Il dissenso ai tempi della pandemia

La stretta del governo sulle manifestazioni pubbliche è un segnale preoccupante per la democrazia. E ha come effetto collaterale anche quello di vittimizzare ulteriormente i No pass/No vax.

Cinzia Sciuto

La stretta decisa dalla ministra Lamorgese sulle manifestazioni pubbliche non è una buona notizia per la democrazia.
Non lo è perché la peculiarità della democrazia (una peculiarità se volete paradossale, ma vitale), è che chi sta al governo ha il preciso compito di garantire il più ampio margine possibile alle manifestazioni di dissenso nei suoi confronti. Ogni restrizione è dunque segnale di indebolimento del tessuto democratico.

Non lo è perché ogni volta che si prendono decisioni ad hoc che derogano ai princìpi generali si stabiliscono pericolosi precedenti. Oggi sono i No green pass/No vax a indurre decisioni che limitano il diritto a manifestare pubblicamente, domani chissà. E l’inciso contenuto in chiusura della direttiva di Lamorgese non fa che rafforzare il sospetto che questo metodo sarà presto esteso ad altre manifestazioni pubbliche. Vi si legge infatti: “Le presenti indicazioni, per la loro valenza generale, potranno trovare applicazione per manifestazioni pubbliche attinenti a ogni altra tematica”.

Non lo è perché la democrazia è un oggetto fragilissimo, che sta in piedi soltanto se tutte le sue componenti sono sufficientemente mature per utilizzarne gli strumenti in maniera, appunto, democratica, ossia con il preciso limite di non compromettere analoghi diritti altrui. Nel caso specifico, le manifestazioni No green pass/No vax, che per definizione si svolgevano senza nessuna attenzione alle misure sanitarie, rappresentavano un costante rischio di diffusione del virus, minacciando dunque il diritto alla salute della collettività, diritto costituzionale meritevole di essere tutelato almeno tanto quanto quello al dissenso.

I diritti, si sa, non sono affatto sempre perfettamente compatibili fra loro e contemperarli è una difficilissima arte che le democrazie si ritrovano quotidianamente a esercitare. Le disposizioni contenute nella direttiva però non sembrano un brillante esempio di esercizio questa arte. Le soluzioni individuate dalla ministra si riducono, infatti, allo spostamento delle manifestazioni dal centro alle periferie delle città, come se ci fossero zone urbane sacrificabili e altre da tenere immuni.

Un effetto collaterale di queste nuove disposizioni, poi, è che rendono più difficile il già complicato compito di togliere acqua al mulino dei No green pass/No vax fornendo loro al contrario un nuovo, potente argomento per continuare nella commedia del vittimismo: noi poveri dissidenti che non ci accodiamo al pensiero unico, non solo ci vogliono costringere a “inocularci il siero”, ma adesso ci tappano anche la bocca. Eppure quel compito è di vitale importanza, e va dunque portato avanti. Si sarà notato che qui si è sempre scritto, accomunandoli, No green pass e No vax. In molti storceranno il naso per questa scelta, perché taluni che si riconoscono nella prima categoria (tra cui anche diversi vaccinati), rifiutano categoricamente la seconda etichetta. Nel prosieguo tenterò di spiegare perché, agli effetti pratici, le due categorie alla fine convergono.

Ci sono due domande cruciali alle quali rispondere. Dalla risposta a queste due domande preliminari discendono una serie di conseguenze. Le due domande sono:

  • Siamo in pandemia?
  • I vaccini sono lo strumento finora più efficace (non l’unico, certo, ma il più efficace) e più sicuro per uscirne?

Chi risponde sì a entrambe queste domande, non può che sostenere poi coerentemente tutte le misure che rendono la diffusione dei vaccini il più veloce ed efficiente possibile (naturalmente discutendole nel merito). Prendiamo l’annosa questione del green pass obbligatorio nei posti di lavoro. La logica che sta dietro il green pass è quella di: a) ridurre la circolazione del virus; b) ridurre il numero di persone che, pur se infettate, si ammalano gravemente (attenzione: entrambi questi obiettivi vanno perseguiti contemporaneamente). Ora, che senso ha introdurre l’obbligo del green pass per andare al cinema o al ristorante ma non sul luogo di lavoro? Tutto sommato, io al cinema o al ristorante posso anche rinunciare, ma al lavoro no: perché devo essere esposta a un rischio maggiore proprio nel luogo che dovrebbe garantirmi la massima sicurezza? Per non parlare del paradosso per cui io per andare in palestra devo avere il green pass ma il mio istruttore può non averlo. Dove sta la logica?

Attenzione, ricordo di nuovo che questo ragionamento funziona solo a condizione di aver risposto affermativamente a entrambe le domande di cui sopra. Se invece si mette in dubbio anche una sola delle due premesse – siamo in pandemia e i vaccini funzionano – allora naturalmente tutto il castello cade, e possiamo mettere in discussione tutto. Ed è per questo che associo le due categorie No green pass e No vax: i secondi rifiutano entrambe le premesse di cui sopra in maniera netta, i primi fanno una serie di distinguo che di fatto però si traducono in una messa in discussione della seconda premessa: i vaccini funzionano ma

Si dirà: ma il green pass si ottiene anche con il test, non solo con il vaccino, per cui non si può giustificare l’obbligo del green pass all’italiana con la seconda premessa (quella secondo cui i vaccini sono lo strumento più efficace e sicuro per combattere la pandemia). Questo è in parte vero, ed è la ragione per cui un obbligo vaccinale sarebbe in linea di principio più coerente. Possiamo discutere sul perché non sia stato introdotto (io dubito per esempio che un obbligo vaccinale avrebbe suscitato meno polemiche del green pass: se c’è chi grida alla dittatura sanitaria così, figuriamoci con un obbligo!), ma in ogni caso questo non è un argomento che inficia la validità del green pass all’italiana, con il quale si perseguono due obiettivi diversi ma convergenti: da un lato si spinge alla vaccinazione obbligando chi non vuole vaccinarsi a fare il test ogni due giorni, dall’altro, sottoponendo la popolazione non vaccinata a frequenti test, si tiene la situazione epidemiologica sotto controllo e si facilita il tracciamento dei contagi. Infine, ultima obiezione: anche i vaccinati possono trasmettere l’infezione. Vero, infatti come ha spiegato qui Vittorio Agnoletto, i test e i vaccini non dovrebbero essere misure alternative e i vaccinati farebbero comunque bene a sottoporsi di tanto in tanto al test. Detto questo, si può dire che i vaccinati e i “testati” contribuiscono in due modi diversi al contenimento del contagio: i primi, perché comunque infettano di meno ma soprattutto perché si ammalano in maniera molto meno grave e dunque non gravano su ospedali e terapie intensive, i secondi perché fanno emergere i contagi e consentono il tracciamento.

La quarta ondata sta colpendo pesantemente diversi Paesi, che infatti stanno iniziando a pensare di introdurre misure analoghe a quelle italiane: l’Austria lo ha già fatto, la Germania va ahimè in ordine sparso trovandosi di fatto senza un governo federale nel pieno delle sue funzioni. È triste però constatare che misure la cui efficacia è provata e che, soprattutto, potrebbero garantire il ritorno a una vita davvero normale (abbiamo già dimenticato lockdown, coprifuochi, scuole chiuse?) vengano prese in considerazione solo quando la curva dei contagi sale in maniera preoccupante.

 

(credit foto ANSA/ PAOLO GIOVANNINI – ANGELO CARCONI)



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