Il dilemma dei Verdi tedeschi

Gli attacchi scomposti contro la candidata cancelliera dei Grünen Annalena Baerbock dimostrano quanto una coerente politica del clima faccia paura. Ma i Verdi devono anche fare i conti con un conservatorismo diffuso.

Albrecht von Lucke

La campagna elettorale per le elezioni politiche tedesche, che si terranno il prossimo 26 settembre e determineranno la politica tedesca nei prossimi anni cruciali dal punto di vista ecologico, sta sempre più assumendo toni tragico-scandalistici. Da un lato, la candidata cancelliera dei Verdi, Annalena Baerbock, sta subendo un crollo nei sondaggi a causa di una proposta di aumento del prezzo della benzina comunicata male, del cattivo risultato nelle elezioni regionali in Sassonia-Anhalt e degli “aggiustamenti” al suo curriculum. Dall’altro gli oppositori dei Verdi nei media e nel mondo degli affari attaccano violentemente Baerbock, mostrando così quanto temano una cancelliera verde.

Il “la” lo ha dato la “Initiative Neue Soziale Marktwirtschaft“ (INSM) con una campagna su diversi giornali che metteva alla gogna i Verdi: la candidata cancelliera era ritratta come una novella Mosè con tanto di tavole dei Dieci comandamenti, evidente richiamo all’idea dei Verdi come partito dei divieti. Corredata dal titolo “Non abbiamo bisogno di una religione di Stato”, la campagna intendeva comunicare l’idea che i Verdi sono autoritari e “pessimi come gli ebrei nella loro rigida religione prescrittiva” (come hanno rilevato Thomas Assheuer, Micha Brumlik e altri, “nell’iconografia politica, la commistione fra la figura di Mosè e la presa del potere politico rappresenta la scena primordiale dell’antisemitismo antisocialista”.

Per questo prestito dal “fondo dell’antisemitismo culturale”, l’INSM è stato pesantemente criticato. Ciononostante Stefan Wolf, presidente dell’associazione delle imprese metallurgiche Gesamtmetall  (uno dei maggiori sponsor dell’INSM) nonché presidente del consiglio di amministrazione della Elring-Klinger AG, una delle maggiori fornitrici del settore automobilistico, ha rincarato: “Il programma elettorale dei Verdi è socialismo puro. Una gran parte dei Verdi è socialista ma i Paesi socialisti non hanno mai avuto successo economicamente. I cittadini devono chiedersi se vogliono vivere in un Paese in cui lo Stato rivendica un ruolo sempre maggiore e dove la vita viene scandita da regole e divieti, che limitano sempre di più la libertà. Questa è la questione cruciale attorno a cui si giocano le prossime elezioni”.

Lasciando da parte l’assurda demonizzazione della generazione Baerbock, che è piuttosto iperpragmatica e tutt’altro che socialista, la questione politica cardinale è la seguente: chi difende la libertà e come? E cosa intendiamo esattamente per libertà oggi? La risposta del capo della Gesamtmetall è semplice: libertà significa innanzitutto libertà del mercato. “Le aziende hanno bisogno di libertà e spazio di manovra finanziario. In nessun caso possono essere ancora indebolite da aumenti di tasse né tantomeno da nuove regole e divieti”.

Una posizione che ignora completamente che proprio l’industria dell’automobile per decenni, sulla base dell’impegno volontario semplicemente postulato, non è riuscita a portare avanti le necessarie innovazioni ecologiche, aggrappandosi al contrario con ogni mezzo – inclusi quelli illegali – alla vecchia tecnologia Diesel. Questo è uno dei motivi per cui il più importante settore d’esportazione della Germania è rimasto pesantemente indietro rispetto ad altre nazioni nell’esportazione di auto elettriche.

Quel che su questo tema i Verdi di Baerbock e Habeck propongono è in verità tutt’altro che radicale. Stando al loro programma elettorale e al libro di Baerbock appena uscito in Germania, ciò che hanno in mente non è tanto un duro scontro con il mondo dei combustibili fossili quanto piuttosto una “politica economica cooperativa”. A questo scopo Baerbock invoca un “patto con il mondo delle imprese” in base al quale i costi aggiuntivi che le imprese sosterranno per diventare climaneutrali verrebbero compensati dallo Stato. Il che dovrebbe rappresentare un incentivo anche per quelle aziende per le quali i costi di riconversione ecologica sono significativamente più alti dei risparmi ottenuti grazie alla riduzione di CO2. Per un simile patto lo Stato dovrà scavare a fondo nelle sue tasche, a tutto vantaggio anche di quel settore metallurgico che oggi spara a zero su Baerbock.

Per queste posizioni accondiscendenti nei confronti del mercato la dirigenza del partito si è vista rivolgere diverse critiche durante il congresso in cui è stato definito il programma elettorale, specialmente dai più giovani, molto vicini al movimento Fridays for future, che hanno attaccato aspramente, anche se senza successo, in particolare la proposta di fissare a 60 euro per tonnellata il costo della CO2, sostenendo (a ragione peraltro) che questo non garantirebbe la necessaria limitazione del riscaldamento globale a 1,5 gradi. E naturalmente non potevano mancare le critiche anche dalla generazione dei fondatori dei Verdi: “Il capitalismo, se vuole continuare indisturbato, ha bisogno dei Verdi”, ha polemizzato alla sua solita maniera la verde della prima ora e successivamente fondatrice degli ÖkoLinX Jutta Ditfurth, definendo i Verdi di Baerbock “il male maggiore”.

Insomma, come del resto ha mostrato anche il risultato delle lezioni regionali in Sassonia-Anhalt, i Verdi si trovano tra due fuochi e non riescono a soddisfare nessuno: per gli uni sono fin troppo innocui, per gli altri troppo radicali. Il cuore del messaggio di Baerbock è che nella società c’è una larga maggioranza che aspira a un fondamentale “rinnovamento”. Peccato però che si tratti di un’illusione: dopo un anno e mezzo di crisi da coronavirus la maggioranza della società non aspira alla trasformazione ecologica e sociale, ma alla stabilità. E a un ritorno al tempo pre-Covid in cui si consumavano risorse. Non si può proprio parlare di una vera volontà di cambiamento, l’umore dominante è piuttosto “niente esperimenti”, che fa il gioco di un politico dello status-quo come Armin Laschet, il candidato cancelliere della Cdu-Csu.

Ecco il dilemma verde: in teoria tutti chiedono una politica per il clima coerente, se però si passa dalle parole ai fatti e la gente capisce che una politica ecologica esige qualcosa da tutti, per esempio di spendere 16 centesimi in più per un litro di benzina, ecco che il sostegno sparisce velocemente. A onor del vero bisogna dire che anche l’Unione e la Spd avevano concordato un aumento di 15,5 centesimi ma, a differenza degli onesti Verdi, non hanno sbandierato la cifra esatta a destra e manca.

La grande rimozione

In questo desiderio di conservazione incondizionata degli interessi acquisiti c’è una pericolosa rimozione della fatale situazione ecologica. E tuttavia anche la politica progressista, se non vuole correre il rischio di una sempre maggiore perdita di popolarità, non può ignorare questo umore di fondo conservatore del Paese. Pertanto ogni richiesta di cambiamento deve andare di pari passo con una garanzia di stabilità sociale. Questo vale a maggior ragione per un partito senza esperienza di governo come i Verdi, verso i quali gli elettori nutrono già una notevole sfiducia per quel che concerne il cancellierato.

È questa la lezione che i Verdi avrebbero dovuto trarre dalla sconfitta in Sassonia-Anhalt. Ed è per questo che ora a ogni occasione sottolineano quasi in preda al panico la loro proposta di “Energiegeld”, una sovvenzione che dovrebbe compensare la tassazione per l’emissione di CO2, soprattutto a beneficio delle fasce sociali più deboli. Ma neanche i Verdi, con il loro Green New Deal, osano affrontare di petto la questione di fondo: quali limiti dobbiamo porre alla nostra attuale libertà di consumo per garantire la libertà delle generazioni future?

Una questione sulla quale i difensori del clima hanno da qualche tempo un nuovo forte alleato: la Corte costituzionale tedesca. La sentenza del 29 aprile scorso, con cui ha dichiarato incostituzionale la legge sul clima dell’attuale governo Cdu/Csu-Spd, rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma nella interpretazione costituzionale della libertà. Dal principio dell’inviolabilità della dignità umana (art. 1 della Costituzione) ma anche dall’obiettivo di protezione del clima (articolo 20 a, che recita: “Lo Stato tutela, assumendo con ciò la propria responsabilità nei confronti delle generazioni future, i fondamenti naturali della vita”) la Suprema Corte tedesca fa derivare una dimensione temporale, potremmo anzi dire sovratemporale dei diritti di libertà. La Costituzione protegge dunque la libertà non solo degli attuali viventi, ma anche delle future generazioni.

Si manifesta così anche sul piano del diritto un nuovo, oggettivo conflitto generazionale: il comportamento di consumo delle generazioni più vecchie va a scapito di quelle più giovani. Se prima nei giardini pubblici e nei pressi dei cantieri si leggeva la scritta “i genitori si assumono la responsabilità per i loro figli”, oggi per quel che riguarda la distruzione dell’ambiente dovremmo scrivere “I figli si assumono la responsabilità per i loro genitori”, perché dovranno pagare i danni provocati da chi li ha preceduti: uno stato di cose moralmente, ma anche giuridicamente insostenibile.

E poiché le misure finora adottate dal governo federale non soddisfano pienamente gli impegni che la Germania si è assunta nel 2015 con gli Accordi di Parigi, il messaggio dalla Corte costituzionale è cristallino: al fine di evitare misure ancora più restrittive delle libertà dopo il 2030, i politici devono fare ora uno sforzo ecologico molto maggiore. In altre parole: se non rinunciamo oggi a un certo grado di libertà nei consumi, le generazioni future non avranno proprio nessuna possibilità di scegliere una posizione liberale sulla politica sul clima e a partire dal 2030 saranno costrette a tirare il freno con metodi decisamente autoritari.

Per questo motivo le accuse di socialismo e le campagne diffamatorie come quella dell’INSM contro i Verdi sono anti-illuministe e fortemente dogmatiche: esse suggeriscono che l’attiva politica per il clima di oggi ha un carattere dittatoriale. La Corte Suprema però ha stabilito esattamente il contrario: solo una coerente politica per il clima oggi può lasciare alle future generazioni un sufficiente spazio di manovra per non costringerle a dover intervenire con misure autoritarie per ottenere le massime riduzioni possibili di CO2 nel più breve tempo possibile. Cosa che a quel punto si renderà improcrastinabile.

Seguendo la chiara posizione di quasi tutta la comunità scientifica, anche la Suprema Corte tedesca si è così pronunciata sul fatto che non solo i dati scientifici, ma anche la legge in vigore esige una protezione del clima molto più forte. Il problema centrale dei Verdi, però, è che una simile consapevolezza non ha ancora raggiunto gran parte della popolazione o è volutamente rimossa. E che quindi la terza componente decisiva rimane ancora in sospeso: cioè la traduzione delle conoscenze scientifiche e giuridiche in politica.

Proprio su un corretto bilanciamento fra gli interessi dell’attuale e delle future generazioni si giocherà la campagna elettorale, ma anche quello che accadrà dopo il 26 settembre. Ecco il dilemma verde: una maggioranza della popolazione vive ancora molto più nelle esigenze di consumo del presente che nella consapevolezza dei problemi ecologici del futuro. Siamo di fronte quasi a un atteggiamento schizofrenico: anche se stiamo sperimentando drammaticamente gli effetti della crisi climatica in questa calda estate, la maggioranza oppone costantemente resistenza nell’attuare i cambiamenti necessari. E l’Unione di Laschet è esattamente al servizio di questa schizofrenia, promettendo da un lato un’efficace protezione del clima, ma dall’altro anche un’ulteriore crescita economica e il mantenimento del pareggio di bilancio. La combinazione di prosperità economica e protezione del clima evocata Laschet, da realizzare in un nebuloso “decennio della modernizzazione”, significa: andrà bene per tutti e male per nessuno, e la protezione del clima non deve costare nulla. Una cosa è certa: con questo tipo di “liberi tutti” dell’economia, il raggiungimento della neutralità climatica è molto lontano.

Una tale promessa, fatale per le giovani generazioni più deboli ma allettante per quelle più anziane, suggerisce che i Verdi non ce la faranno a conquistare il primo posto il 26 settembre – e nemmeno la cancelleria. Perché una coalizione “a semaforo”, rosso-giallo-verde (Spd, Fdp, Verdi), nonostante gli approcci fra alcuni Verdi ed esponenti dell’Fdp, sembra abbastanza fuori questione, soprattutto a causa dei temi di politica fiscale.

Tuttavia i Verdi hanno già una via d’uscita per questa eventualità. “Siamo in corsa per guidare questo Paese verso il futuro in una posizione di leadership”, è stata la frase centrale di Baerbock quando ha annunciato la sua candidatura il 19 aprile scorso. “In una posizione di leadership” non significa necessariamente alla cancelleria. Una possibile sconfitta nella lotta per il primo posto è stata quindi messa in conto fin dall’inizio. A questo serve la “strategia del fallimento”: “I Verdi fanno la differenza nelle coalizioni“, ha dichiarato Habeck. Ciò significa che l’importante per il partito è ottenere il risultato più alto possibile. E se effettivamente ottenesse più del 20% sarebbe comunque più del doppio dell’8,9% del 2017. Senza dubbio un grande successo.

E soprattutto significherebbe che i Verdi non dovrebbero governare con la Fdp, specialmente non in una coalizione Giamaica, nero-giallo-verde (Cdu/Csu-Fdp-Verdi). Perché questo sarebbe probabilmente lo scenario peggiore per la politica climatica, una riedizione di ciò che è già fallito nel 2017, ma con l’aggravante oggi di un blocco di politica finanziaria ed economica composto da Christian Lindner e Friedrich Merz. In simili circostanze, una politica climatica coerente sarebbe probabilmente destinata a fallire fin dall’inizio.

(Da Blätter für deutsche und internationale Politik, 7/2021. Traduzione dal tedesco di Cinzia Sciuto)

Credit foto: Bündnis 90/Die Grünen Nordrhein-Westfalen CC BY-SA 2.0 via Commons Wikimedia



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