Il cosmopolitismo dei mali comuni

Come una “pedagogia della sofferenza” può combattere le cause di infelicità di ogni essere vivente e insegnarci una saggezza terrena e solidale. Pubblichiamo la prefazione di Telmo Pievani al volume “Nel tempo dei mali comuni” di Orlando Franceschelli, edito da Donzelli.

Telmo Pievani

Natura è parola declinata al futuro, non al passato. Lo abbiamo dimenticato, ma in latino sta per «colei che sta per nascere», il contrario di moritura. Non è dunque qualcosa che sta alle nostre spalle, una madre buona che ci protegge e alla quale tornare in caso di pericolo, ma al contrario una dimensione che sta davanti a noi, che ci chiama a una responsabilità, che ci parla di una lunga storia di coevoluzione e di costruzione reciproca. Leggendo questa nuova tappa dell’originale elaborazione filosofica di Orlando Franceschelli viene da pensare proprio all’etimologia di «natura» come generazione incessante, movimento, flusso continuo di trasformazione (come amava definirlo un autore caro a Franceschelli come al sottoscritto, Charles Darwin), processo contingente di esplorazione di possibilità.

Non basta infatti essere naturalisti (anche se già è tanto, nella temperie filosofica del presente), ma occorre pure decidere a quale idea di natura aderire. Il naturalismo venato di umanesimo di Franceschelli, centrato sul concetto relazionale di eco-appartenenza, è il più convincente nel dibattito italiano e non solo, perché rifiuta ogni vana dicotomia tra naturale e artificiale, rinuncia a qualsiasi interpretazione edificante e moraleggiante della natura buona e armoniosa (ponendosi così controcorrente rispetto agli umori del momento, visto che ormai sembra trionfare l’approccio animista di chi vede nella natura una matrigna che ci punisce con le pandemie o, a seconda del momento, un’amorevole nutrice che noi tradiamo con il progresso, l’innovazione, la chimica), e soprattutto coglie tutte le ambivalenze, le contraddizioni del pensare-agire umano dentro la natura. E dentro la storia, che qui è spogliata da fatalismi, determinismi, storicismi e idealismi.

Orlando Franceschelli spicca nel nostro paese come uno dei pochi filosofi che prendono davvero sul serio la scienza, nei suoi tormenti e nei suoi avanzamenti. Anche questo libro è al passo con gli aggiornamenti che la ricerca scientifica ci offre, ma rivendica al contempo l’autonomia forte della filosofia, che quando smette di essere autoreferenziale può offrire alla scienza chiavi di lettura fondamentali e analisi critiche radicali, per esempio sulla pericolosa illusione che la tecnologia da sola (dalla geo-ingegneria alla biologia sintetica) possa tirarci fuori dai guai della crisi ambientale, servendoci su un piatto d’argento soluzioni a buon mercato che diventano alibi per non modificare i nostri stili di vita e gli attuali modelli predatori di sviluppo e di consumo.

In tal senso, il libro che state per leggere contiene molte idee feconde. Una è senz’altro il cosmopolitismo dei mali comuni, cioè l’evidenza di come i peggiori nemici dell’umanità siano stati abilissimi nello sfruttare gli intrecci della globalizzazione. Gli agenti patogeni viaggiano sui voli intercontinentali e puntualmente ritornano a noi occidentali che anche questa volta abbiamo voluto curare e vaccinare solo la parte ricca del mondo, salvo regalare paternalisticamente qualche milione di dosi, dimenticando stoltamente che se l’altra metà del mondo resta una prateria di amplificazione dei virus anche noi saremo sempre in pericolo. Non ci riesce di essere solidali nemmeno quando ci converrebbe, tanto siamo imprigionati dentro le chimere ideologiche del neoliberismo.

Brindano alla globalizzazione del terrore anche gli sgherri del fondamentalismo, i maschi barbuti che violentano ogni Stato di diritto a suon di cinguettii e post sui social network. Del resto, i diritti umani universali sono del tutto scomparsi persino dalle dichiarazioni formali al termine di quegli incontri internazionali in cui si parla solo di affari e di commercio dei metalli rari. I diritti non sono più una priorità. E poi sono globalizzati per definizione i mali del riscaldamento climatico e della distruzione irreversibile della biodiversità, che non riusciamo a percepire e a interiorizzare perché troppo vasti, e così l’acqua si scalda e facciamo la fine della rana che muore bollita senza accorgersene.

Come Franceschelli spiega bene nelle pagine che seguono, la risposta al cosmopolitismo dei mali comuni non può certo essere il richiudersi in tribalismi geopolitici, in secessionismi ridicoli e fuori dalla storia, in nazionalismi e sovranismi. Dunque il passaggio è stretto per fare filosofia come si deve nell’Antropocene. La proposta avanzata qui è quella, difficile e affascinante, di una pedagogia della sofferenza che combatta le cause di infelicità di ogni essere vivente e ci insegni una saggezza terrena e solidale. Strada irta e impegnativa, perché questa sofferenza, a differenza di altre, non reca con sé promesse di redenzione né speranze di salvezza ultramondana: è una sofferenza senza evasioni, disincantata. Non è il bene che nasce dal male, forgiato dal dolore. Non è nemmeno stoica sopportazione e resistenza.

Si tratta piuttosto, per come ci pare di intenderla, di un’etica della vulnerabilità e della fragilità (di cui la pandemia è stata una terribile epifania), un’etica fondata sulla solidarietà tra reietti, sulla permanente memoria dei sommersi, sull’ascolto del grido della Terra e del grido degli ultimi, che poi oggi sono diventati lo stesso grido, visto che a pagare il prezzo della devastazione ambientale sono coloro che non vi hanno affatto contribuito. Mentre filosofi nostrani perdono senno e reputazione vaneggiando di complotti e dittature sanitarie, la naturalistica pedagogia della sofferenza di Franceschelli ci richiama alle nostre responsabilità di costruttori di mondi, smonta gli alibi di chi non vede mai alternative, invoca la conoscenza di sé stessi e la volontà di migliorarsi. Come scriveva Albert Camus, autore di quella Peste così preveggente, non ci si sottrae alla condizione autenticamente tragica dell’umanità, che soffre immersa in una natura sorda e indifferente alle sue suppliche, e tuttavia ci si può ritrovare liberi e solidali nella rivolta consapevole contro le ingiustizie e le infamie. Ci piace pensare che la pedagogia della sofferenza così intensamente presentata qui sia un nuovo capitolo di questa coerente e necessaria etica dell’inquietudine.



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