Il conflitto israelo-palestinese e la filosofia di Jan Patočka

A un mese dall’attaccato di Hamas ad Israele diventa fondamentale riflettere su quella che il filosofo ceco chiamava “solidarietà dei trepidi”, ossia il sentimento di coloro che hanno capito che gli uomini, trascinati dalla violenza, possono perdere tutto: la via, la pace, la luce.

Fausto Pellecchia

A distanza di un mese dal massacro perpetrato da Hamas in Israele, e mentre la popolazione di Gaza muore sotto le bombe dell’offensiva militare lanciata dallo Stato ebraico, è almeno consentito affermare che la partita che si gioca qui da noi, nelle pacifiche società occidentali, tra sostenitori e avversari di ciascun “campo”, mentre si esprime solidarietà agli uni invece che agli altri, al di sopra dello scontro armato e dei cumuli di cadaveri…è profondamente deplorevole?
Fortunatamente, un rifugio dai più deprecabili clamori mediatici si può trovare presso il filosofo Jean Patočka, per il quale un’autentica solidarietà si può stabilire anche nel buio della guerra.
Sotto il diluvio di bombe cadute su Gaza, che hanno causato numerose migliaia di vittime civili, per lo più donne e bambini, secondo la testimonianza degli operatori umanitari ancora presenti sul posto – poiché i combattenti di Hamas si nascondono in rifugi e tunnel sotterranei – sta iniziando la campagna di terra.
Avevamo appena compreso appieno l’inaudita gravità dell’attacco terroristico del 7 ottobre, quando il ricordo di quelle immagini si è scontrato e confuso nella nostra mente con le immagini dei soldati che entravano lentamente nel territorio sabbioso di Gaza costellato di rovine, mentre gli abitanti in fuga dai bombardamenti, cercavano riparo o seppellivano i loro morti….

Tutto lascia pensare che questa guerra inedita, scatenata con l’obiettivo di annientare un’organizzazione terroristica, anch’essa decisa a trascinare il suo avversario nella distruzione del suo stesso popolo, sta facendo precipitare questa minuscola striscia di terra in un abisso di violenza. Ma, sull’altra sponda del Mediterraneo, in questa Europa che sembra aver dimenticato l’esperienza tragica delle due guerre mondiali alle quali è miracolosamente sopravvissuta, sulle reti televisive, come sui social network o nei luoghi pubblici, noti intellettuali e opinionisti accreditati discutono sulla legittimità del conflitto, sulle strategie e sulle possibili soluzioni mentre i loro rispettivi sostenitori mostrano la loro “vicinanza” e la loro “solidarietà” all’uno o all’altro dei due fronti antagonisti. Si rendono davvero conto, costoro, che è in corso una tragedia storica? Che qui non si tratta di avere ragione o torto, ma dell’esperienza vissuta di un annientamento su scala collettiva? Che cos’è mai, dunque, questa “solidarietà” con una causa i cui legittimi rappresentanti sono spudorati massacratori e stupratori? In che consiste la “legittimità” di una guerra di vendetta rivolta contro un intero popolo?

Per non abbandonare frettolosamente la nozione preziosa ma abusata di solidarietà, vale la pena leggere il saggio le ha dedicato il filosofo ceco Jan Patočka (1907-1977). Discepolo del fenomenologo Edmund Husserl, sospeso dall’insegnamento nella Cecoslovacchia staliniana, fondatore con Vàclav Havel di Charta 77 che avrebbe riacceso la fiamma della dissidenza, e morto sotto le torture di un interrogatorio, Jan Patočka ha consacrato alcuni appassionati lavori sulla storia dell’Europa. Nei suoi Saggi eretici sulla filosofia della storia (Einaudi, 2008), si basa sulle testimonianze di Ernst Jǜnger e di Pierre Teilhard de Chardin per pensare l’esperienza senza precedenti alla quale la Prima guerra mondiale ha dato luogo. Nelle trincee di guerra, sostiene Patočka, gli uomini hanno vissuto un evento “cosmico”, quello di una “trasmutazione di tutti i valori sotto il segno della forza”. Ma al culmine di questo “disinvestimento”, alcuni hanno trovato il modo di oltrepassarlo, avendo compreso che la forza non era tutto. Tutti coloro che hanno fatto l’esperienza di questo scuotimento, di questo tremore interiore, hanno sperimentato quello che Patočka chiama “la solidarietà dei trepidi”. È la solidarietà di coloro che hanno capito che gli uomini, trascinati dalla violenza, possono perdere tutto: la via, la pace, la luce. La solidarietà dei trepidi si costruisce, perciò, nella persecuzione e nelle incertezze: “sta qui il suo fronte silenzioso, senza pretese e senza clamore”.

Patočka non esita a sostenere che questa esperienza esistenziale ha un effetto concreto sul campo di battaglia: “Il nemico scopre con noi la libertà assoluta, diventa colui col quale possiamo raggiungere un’intesa nell’opposizione al disastro, si tramuta in nostro complice nel trepidare per il giorno, per la pace e per la vita, deprivata di ogni valore. Qui si apre la sfera abissale della “preghiera per il nemico”, il fenomeno dell’“amore per coloro che ci odiano”. Per Patočka, questa “avanzata della vita nella notte”, formata dalla solidarietà dei trepidi costituisce l’unica forza morale efficace in guerra. Il filosofo ne parla come di una “autorità spirituale”, “socratica”, capace se non di “far uscire l’umanità dallo stato di guerra”, almeno di opporre limiti e restrizioni all’uso della forza, e di “prevenire così certi atti e certe misure”.
Mentre la violenza e la forza si stanno intensificando nel conflitto tra israeliani e palestinesi, è forse proprio nelle persone che sono scosse nel profondo dalla violenza – i sopravvissuti ai massacri, le madri in lutto in seguito ai bombardamenti, i militari di leva e le famiglie dei soldati uccisi in azioni di combattimento – che un’autentica solidarietà può ancora vedere la luce. Certamente, non è ancora venuto il giorno in cui queste persone trafitte dal dolore saranno capaci di una “preghiera per il nemico”. Ma forse proprio queste persone possono ancora fornire una risorsa spirituale suscettibile di imporre alcune restrizioni al mondo in guerra. È un magro auspicio, ma è forse l’unica vera speranza.

Crediti foto: EPA/MOHAMMED SABER



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