Il docente fra l’incudine dell’aziendalismo e il martello del pedagogismo

Da un lato politici e dirigenti che vogliono i docenti come "addestratori" e aspiranti piccoli manager, dall'altro i pedagogisti che li vogliono relegare al ruolo di intrattenitori-facilitatori. Non c'è davvero più posto per il docente che forma e istruisce gli alunni?

Enrico Campanelli

È del settembre scorso la pubblicazione del documento “La scuola che vogliamo” da parte dell’ANP (già Associazione Nazionale Presidi). La data di uscita non è casuale, poiché si tratta di un vero e proprio elenco di desiderata sulla scuola esplicitamente rivolto al nuovo governo che sarebbe uscito da lì a poco dalle elezioni politiche. A governo fatto, poi, il presidente di ANP, Antonello Giannelli, non ha tardato ad invitare il neoministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, a partecipare al V Convegno annuale della sua Associazione, dal titolo “La scuola del futuro nasce dal presente. Pari possibilità e successo formativo per tutti”, tenutosi il 22 novembre scorso. La coincidenza dell’uscita del documento di ANP con le elezioni e l’evidente allusione del sottotitolo del Convegno alla ridenominazione del ministero, non passano certo inosservate e non potevano che preludere ad un idillio tra ANP e ministero, che puntualmente si è consumato nel corso dell’intervento di Valditara. Una “corrispondenza di amorosi sensi” ben evidenziata dai numerosi riferimenti del ministro al documento di ANP e dall’encomio finale di Giannelli al ministro, riferito alla sua rara “preparazione e competenza” sulle esigenze della scuola (verrebbe da pensare che, tutto sommato, gli sia bastato leggere il documento ANP) e suggellata dalla reciproca promessa di una proficua collaborazione.

Ricordiamo che ANP è solo un sindacato di dirigenti scolastici e dirigenti pubblici, quindi non rappresenta né tutti i dirigenti scolastici né chi della scuola costituisce il pilastro culturale, cioè i docenti. Non si capiscono quindi i presupposti di tanto credito. A rendere davvero inquietante il sodalizio sono tuttavia i contenuti del documento di ANP, che è un vero e proprio manifesto della scuola aziendalista. Punti centrali del documento (guarda caso tutti puntualmente citati dal ministro nel corso del suo intervento) sono:

– una scuola che smetta di valorizzare prevalentemente il pensiero astratto e simbolico e di insegnare conoscenze generali; la cultura deve, cioè, essere strumentale all’acquisizione di competenze spendibili in ambito aziendale, con conseguente abbandono della valutazione delle conoscenze a favore della certificazione delle competenze, fino all’estrema conseguenza dell’abrogazione del valore legale del titolo di studio;

– tecnologia informatica esaltata acriticamente più come fine della formazione che non come mezzo;

– esautorazione degli organi collegiali scolastici delle loro prerogative ed accentramento di tutto il potere decisionale nelle mani del dirigente scolastico, che lo gestisce supportato da un middle-management di “docenti” tecno-burocrati, in perfetta sintonia con lo scenario disegnato dalla legge 79/2022, che prevede come principale possibilità di formazione e carriera (e di aumento stipendiale) non un percorso di natura culturale e didattica ma essenzialmente burocratica;

– i concetti di “scuola democratica” e di “didattica personalizzata” intesi al ribasso, come prematuro “inchiodamento” di ciascun alunno ai propri limiti (stabiliti non si sa bene da chi e come) per un rapido inquadramento in ambito produttivo.

In questo coacervo di aziendalismo, potere e tecno-burocrazia, si fa fatica a rintracciare una qualsiasi idea, anche residuale, di quella scuola che Calamandrei definiva “organo costituzionale” e “organo centrale della democrazia”.

Se sul fronte politico l’orizzonte è fosco, su quello pedagogico non splende certo il sole. Da anni ormai, infatti, i docenti vengono subissati da continue proposte di corsi di formazione traboccanti di tecnologie informatiche e metodi didattici sempre più rivolti ad un apprendimento basato su uno strano concetto di “scuola democratica”  basato sul fare, sulla didattica laboratoriale e sulle cosiddette competenze non cognitive, che incasella tutti staticamente nello stato in cui si trovano facendoli sentire ipocritamente a proprio agio, a discapito dei contenuti culturali più generali e di più alto valore formativo e delle forme di pensiero più astratte, unici mezzi veramente capaci di trasformare i bambini e gli adolescenti in cittadini consapevoli e critici.

Più recente, invece (con un tempismo strabiliante rispetto al documento di ANP), è la messe di articoli, interviste ed interventi vari che invade la stampa di settore, a firma di alcuni pedagogisti (e alcuni dirigenti scolastici entusiasti), sulla nuova emergenza della scuola italiana, la vera piaga responsabile, a detta loro, del declino formativo degli studenti e addirittura (cito testualmente) del “blocco della loro capacità di apprendimento”: il voto numerico. Si sostiene, in modo macchiettistico e totalmente avulso dalla realtà, che tale forma di valutazione, in aggiunta a una presunta (e intrinsecamente connessa) assenza di indicazioni allo studente da parte del docente su cosa e come migliorare, sia una pratica sadica attuata da docenti impreparati e frustrati per costruirsi, con il terrore del voto, quell’autorevolezza che sono incapaci di costruirsi tramite un sano rapporto educativo con gli alunni. Affermazioni che suggerirebbero un’immediata citazione per diffamazione se non fossero di una tale grossolana trivialità da suscitare ancor più fortemente il senso della compassione. È in corso, dunque, una vera e propria crociata per l’abolizione del voto numerico il cui evidente fine ultimo, tuttavia, (considerando l’insostenibilità della tesi di cui sopra) è l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Senza entrare troppo nel merito del reale valore della letteratura scientifica che viene portata a sostegno di tale crociata, ci limitiamo qui a dire che nel campo delle scienze umane il potere dimostrativo delle sperimentazioni non è paragonabile a quello delle scienze cosiddette dure, e che per smantellare un sistema di istruzione che ha dimostrato nei secoli di funzionare, occorrono prove molto più solide di sperimentazioni effettuate in contesti molto spesso irrealistici, irriproducibili, inapplicabili alla scuola reale, i cui risultati sono valutati spesso dagli stessi docenti sperimentatori, come mostra questo studio.

Si completa così la manovra a tenaglia intorno alla scuola, con eserciti di natura completamente diversa (da una parte politici e dirigenti scolastici, dall’altra pedagogisti) ma con un arsenale praticamente identico: affossamento della cultura, istruzione equiparata a mero addestramento al lavoro, dirigente scolastico come “direttore aziendale” dai pieni poteri invece che come primus inter pares, abolizione del valore legale del titolo di studi. Ciliegina sulla torta, per dare un ulteriore colpo ad ogni residuo di democrazia ed autonomia intellettuale all’interno della scuola, è il recente schema di decreto del Presidente della Repubblica recante modifiche al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (approvato il 1° dicembre scorso in Consiglio dei ministri, in attuazione di quanto previsto dal decreto legge “Pnrr 2”, dl n. 36/2022) che stabilisce nuove e più pesanti limitazioni alla libertà di espressione dei docenti nei confronti del governo e delle dirigenze scolastiche, sempre in ottemperanza alla ormai palese volontà di parificare le scuole ad aziende private di proprietà dei dirigenti scolastici, verso le quali tutto il personale dipendente deve la massima fedeltà, astenendosi “da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale.

In questo scenario inquietante, la figura del docente è quindi schiacciata tra l’incudine dei dirigenti scolastici capitanati da Giannelli, che li vedono come larve aspiranti alla metamorfosi che ne farà middle-manager (evidentemente, lo stadio evolutivo superiore del docente secondo ANP) e il martello dei pedagogisti, che li vogliono relegare al ruolo di intrattenitori-facilitatori, perché la conoscenza non si trasmette ma va prodotta in autonomia dagli alunni. La politica, dal canto suo, da anni non fa altro che tenere ben fermo l’incudine e spingere forte sul martello. Il docente come intellettuale che forma ed istruisce gli alunni non ha ormai, evidentemente, più ragione di esistere.

Ma è davvero questo il destino della scuola e dei docenti? È davvero questa la migliore forma possibile di scuola e di docente? Noi crediamo di no. Perché in questa triste sinfonia a due voci non c’è traccia della voce dei docenti? È possibile che politici, dirigenti e pedagogisti siano tutti titolati a pontificare sull’istruzione mentre i docenti, gli unici veri “addetti ai lavori”, siano solo da “riaddestrare”, come ebbe maldestramente a dire il precedente ministro dell’Istruzione (senza Merito, in tutti i sensi) Patrizio Bianchi? Certamente la colpa è anche nostra, che malgrado una base di circa 700mila docenti, non siamo mai stati in grado di esprimere con forza ed autorevolezza una voce autonoma e sufficientemente unitaria da potersi imporre nel panorama dell’informazione. La nostra associazione e queste riflessioni cercano di invertire la rotta. Noi abbiamo fatto un’analisi critica della proposta di ANP ed elaborato un documento alternativo, nei quali proponiamo, nel quale proponiamo una nostra idea di scuola e di docente, diametralmente opposta a quella immaginata da Giannelli. A noi piace l’idea di un docente che metta la persona prima del lavoratore, che offra ampi orizzonti culturali da esplorare perché ciascun alunno possa scoprire se stesso e le proprie passioni senza l’ossessione di una finalizzazione immediata dei saperi. Che dia conoscenze agli studenti di cui possano fare un uso libero e imprevedibile, con importanti possibilità di soggettivazione e rielaborazione personale, al contrario delle “competenze” che invece rappresentano un punto di arrivo predeterminato, più simile all’addestramento che all’istruzione o all’educazione. Un docente che dia gli strumenti mentali per realizzare la propria identità di persona prima che di lavoratore. Un docente a cui venga restituito tutto il tempo necessario da dedicare all’approfondimento disciplinare ed alla relazione educativa. La scuola per noi è il momento dello studio, non del lavoro.

A noi piace la scuola dei fini e della cultura. L’ingombranza burocratica di certe metodologie  didattiche e la loro invasività del già scarsissimo tempo scuola, l’ossessione del “fare” e il sovraccarico cognitivo di un uso acritico delle tecnologie, impediscono il perseguimento dei veri fini della scuola, cioè le conoscenze, l’approfondimento, la rielaborazione, la critica, mediati dalla relazione docente-discente. Tutte le rilevazioni statistiche hanno evidenziato che la DaD ha prodotto risultati disastrosi in termini di apprendimento, dimostrando che la tecnologia in sé non può sostituire la relazione umana ed educativa degli alunni con il docente.

A noi piace la scuola democratica e dell’uguaglianza. La scuola veramente democratica, della Costituzione, in cui le norme nazionali e la comunità dei docenti orientino le scelte didattiche nell’interesse esclusivo degli alunni e garantiscano una scuola di qualità ed uguale per tutti i cittadini italiani. Non è pensabile che le opportunità di sviluppo culturale e di crescita umana di un alunno siano in alcun modo determinate dalla realtà economica in cui vive.  Il continuo riferimento alla “personalizzazione” della didattica (tra l’altro solo illusoria, visto il numero di studenti per classe) evoca una scuola che non dovrà più aprire orizzonti culturali nuovi e imprevedibili per gli studenti, in un vero universalismo democratico, ma dovrà lasciarli lì dove sono, con una rapida verniciatura di “competenze” necessaria a farne al massimo degli esecutori.

A noi piace l’idea di un docente che si ponga come baluardo critico verso la società e verso la scuola stessa, che non sia relegato ed umiliato nel ruolo di mero impiegato esecutore di direttive imposte dall’alto. A differenza delle inquietanti aspirazioni di Giannelli, che anela ad una scuola “che si colloca nella realtà, che supera la discrasia tra sé stessa e la comunità cui appartiene. Una scuola che smette di fare il contrario di quello che avviene nel mondo”, per noi un docente potenzialmente discrasico rispetto alla società, che concepisca e valuti un’azione contraria a quello che avviene nel mondo, e che sappia trasmettere questo atteggiamento critico ai suoi studenti, è un docente che assolve ad uno dei suoi compiti più alti, a vantaggio di tutta la società.

L’autore fa parte del Gruppo La nostra Scuola, Associazione Agorà 33.

Credit immagine: Wokandapix da Pixabay.



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