione è non credente, mentre soltanto il 13,8% è cattolica praticante.

Raffaele Carcano

L’articolo 3 della nostra Costituzione contiene questa bella formulazione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di religione”. Ci aspetteremmo quindi che nessuno venga privilegiato per la sua appartenenza religiosa. Peccato che pochi articoli dopo sia la stessa Costituzione a introdurre una forma di discriminazione in merito. All’articolo 7 fa infatti proprio riferimento ai Patti lateranensi stipulati nel 1929 dal regime fascista con la Santa Sede, che negavano il diritto al divorzio e ribadivano che il cattolicesimo era la religione dello Stato italiano. I’articolo 8 cerca di ridurre il danno appena fatto e smentisce in parte l’articolo precedente, sostenendo che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”. Egualmente, quando lo Stato ne ha una sola?
Un pateracchio. Che scaturì dalle pressioni di Pio XII, che un concordato l’aveva firmato di persona col regime nazista. Il papa aveva infatti minacciato una mezza guerra santa se la neonata Repubblica italiana non avesse accettato i Patti lateranensi. Il Pci di Togliatti gli credette (e non fu l’unico), e questo è stato il risultato. In tanti pensarono che, passata la buriana, il testo sarebbe stato modificato. E invece, ancora oggi, il dettato costituzionale continua imperterrito a citare i Patti sottoscritti da Mussolini. Il concordato non è l’unica eredità fascista ancora operante nella nostra Repubblica, ma nella costituzione c’è solo quella – ed è presentata positivamente.
Firmando concordati con le peggiori dittature, la Chiesa paga un prezzo d’immagine. Ma il tempo passa e i concordati restano, rappresentando eccellenti opportunità per proteggere ancor meglio la sua posizione e i suoi interessi in contesti politici più favorevoli. Nel 1945 fascismo e nazismo furono sconfitti, e il loro posto fu preso da governi guidati da democristiani. Per quanto sia difficile da credere, il concordato del 1933 è ancora oggi in vigore, in Germania. A quello italiano è stata invece messa una toppa per chiudere la lacerazione della religione di Stato (che in quello tedesco non c’è). Noi siamo quindi un pochino più avanti. Forse.
Per riuscire a modificare il concordato ci vollero ben quattro decenni, e un quadro politico-religioso mutato. La Dc e la Chiesa, dall’alto dell’enorme potere di cui disponevano nell’Italia postbellica, non si erano mai granché interessate a una revisione. Iniziarono a farlo seriamente dopo le sconfitte nei referendum del 1974 sul divorzio e (soprattutto) del 1981 sull’aborto, quando più di due italiani su tre votarono contro di esse. La disponibilità tradiva la loro debolezza: meglio arrivare a patti per tempo, piuttosto che farlo con l’acqua alla gola. Ma ben pochi lo percepirono.
Il momento era propizio. Dalle elezioni politiche del 1983 era uscito un governo di pentapartito guidato da Bettino Craxi, il primo premier socialista. Alcuni suoi consiglieri (da Gennaro Acquaviva al rampante Giuliano Amato) erano ben introdotti nei sacri palazzi. L’alleanza con la destra della Dc era già molto robusta. Come Mussolini, Craxi era smodatamente ambizioso e cercava un’ampia legittimazione (anche perché il Psi si aggirava intorno all’11%). Era quindi l’uomo giusto per sanare il “peccato originale”: alla costituente, i socialisti erano stati il gruppo più numeroso a votare contro l’articolo 7.
Le trattative furono rapidissime, e già il 18 febbraio 1984 la Repubblica stipulava a villa Madama un accordo con la Santa sede che non si autodefinisce mai “concordato”. Un testo sintetico, nonostante il protocollo addizionale e diversi passaggi ridondanti. Nel testo compaiono termini ecclesiastici alquanto incongrui in un documento che sarebbe diventato legge dello Stato, come il riferimento alla “missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione” della Chiesa, nonché l’esigenza, da parte della Santa sede, di “riaffermare il valore immutato della dottrina cattolica sul matrimonio e la sollecitudine della Chiesa per la dignità ed i valori della famiglia, fondamento della società”.
L’accordo (la transazione?) contiene però anche numerosi, concreti privilegi per il contraente “spirituale”. Si va dal servizio militare alle festività religiose, dalla presenza dei cappellani cattolici in quasi tutte le strutture statali ai contributi per “la costruzione di nuovi edifici di culto cattolico e delle pertinenti opere parrocchiali” – perché lo Stato, nonostante la secolarizzazione ormai avviata e le chiese già molto meno frequentate, si impegna a “tenere conto delle esigenze religiose delle popolazioni”. Continuano a essere garantiti gli effetti civili dei matrimoni cattolici e, soprattutto, delle sentenze di nullità dei tribunali ecclesiastici (con qualche limitatissima eccezione). Ci sono il riconoscimento dei titoli accademici in teologia e quello, molto più invasivo, della parità scolastica, garantendo quindi alla Chiesa cattolica “il diritto di istituire liberamente scuole di ogni ordine e grado ed istituti di educazione”. Si noti come il virgolettato riproduca l’articolo 33 della costituzione, aggiungendo però un “liberamente” e “di ogni ordine e grado” che nell’originale non sono presenti, e nello stesso tempo dimenticando, guarda caso, proprio il passaggio che impone che ciò avvenga “senza oneri per lo Stato”.
In questo ambito, la grande conquista cattolica è l’estensione dell’ora di religione alla scuola materna, e per ben due ore settimanali. Nel concederla, la Repubblica mette nero su bianco che “riconosce il valore della cultura religiosa e tiene conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”. Ma non finisce qui. È infatti garantito agli ecclesiastici il diritto di non dover “dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero” e che “l’autorità giudiziaria darà comunicazione all’autorità ecclesiastica competente per territorio dei procedimenti penali promossi a carico di ecclesiastici”: cedimenti che costituiranno macigni nelle inchieste sulla pedofilia religiosa.
Proprio l’assenza di dettagli lascia molto spazio a ulteriori accordi. Diverse materie sono demandate a una commissione paritetica, in particolare gli articoli fumosamente dedicati alla disciplina degli enti e dei beni ecclesiastici e alla revisione degli “impegni finanziari dello Stato italiano”. Così formulata, poteva far pensare a una diminuzione delle erogazioni. Finirà tristemente al contrario.
Cosa porta a casa lo Stato? Tre modesti risultati: la perdita dello status “sacrale” attribuito alla città di Roma; il passaggio dalla richiesta di esonero dall’ora di religione alla scelta manifesta di frequentarla; la cancellazione esplicita del principio di religione di Stato, del resto ormai incostituzionale. Troppo poco, in cambio della vera e propria resa su tanti altri fronti. Come già aveva ricordato Gramsci, in un concordato “lo Stato ottiene una contropartita sul suo stesso territorio per ciò che riguarda i suoi stessi cittadini”. Craxi non lo aveva riletto.
Il passaggio parlamentare fu più lungo di quello che portò all’accordo, e durò oltre un anno. Ma non ci furono particolari resistenze. Il Senato votò il 3 agosto 1984, ultima seduta prima delle ferie estive. La Camera trasformò l’accordo in legge il 20 marzo 1985: presenti in 464, vi furono 75 voti contrari e 39 astenuti. Su 630 deputati, dunque, soltanto 350 votarono favorevolmente. Curiosamente, è lo stesso numero di quelli che approvarono l’articolo 7 alla costituente, dove gli aventi diritto erano però 556. I mal di pancia non dovevano essere pochi.
Votarono esplicitamente contro gli onorevoli radicali, demoproletari e della Sinistra indipendente, che sommati rappresentavano la metà dei deputati che si espressero negativamente. Si astennero, per ragioni opposte, liberali e missini. I primi, per bocca di Aldo Bozzi, espressero riserve, ma salutarono comunque il “passo avanti” che confermava che “va sempre più maturando la coscienza verso un regime separatistico” (sic). Invece Alfredo Pazzaglia, dell’Msi, rimpianse platealmente il testo mussoliniano del 1929, e con toni accorati sostenne che “l’insegnamento religioso a richiesta è l’avvio ad una situazione di nessun insegnamento religioso e può essere il pericoloso avvio verso quella di nessun insegnamento morale. È indiscusso, infatti, anche per i non credenti, che quella cattolica è la morale della nostra civiltà”. Oltre a deplorare il venir meno della religione di stato, affermò che la soppressione del riconoscimento della sacralità della città di Roma “colpisce i sentimenti dei cattolici”.
Ma risulta tuttora significativo anche l’intervento del capogruppo Pci, Giorgio Napolitano. Dopo che il giorno prima il costituzionalista Ugo Spagnoli aveva sostenuto che “la scelta di Togliatti [di approvare l’articolo 7] si ebbe a rivelare dal punto di vista strategico lungimirante ed acuta”, il futuro presidente assicurò che il sostegno al nuovo concordato esprimeva “il senso dello Stato e degli interessi nazionali proprio del partito comunista. […] Esprime anche l’auspicio che si rifletta, dov’è opportuno, sulla necessità che nulla intervenga a turbare nel paese lo svolgimento di una autonoma e corretta dialettica politica democratica, nella reciproca indipendenza ed in un affettivo reciproco rispetto tra Stato e Chiesa cattolica”.
Un post-fascista che pretende di parlare a nome dei cattolici anche quando il papa dispone diversamente, e un post-comunista che, vantando il senso di responsabilità del proprio partito e la necessità di una sempre maggior collaborazione con il mondo cattolico, approva una legge che non ha nulla di progressista: nel 1985 si prefiguravano non solo i poli della seconda repubblica, ma anche le diverse retoriche che, negli opposti schieramenti, giustificheranno entrambe il favor (mono)religionis. Il concordato è infatti non soltanto una legge, la 121/85, a favore della religione (si può immaginare una norma che riconosca il “valore della cultura non religiosa”? No, non si può), ma contiene prerogative esclusive a beneficio di una sola comunità di fede.
Eppure, di critiche se ne ascoltarono e lessero pochissime: l’Uaar nacque proprio in reazione al pressoché totale silenzio laico. Un’eccezione, rilevante, fu il lucido discorso che Stefano Rodotà tenne alla Camera il giorno prima dell’approvazione, in cui attaccò il governo per aver creato “una situazione enormemente peggiorativa di quanto non fosse previsto dal Concordato del 1929”, in quanto l’accordo del 1984 riesce persino a “depotenziare l’articolo 7 della Costituzione”. Non solo: denunciò “l’intento politico che appare nella relazione che accompagna il disegno di legge per la disciplina in materia di enti e beni ecclesiastici là dove si dice che questo protocollo è appunto la prima forma di collaborazione tra le parti sancita dall’articolo 1 dell’accordo di febbraio. Allora è in radice una modifica del rapporto tra Stato e Chiesa, così come voleva essere individuato dalla stessa Costituzione. Alla separazione si sostituisce il principio della collaborazione”.
E la collaborazione è stata effettivamente il leitmotiv degli ultimi quarant’anni. Molti hanno ritenuto che l’accordo abbia armonizzato il concordato alla Costituzione e al Concilio vaticano II. In realtà, ha creato le premesse per adeguare la legge italiana al Codice di diritto canonico wojtyliano, emanato il 12 giugno 1983. Per farlo, è stato creato un sistema di sub-concordati, le venti intese attuative approvate negli anni successivi su svariati temi (in particolare sull’ora di religione), mai proficue per la Repubblica. Vi ha giocato un ruolo fondamentale il giurista Carlo Cardia: un comunista che strada facendo è diventato editorialista per il quotidiano dei vescovi, continuando però a rappresentare nelle trattative la parte statale. Nella commissione paritetica per “la revisione degli impegni finanziari dello Stato italiano”, di cui ha fatto parte, è nato il famigerato 8×1000, istituito con la legge 222/85: da un esborso annuo alla Chiesa di 399 miliardi di lire per il supplemento della congrua (più 7 miliardi per l’edilizia di culto) si passò nel 1993, anno di entrata a regime del meccanismo, a 586 miliardi di lire. Oggi siamo arrivati a circa un miliardo di euro, quasi il quadruplo: una somma enormemente superiore a quanto il papa raccoglie nel mondo intero con l’obolo di san Pietro. L’articolo 49 stabilisce che ogni tre anni la commissione paritetica debba procedere a una revisione del meccanismo. Ne avete mai vista una?
Tra il 1999 e il 2011 è esistita addirittura una commissione governativa “per la soluzione di alcune difficoltà interpretative delle disposizioni normative di derivazione concordataria”, che sembra essersi principalmente occupata dei “problemi relativi agli onori riservati ai Cardinali e ad alcuni profili processuali relativi ai ministri del culto cattolico”. Il concordato è il passe-partout per garantire favori di qualunque tipo, come il superamento dei limiti acustici previsti per i comuni mortali quando si suonano le campane per chiamare i fedeli alla messa.
Se vogliamo trovare qualche lato positivo, possiamo dire che gli accordi hanno spianato la strada alla sentenza della Corte costituzionale che, nel 1989, ha proclamato la laicità supremo principio costituzionale. Nonché alla firma di intese con le confessioni religiose di minoranza, previste dall’articolo 8 della Costituzione e diventate realtà solo il 21 febbraio 1984, tre giorni dopo il concordato, con la sottoscrizione di quella con la Chiesa valdese. Ma si tratta di soddisfazioni parziali. La laicità deve essere continuamente rivendicata in ogni sede giuridica, dove sono diffuse le “sane” interpretazioni che ne ha dato papa Ratzinger. E il proliferare delle intese ha portato non solo a una massiccia attività legislativa in ambito religioso (che non è mai auspicabile), ma ha anche creato un sistema pattizio a geometria variabile che, senza raggiungere i livelli del Libano, permette alle istituzioni di discriminare tra buoni e cattivi. Dimenticando sempre per strada i sempre più numerosi non appartenenti.
Gli ultimi quarant’anni sono stati caratterizzati dalla lunga stagione ruinian-bagnaschiana, in cui la conferenza dei vescovi e il mondo cattolico (anche grazie all’inserimento nella Costituzione del principio di sussidiarietà) hanno enormemente esteso il loro potere. Il governo di destra-destra guidato da Giorgia Meloni sembra oggi volerne rinverdire i fasti con un decisionismo clericale persino più spiccato. Una strategia che sembrerebbe confermata dalla soppressione della Commissione per l’attuazione del concordato, le cui competenze sono state di fatto avocate dal sottosegretario Alfredo Mantovano, noto ultrà cattolico. Anche le commissioni dedicate al pluralismo confessionale sono state riempite di zelanti reazionari.
E dire che viviamo in un’epoca di disincanto sempre più profonda, in cui (secondo una recente inchiesta cattolica) i non credenti, in Italia, sono ormai il 37% della popolazione, mentre solo il 13,8% si dichiara cattolico praticante. La popolarità del concordato è dubbia: secondo un sondaggio Doxa del 2019 il numero di chi lo vorrebbe quantomeno aggiornare è molto maggiore di chi è favorevole allo status quo. L’8×1000 è ancora meno apprezzato, ed è sempre più diffusa tra gli stessi fedeli la preferenza per uno studio laico del fenomeno religioso che sostituisca l’attuale catechismo pagato dallo Stato. Trattandosi di due sistemi per loro stessa natura monitorabili, il calo di scelte e adesioni è un’ulteriore spia del declino della Chiesa, confermato pure dal flop delle offerte dirette ai sacerdoti. Soltanto una minoranza di connazionali ha oggi fiducia nella Chiesa.
Ma la revisione del concordato non è all’ordine del giorno. Particolarmente malinconico è il mutismo a sinistra, se si pensa che, al congresso del Pci del 1989, all’alba della sua trasformazione, tredici congressi di federazione ne chiesero l’abrogazione. Vale ancora quanto disse al Senato Benedetto Croce, l’unico parlamentare che nel 1929 pronunciò un discorso contro il concordato: «Accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi perché è affare di coscienza». Non solo è opinabile che i politici agiscano secondo coscienza, ma lavorano sempre peggio, con uno sguardo incapace di oltrepassare le successive elezioni. Il Vaticano si muove in un’ottica di secoli e non deve nemmeno più lavorare: nonostante la Dc sia defunta da trent’anni, i nostri parlamentari gli prestano ogni tipo di servizio, gratis. Crollano i fedeli, ma la Chiesa è molto più ricca, potente e ascoltata di prima. E difficilmente farebbe cambio.



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