“Il Dio disarmato”: un’istantanea del rapimento di Aldo Moro

Andrea Pomella tenta di ricomporre gli ultimi battiti cardiaci dell'uomo “politico” che per trent'anni ha rappresentato la foggia umana dello Stato repubblicano. E va anche oltre: tessere lo spasmo respiratorio degli attori che affollano il teatro di via Fani, dando spazio, capitolo dopo capitolo, alle loro voci ed emozioni.

Maurizio Franco

“Esistono tre verità riguardo a uno straordinario avvenimento di sangue accaduto nel passato: una verità storica, una giudiziaria e una – più sfuggente – che ha a che fare con la percezione individuale e collettiva. Queste tre verità possono essere molto diverse tra loro”. Lo scrittore Andrea Pomella si è sentito in dovere di dare “una spiegazione di metodo sul romanzo che avete appena letto”.

Il Dio disarmato, edito da Einaudi, è un corollario di istantanee sui tre minuti che hanno scandito il rapimento di Aldo Moro. Dalle 09:02 alle 09:05: il tempo che le Brigate rosse impiegarono per mettere a segno il sequestro del presidente della Democrazia cristiana. Era il 16 marzo 1978. E l’Italia  – dopo 180 secondi di piombo, sangue, paura, violenza e corpi crivellati dalle pallottole, lasciati sull’asfalto della Storia – non sarebbe stata più la stessa.

Milioni di italiani videro quelle macerie sparate in televisione con la luce ectoplasmatica del tubo catodico targato ‘900. Il lutto per una strage che avrebbe contaminato il futuro e le speranze di rinnovamento germogliate nel ventennio dei diritti e delle conquiste sociali. La fine di un’epoca.

“Portare l’attacco al cuore dello Stato” era uno degli slogan delle Brigate rosse, gruppo egemone tra le formazioni dell’estrema sinistra che avevano optato strategicamente per la p38 come strumento per innescare la rivoluzione socialista nel Paese. Gli “armati” erano più che ventenni, fatto salvo per Mario Moretti, a cui lo scrittore, in apertura del romanzo, invia una mail che non avrà risposta perché il destinatario è semplicemente inesistente.

Mail delivery system – Indirizzo non trovato”. I poliziotti erano giovani, tolti Leonardi che aveva 51 anni e Ricci che ne aveva 43. “Il modo più diretto e al tempo stesso simbolico per definire la battaglia di tre minuti che si combatte in via Fani è dire che è una guerra tra ragazzi. Ma ogni guerra è una guerra tra ragazzi, perché ogni guerra sacrifica l’anello forte della società. E questa guerra non è da meno”, scrive l’autore.

Andrea Pomella tenta di ricomporre gli ultimi battiti cardiaci dell’uomo “politico” che per trent’anni ha rappresentato la foggia umana dello Stato repubblicano. E va anche oltre: tessere lo spasmo respiratorio degli attori che affollano il teatro di via Fani, dando spazio, capitolo dopo capitolo, alle loro voci ed emozioni. Una ragnatela narrativa, la cui intelaiatura ricopre tutto il romanzo e lo costruisce.

Le ramificazioni: il punto di vista della figlia Fida, quello della moglie Eleonora (chiamata Noretta fino a quando il marito non venne rapito), quello dei brigatisti, quello degli agenti della scorta e gli occhi dei testimoni. E l’incoscienza bambinesca del nipote Luca. “Poiché non sono né uno storico né un magistrato, ciò che qui ho tentato di fare è penetrare con lo sguardo nelle invisibili smagliature che rendono ogni fatto, come diceva Galileo, ‘una sensata esperienza’: raggiungere cioè, oltre la cronaca e la storia, l’umano”, scrive Pomella, rifacendosi poi ad Alessandro Manzoni e al concetto della verosimiglianza.

Nel suo romanzo c’è l’invenzione ma anche una corposa bibliografia a sostegno del processo narrativo, che non può esimersi dal dato fattuale di una storia sistematicamente elaborata, rimaneggiata e radiografata da innumerevoli esistenze. Un racconto dell’introspezione che annichilisce il lettore per la sua aderenza ad una possibile verità storica. Una profondità di ascolto che stride con tutto ciò che sappiamo sul caso Moro.

L’autore allarga la visuale, andando anche a ritroso nel tempo, scandagliando le ultime ore del presidente Dc, le sue nevrosi, le notti insonni, gli incubi, l’inquietudine e il rapporto travagliato con i familiari. L’essere umano, il professore universitario, il marito e padre che, a sua volta, è stato anche figlio. Allarga lo sguardo sulle biografie degli agenti massacrati, restituendogli carne ed ossa, affetti e patemi per il lavoro, oscurati dalla freddezza analitica dell’interpretazione storica e relegati poi al ruolo di comprimari nel massacro.

E plana sulla psiche dei membri dell’organizzazione armata, approfondendo i preparativi, le titubanze, l’alienazione, il giogo della dottrina, la terminologia ipotrofica dei comunicati, lo status “primitivo” della clandestinità. Oltre a soffermarsi sulle contraddizioni, sulle giustificazioni fornite, anche in sede processuale, su quella mattina del 1978.

Quando Matteo entra nell’appartamento-base della colonna romana (Pomella usa esclusivamente i nomi di battaglia per connotare i brigatisti, in questo caso è Valerio Morucci a varcare la soglia), ogni movimento del suo corpo “sembra spargere schizzi immaginari di fango”. Alexandra – Adriana Faranda – gli va incontro, lo accoglie per sapere. E per convincersi che è vivo. “Nella sua faccia non c’è ombra di compiacimento per la riuscita dell’azione”, scrive Pomella. “Noi stiamo tutti bene, ma è stato un macello”, dice Matteo.

Pomella entra nel romanzo: si apposta negli angoli di via Fani, scruta il presente per rintracciare il passato, annota tutto ciò che accade nello spazio-tempo del quadrilatero di cemento. Un luogo della memoria dove le vite continuano a fluire, nonostante tutto. Non è un caso che lo scrittore ricorra continuamente a metafore riguardanti la geometria, la fisica e il funzionamento dell’universo.

Il passato e il presente convivono in simbiosi, si amalgamano nell’azione che reitera se stessa. Si modificano. “La Fiat 130 è sospesa su quattro cavalletti azzurri che impediscono alle ruote di deformarsi. Leggo la targa: L59812 ROMA. Osservo la vernice blu della carrozzeria intorbidita dal tempo, il buco sul parabrezza che mi appare come una voragine oscura, i fori di proiettili disseminati sullo sportello di sinistra, le macchie nere sui sedili, le lettere identificative dei rilievi”, riporta l’autore, descrivendo nel romanzo la visita al Museo storico della motorizzazione civile.

Il suo è un imperativo categorico da studioso. In un altro luogo della memoria, dove l’automobile è diventato un feticcio da mostrare. È la penna di Pomella, la letteratura, a concedergli una nuova vita nel metaverso del romanzo. “In questa lotta ci sono le mie peregrinazioni al Trionfale, i passaggi programmati e quelli occasioni, c’è la ricerca di qualcosa che non esiste nei termini propri della realtà […] Che si può trovare di ciò che è stato”. Lo sforzo è titanico.

L’autore sfrutta la scrittura per dialogare con se stesso e con una generazione nata negli anni ’70, che ha vissuto gli strascichi del sequestro e dell’assassinio dell’onorevole Moro, cresciuta sotto la cappa di silenzi e terrore per l’atto “straordinario” che ha sconvolto la società italiana. Un dialogo con se stesso e con tutti coloro che hanno provato a rileggere gli eventi. Un profluvio di opere, documentari e film ha inondato le casematte della cultura italiana.

Uno di questi è Ufo 78 (qui la recensione di MicroMega). In una delle sue visite a via Fani, Pomella si imbatte nelle riprese di “una serie tv sul caso Moro prodotta dalla Rai e affidata a un importante regista italiano, uno dei più importanti”. Esterno notte, diretto da Marco Bellocchio. “È come se all’altezza del famoso stop ci fosse una parete invisibile che separa due epoche lontane ma coesistenti. È una scollatura assurda nella realtà. Ciò che è vero, o parzialmente vero, o che è stato vero e ora non lo è più: tutto davanti ai miei occhi nel medesimo istante”.

Foto di Circolo dei lettori / Novara | Facebook



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