Il Corriere e la normalizzazione dell’abaya

Nel “catalogo” delle donne forti di “La 27ma Ora” la giornalista della Cnn Clarissa Ward è ritratta in abaya: ma davvero non ci si rende conto del potere delle immagini?

Cinzia Sciuto

Se le parole forgiano l’immaginario collettivo, le immagini lo fanno in maniera ancora più profonda. Chi lavora con parole e immagini lo sa bene e nulla può essere lasciato al caso.
La 27ora, la sezione del sito del Corriere della Sera dedicata alle donne, e in particolare al loro “empowerment”, ha pubblicato una sorta di catalogo di “Trenta donne forti”. “Le protagoniste di questo lavoro collettivo”, si legge nella presentazione del progetto, “sono donne reali o immaginarie, vive o morte, celeberrime o quasi ignote, scelte dai giornalisti e dalle giornaliste del Corriere in virtù della loro forza, qualunque essa sia”. Non voglio qui entrare nel merito della scelta del “catalogo” né dei criteri con cui sono state scelte le donne che dovrebbero essere un esempio per le altre donne e in particolare per le ragazze (anche se quel “qualunque essa sia” non lascia ben sperare). Qui vorrei soffermarmi su un particolare apparentemente secondario.

Due delle donne scelte sono ritratte rispettivamente con un hijab (il velo islamico, qui nella versione che copre la testa, il collo e le spalle) e un abaya nero, tipico abito utilizzato in alcuni paesi musulmani che avvolge la donna dalla testa ai piedi in un pesante tessuto nero lasciando libero solo il volto, anch’esso comunque opportunamente “incapsulato” dentro il tessuto. A guardare solo i ritratti pubblicati dalla 27ma Ora naturalmente viene spontaneo pensare che le due donne in questione siano due musulmane (la seconda peraltro proveniente da uno specifico paese in cui si usa l’abaya) e, non riconoscendole, ci si precipita a vedere chi sono. E qui, sorpresa: la prima è Carrie Mathison, personaggio protagonista della serie tv Homeland, un’agente della Cia che, quando va in missione nei paesi musulmani, per evidenti ragioni, indossa l’hijab. Ma la sorpresa più incredibile riguarda la seconda: si tratta di Clarissa Ward, giornalista della Cnn, da anni corrispondente dall’Afghanistan, che fino a pochi giorni fa si trovava a Kabul e ha continuato a raccontare quello che accadeva durante e dopo la presa del potere dei talebani. Nessuna delle due è musulmana e nessuna delle due indossa di norma hijab né tantomeno abaya. Quando ha iniziato a circolare la sua immagine avvolta nel pesante abito nero, la stessa Ward ha spiegato che, a differenza di quando si trova in luoghi “protetti” (per esempio in uno studio televisivo), dove non indossa nulla che le copra la testa, fino a poche settimane fa quando lavorava per le strade di Kabul per non dare troppo nell’occhio portava un velo sul capo e che è passata all’abaya nero da quando i talebani hanno preso il potere.

Ora mi chiedo: come è potuto venire in mente alle amiche di La27ma Ora di ritrarre Clarissa Ward in abaya? Qual è il corto circuito mentale per il quale, per celebrare una giornalista coraggiosa che pur di continuare a fare il suo lavoro anche dopo il ritorno dei fondamentalisti islamici al potere si è dovuta letteralmente nascondere sotto pesanti tessuti scuri, la si ritrae proprio con quell’abito che la imprigiona? È ovvio che per lei l’abaya era una necessità imposta per ragioni di sicurezza, mica una scelta.

Sia quella di Mathison sia quella di Ward non sono in sé due immagini “false”: entrambe le donne hanno davvero indossato quei capi. Ma questi ritrattini stilizzati (a differenza delle foto e dei video, che forniscono all’osservatore qualche parametro in più per “interpretare” correttamente l’immagine) non sono contestualizzati, e in teoria dovrebbero cogliere l’essenza delle persone ritratte o comunque esprimerne in pochi tratti gli aspetti prevalenti della loro identità. Non è necessario essere degli esperti di semiotica per capire invece che il messaggio immediato (nel senso letterale di non-mediato) del ritratto di Ward non consiste affatto nel sottolineare la forza della giornalista ma (al di là delle intenzioni) nella “normalizzazione” dell’abaya, ossia di quello che nei paesi teocratici come l’Iran e il futuro Afghanistan è uno degli strumenti dell’oppressione fondamentalista contro le donne.



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