Il governo Meloni, la pandemia e i colpi di spugna sul passato

Davvero dobbiamo dimenticare ciò che tre anni di pandemia, di emergenza, di sacrificio delle libertà ci hanno lasciato?

Teresa Simeone

Quando ne La peste Albert Camus descrive la fine dell’epidemia usa l’espressione “ingiustizia della gioia”: rappresenta perfettamente, nelle grida felici che salutano il pericolo ormai passato, col suo carico di paure e di sofferenze, il clima di entusiasmo con cui si balla nelle strade ma si scordano, nell’egoismo della felicità, coloro che non ce l’hanno fatta: “Dal porto buio si levarono i primi fuochi d’artificio dei festeggiamenti ufficiali. La città li accolse con una lunga esclamazione sorda. Cottard, Tarrou, gli uomini e le donne che Rieux aveva amato e perduto, tutti, morti o colpevoli, erano dimenticati. Il vecchio aveva ragione, gli uomini erano sempre uguali.
È un atteggiamento comprensibile: si vuole dimenticare il dolore, l’isolamento, il dramma che si è vissuto, ma a quale prezzo? Al prezzo di un oblio che stenda un velo impietoso su tutto? Su chi è caduto è su chi è sopravvissuto? Su chi ha combattuto il virus, come ha potuto, lavorando in corsia col rischio di contagio e di morte, facilitando il contenimento e rispettando le regole che hanno permesso di uscirne e su chi, in modo del tutto ingeneroso, ha creato dubbi, seminato odio, impedito l’applicazione delle misure? Su chi ha marciato contro il buon senso e la solidarietà? Su chi con aggressività e violenza, supportato da intellettuali in crisi con l’etica, ha protestato contro una sedicente “dittatura sanitaria”, su chi non ha esitato a montare la piazza contro il vaccino che ha salvato vite e impedito annichilimento di intelligenze e di coscienze, su chi ha denigrato, intenzionalmente, chi sacrificava libertà, tempo e affetti nel cercare di salvare i deboli da un contagio potenzialmente letale?
Chi è stato, in quei giorni bui, allontanato dall’esercizio della professione non era una vittima inconsapevole, ma qualcuno che scientemente ha deciso di contravvenire, insieme alla legge del proprio paese, alle disposizioni che un’intera comunità mondiale, non in base a calcoli approssimativi ma ad indicazioni che venivano dal mondo scientifico, aveva scelto di applicare.
Se si fosse dato ascolto a chi negava gli effetti del vaccino, piangeremmo, oggi, molti più morti di quelli che ci sono stati.
E il governo Melon cosa fa? Introduce una norma che depenalizza la decisione dei medici No vax, legittimando di fatto e di diritto il comportamento di chi ha impedito l’implementazione della campagna vaccinale, di chi si è rifiutato di supportarla, di chi ha operato contro.  Accettare il reintegro, come se nulla fosse avvenuto, di quei medici significa schiaffeggiare i professionisti che hanno lavorato mesi e mesi chiusi in uno scafandro, che hanno sofferto limitazioni gravi, patito lontananza dagli affetti per poter onorare il giuramento di Ippocrate e per poter rispondere a quel richiamo etico che impone di adottare tutte le misure per salvare vite umane e preservare i più fragili dal pericolo di contagio. Sappiamo quanti fossero, invece, coloro che si sono non solo rifiutati di vaccinarsi ma hanno inquinato piazze e luoghi di lavoro. E ora, un governo di destra, invece di agire coerentemente con quanto disposto a livello nazionale e mondiale, decide di premiarli. Come se avessero fatto la scelta giusta. Di gettare una spugna sulle tossine che hanno avvelenato coscienze e intelligenze e impedito che si agisse tutti in modo compatto contro un male subdolo che ha seminato centinaia di migliaia di vittime innocenti. Come ha scritto Furio Colombo su Repubblica del 18 dicembre, la destra “Ha rifiutato, di cancellare le accuse di tutta la comunità scientifica a coloro che hanno combattuto e denigrato il vaccino anti-covid e il sistema culturale che lo ha sostenuto. E ha deciso di ammettere la ribellione come una variante accettabile della disciplina medica. Il segnale è venuto proprio dal partito che si presenta come “legge e ordine” in un Paese fortemente segnato dal disordine e al quale il partito Meloni ha sventolato bandiere, in tutta la sua campagna elettorale per dire ‘Niente paura. Ora arriviamo noi’.”
Questa norma presente nel Dl Rave non solo perdona violenza e aggressioni, ma finisce per legittimare quanti si sono ribellati a disposizioni statali, rischiando di annullare in un unicum indistinto chi ha scardinato porte di Pronto Soccorso, aggredito operatori sanitari, assaltato sedi sindacali; non solo, apre addirittura un pericoloso precedente: d’ora in poi chi accetterà, in nome di leggi statali, di adeguarsi a disposizioni fatte in situazioni di emergenza se non le condivide?
Davvero dobbiamo dimenticare ciò che tre anni di pandemia, di emergenza, di sacrificio delle libertà ci hanno lasciato? Questo governo, il governo delle rettifiche, come ho già scritto, ci ha abituato alle marce indietro, al ritorno su posizioni prese, anche per le bacchettate dell’UE; non sarebbe il caso di rivedere anche questo buonismo nei confronti di irresponsabili come i No Vax? Nessuna epurazione, per carità, ma un po’ di fermezza sul loro reintegro pieno nel sistema sanitario, una qualche forma di sanzione, non aiuterebbe a connotare positivamente le scelte fatte in tempo di pandemia?
Il nostro è il Paese delle pacificazioni: nulla quaestio, ma ogni tanto dovremmo interrogarci e riflettere. È sempre valido un colpo di spugna sul passato?
Fece bene, ad esempio, Togliatti, nel ’46 ad amnistiare quanti si erano macchiati di crimini non emendabili? Certamente era necessario avviare un Paese sconvolto da tensioni e divisioni profonde verso condizioni di pace politica e sociale, ma a costo di confondere chi aveva partecipato alla lotta di liberazione e chi si era collocato tra gli oppressori? Fascisti con antifascisti? E, in ogni caso, si è capito fino in fondo il tormento di una decisione che ha consentito a collaborazionisti non solo di essere perdonati ma addirittura di fare carriera nei ranghi della neonata Repubblica?
È stato salutare, per il nostro paese, non provare neppure ad attivare una Norimberga come avvenuto altrove? E cosa ne è stato, per usare un’espressione cara a Jaspers, della “questione della colpa”? L’abbiamo elaborata, come Stato e collettività che hanno permesso e accettato per vent’anni una dittatura truce e liberticida, o i suoi bacilli, come ammonisce ancora Camus, continuano ad annidarsi nei mobili e tra gli abiti, nelle cantine e nelle valigie, pronti ad attivarsi e tornare a infettare i popoli?
Ogni qualvolta – vedi anche la questione del confine italo-sloveno – si è provato a cancellare un passato doloroso ma che andava necessariamente affrontato con una riflessione rigorosa, che non si muovesse solo nell’ottica di un’indulgenza approssimativa e comoda, sono rimaste tracce irrisolte, incompiute, ingiuste. Ancora oggi gli esperti fanno fatica a riportare la luce su eventi drammatici sui quali è calato per molto tempo un silenzio che ha favorito non la ricerca storica ma la falsificazione di fatti e la sottovalutazione di un approccio che, nel semplificare, non ha tenuto conto, come nel caso della situazione citata, della complessità multifattoriale all’origine del problema.
Certo le situazioni sono incomparabili, ma ciò che dovrebbe far pensare ogni qualvolta si sceglie di cancellare il passato è il messaggio che si veicola. Sospendere le sanzioni per l’inadempimento dell’obbligo vaccinale dimostrerebbe non solo che chi si è rifiutato ha fatto bene, ma in sottofondo, subliminalmente, che chi si è mosso con senso del dovere e rispetto per la collettività avrebbe potuto agire diversamente. Che forse ha sbagliato. Un messaggio gravissimo, che lede il patto sociale tra Stato e comunità di cittadini.
D’ora in poi chiunque si sottrarrà a disposizioni che riguardano il bene collettivo piuttosto che il proprio e chi agirà in spregio del sistema sanitario nazionale avrà un documento in più da esibire: il dl Rave.



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