Mi mandi una tua foto nuda?

Molestie sessuali, bulli che cercano di ridimensionare il successo delle colleghe e di ridicolizzarle. Il maschilismo silenzioso del mondo dell'editoria persiste, con autrici spesso dimenticate e valutate meno rispetto ai colleghi maschi.

Marilù Oliva

«Mi mandi una tua foto nuda?». Questa è stata la prima frase che ha pronunciato, al telefono, uno scrittore che mi aveva chiesto di contattarlo per un’intervista (da notare che lui voleva essere intervistato, non ero stata io a cercarlo). Forse qualcuno potrebbe replicare che, se era arrivato a dirmi una cosa del genere, probabilmente io gliene avevo dato il permesso, magari concedendogli troppa confidenza. No: era la prima volta che sentivo la sua voce e non c’era mai stato nessun tipo di rapporto nemmeno amicale tra noi, solo un velocissimo scambio di mail. Tra l’altro eravamo due persone con un curriculum molto simile, io ero agli inizi, lui idem, però si dava un sacco d’arie. Così è partita la conversazione, con questo tizio che ha deciso di puntare sui metodi di svilimento che ci rigettano addosso costantemente la pubblicità, la mentalità, i luoghi comuni: attraverso la richiesta di una foto del mio corpo nudo voleva ricordarmi che noi possiamo essere ridimensionate a donne-oggetto. Quella volta mi è bastato metterlo a conoscenza del mio ottavo mese di gravidanza per farlo diventare piccolo piccolo.

Il mio percorso – e quello di altre colleghe con cui mi sono confrontata – è costellato di episodi del genere. Non si tratta certo di molestie pesanti, ma di tanti momenti urticanti che abbiamo dovuto affrontare. Delle volte che siamo state svalutate, ma anche non valutate quanto erano considerati i maschi o addirittura ignorate. Ovviamente, in un momento storico-sociale di rivendicazioni come questo, nessuno si è sognato di esplicitare i suoi intenti. Nessuno ci ha mai detto: valete meno in quanto femmine.

Quando ho esordito col primo romanzo, uno sparuto gruppo di bulletti cresciuti – gravitanti nel mondo editoriale e seccati per il fatto che io “scrivessi recensioni” e forse anche per il mio atteggiamento libero – mi ha fatto pesantemente mobbing con una tattica machista. L’intento era svilire il mio lavoro anche ridicolizzandolo, mettermi al mio posto, accusarmi se credevo nel mio romanzo e lo promuovevo (loro, in particolare, si attaccavano al concetto per cui per le donne non è contemplata l’ambizione, semmai si chiama “arrivismo”). Inoltre attaccavano la mia attività parallela di redattrice su più fronti e la loro morale, tacita ma evidente, era: «Se sei una donna che scrive e recensisce non va bene. Ma se sei un giornalista maschio che pubblica romanzi e magari dirige la pagina culturale del quotidiano della tua città o collabora con essa, allora ti osanno – e tanto puntavano il dito contro di me, quanto si prostravano in maniera imbarazzante verso i luminari maschi del giornalismo e del web».

Tali esperienze fanno parte del mio percorso e mi hanno temprata. Per assurdo, sono grata a questi bulletti adulti perché mi hanno insegnato a difendermi.
Non sono tutti così, per fortuna in questo lavoro si incontrano anche persone in gamba (e infatti ho pochi ma buonissimi amici maschi scrittori). Gente avanti coi tempi, svincolata dai clientelismi, grandi pensatori.

Eppure esiste questo maschilismo silenzioso, quasi invisibile, che si manifesta in una battuta, nell’indifferenza (quante autrici cadono nell’oblio! Molte di più dei colleghi maschietti), in un’ostilità impercettibile ma granitica, spesso portata avanti anche dalle donne stesse, perché, ricordiamolo: questa non è una guerra tra sessi, ma una lotta per la civiltà e il problema investe l’intera società. Quello che mi sento di dire è che per me è stato molto faticoso proprio in quanto donna, soprattutto all’inizio, e non nego che in alcuni momenti di sconforto io abbia contemplato l’ipotesi, poi abbandonata, di pubblicare con uno pseudonimo maschile.

Di difficoltà ne ho incontrate parecchie, ora ne elenco alcune, certo non le più eclatanti, ma le più sotterranee, difficoltà con cui gli scrittori non devono misurarsi.
Quando non avevo pubblicato con un editore che investisse su di me anche economicamente, scrivevo quasi in sordina, di nascosto, rubando il tempo alle notti. I miei cari mi volevano bene, ma quasi nessuno capiva che quella era una cosa seria, una necessità, non un passatempo divertente. Nell’atto dello scrivere non c’è solo divertimento: ci versi anche il sangue. In casa, invece, sembrava che fosse quasi un capriccio, qualcosa che toglieva spazio a quelli che sarebbero stati i miei compiti (oltre al lavoro, secondo loro vi erano in automatico la cura della famiglia e della casa). Qualcosa che mi denotava una volta in più come la persona bizzarra che gli altri vedevano. Tutto questo non è mai stato dichiarato, nessuno mi ha mai detto: «Marilù, basta sognare e rintanarti a scrivere, piuttosto posa i piedi per terra e porta tuo figlio a calcio!», ma io percepivo nell’aria questo messaggio (a onor del vero, l’unico che mi ha sempre sostenuto senza riserve è stato mio marito e un appoggio del genere non è certo stato irrilevante).

Ma torniamo ai primi tempi. Per trovare l’editore del secondo romanzo, quando ancora non mi ero affidata a un agente letterario, ho mandato la scheda del libro a una ventina di editori. Solo uno mi ha risposto. Voi direte: è normale, gli editori non rispondono. No, non è normale: perché sui social siamo una comunità, io per loro non ero una perfetta sconosciuta, avevo già un minimo curriculum, un blog molto seguito, inoltre ci interfacciavamo, recensivo i loro libri, li intervistavo, con alcuni mi ero incontrata ai festival. Accadeva poi che ai miei colleghi maschi la maggior parte di questi editori interpellati rispondesse, lo so perché i colleghi amici/conoscenti me lo raccontavano. La mia sensazione è che se un uomo si propone viene considerato grintoso, mentre se a farlo è una donna procura noia. Ogni volta che mi sono proposta professionalmente ho percepito dall’altra parte un sentimento misto di sbalordimento, perplessità e irritazione. Mi sembrava di assistere alla scenetta di una lumachina che si ritirava infastidita nel guscio. E la risposta è stata sempre negativa. Capisco che questo non voglia dir nulla, ma è una testimonianza – certo particolare, non generale – eppure, sommata a quelle delle colleghe che ho intercettato, forse potrebbe far riflettere.

Credo che questa mentalità patriarcale che ci vorrebbe schiacciare se ci mostriamo determinate o propositive sia in parte responsabile anche del fatto che noi donne puntiamo poco su di noi e abbiamo molte remore a proporci, quando non addirittura a credere in noi stesse. Sogniamo l’arte e la scrittura, sì, magari troviamo anche – a costo di immani sacrifici – il tempo per realizzare un’opera, ma spesso la lasciamo lì in un cantuccio, timorose di restare inascoltate, di fare una figuraccia, di essere derise o crediamo che – come alcuni ci fanno intendere – questa non sia meritevole di essere divulgata.

Nell’ambiente capita poi che alcuni critici non ti prendano in considerazione nemmeno di striscio. Certo, questo succede anche ai maschi, lo so, ma a noi donne con più frequenza. E stavolta non parlo per me: oggi io non posso lamentarmi quanto a recensioni. Ma il fatto che il problema non mi riguardi non significa che non esista. Guardandomi attorno, noto che molte mie colleghe, soprattutto esordienti, non ricevono certo le stesse attenzioni degli autori alle prime armi, spesso accolti come stelle nascenti anche quando non lo sono. Per non parlare del triste fenomeno del groupierato, per cui alcune lettrici (le così dette groupies) si prostrano letteralmente ai piedi degli scrittori (maschi) con vere e proprie manifestazioni di fanatismo sfrenato, pubblicità, imbarazzante proselitismo.

Vi è poi una scoraggiante verità con cui dobbiamo fare i conti: alcuni colleghi maschi non ti leggono a prescindere (o lo fanno senza darti la soddisfazione un complimento). Invece lo scambio è prezioso. Non solo per un sano confronto, ma anche per una promozione e un sostegno reciproci. Mentre le scrittrici leggono, raccontano, propongono i volumi dei colleghi, gli uomini parlano molto meno dei libri scritti dalle donne (soprattutto italiane e viventi, mentre un po’ più citate sono le autrici estere o defunte). Poi magari quando esce il loro nuovo romanzo gli scrittori ti contattano e te lo propongono come se fosse il capolavoro del secolo, per raccogliere le loro briciole di pubblicità. Insomma: sono ancora troppe le persone che, intrise di pregiudizi, ritengono che le donne non sappiano scrivere o non siano all’altezza del talento dei maschi. Ce ne sono tantissime, anche di insospettabili.

È stato denunciato da più parti che gli uomini godono di maggior visibilità e anche qui non mi riferisco a me. Se all’inizio è stato molto difficoltoso, ora, grazie anche al valido aiuto dell’Ufficio Stampa degli editori con cui lavoro, posso solo essere contenta dell’attenzione che ricevo quando esce un mio libro. Ciò non toglie che, in generale, gli uomini sono più presenti nelle pagine culturali, nei concorsi letterari (sia come giuria che come partecipanti, per non parlare dei vincitori!) e nei convegni. Come conferma Paola Diana nel bellissimo saggio “La salvezza del mondo” (Castelvecchi, 2016):

«La visibilità è un altro presupposto importante per l’emancipazione femminile. Non si tratta di un capriccio o di una questione marginale: è fondamentale per far conoscere e sentire la voce delle donne. (…) Da uno studio dell’Osservatorio PariMerito, emerge una differenza sostanziale fra la composizione del panel dei relatori in Italia e negli altri paesi occidentali, come USA e Regno Unito: nel nostro paese le donne chiamate a parlare ai convegni sono pochissime».

E le autrici? Se tra donne fino a qualche anno fa c’era meno complicità e solidarietà, le cose stanno cambiando. A molte, soprattutto quelle che si ritengono arrivate o privilegiate, non frega nulla della questione e preferiscono negarla. Una volta mi capitò di parlare di questo argomento a un seminario. Eravamo quattro scrittrici e io ero l’unica che discuteva della cosa come se ci fosse una disparità, con tanto di dati alla mano. Le altre negavano. All’inizio ero perplessa, poi ho scoperto il perché. Una sembrava svampita. Una era stata l’amante del suo editore. Una di un celeberrimo scrittore che le aveva spianato la strada. In sostanza: incarnavano modelli di donna molto cari al patriarcato, quindi non avevano nessun motivo per contestarlo o andare più a fondo. Loro erano “sistemate”, cosa gliene fregava delle altre? Per fortuna le cose ora stanno cambiando e spero che un giorno si raggiunga quel proposito di solidarietà cui ha auspicato Azzurra Rinaldi nel suo libro “Le signore non parlano di soldi” (Fabbri, 2023), che ha allargato la questione al web: «Il fenomeno della sottorappresentazione femminile affligge anche internet. Solo il 20% delle biografie pubblicate Wikipedia è dedicato a figure femminili. E gli articoli che parlano di figure maschili sono quattro volte più numerosi rispetto agli articoli incentrati su donne».

Manca una misura veramente collettiva della percezione del problema. Se lo sollevi, sembri la solita attaccabrighe che vaneggia di mondi inesistenti e quest’incredulità arriva anche da parte del mondo femminile, anzi, il sociologo Domenico De Masi ha utilizzato il termine alienazione per indicare proprio la mancanza di cognizione delle donne verso i loro diritti e verso i condizionamenti subiti o imposti.

Questa testimonianza non pretende di essere esaustiva, è solo una porzione di un processo molto più grande e complesso. Un processo che ha a che fare col gender gap, con tutte le discriminazioni di genere, perfino con la violenza contro le donne e con i femminicidi, perché le differenze arrivano tutte dal medesimo substrato e queste donne ammazzate sono la punta di un iceberg che, sott’acqua, ha una base spaventosa che si estende a dismisura.

Si tratta di un vuoto che in molte stiamo cercando di arginare pazientemente, con un lavoro certosino, goccia dopo goccia, a partire anche da quello che facciamo e che desideriamo, ovvero la professione che abbiamo scelto e che abbiamo il diritto di goderci pienamente, senza svantaggi e alla pari.
Il dato positivo è che le cose stanno cambiando. Sta aumentando la consapevolezza, la presa di coscienza, la rete si sta allargando, i negazionisti e i conservatori non hanno cambiato idea, ma almeno hanno la decenza di starsene un po’ più zitti.

Certo, c’è ancora tanto da sistemare, gli episodi gravi o sgradevoli permangono, ma dobbiamo guardare i risultati ottenuti. I/le giovani più formati, l’opinione pubblica che si sta rendendo conto che il femminismo non è un mostro tentacolare. E anche dal punto di vista delle conquiste linguistiche stiamo procedendo (ricordate che fino a 12 anni fa ancora i polemici avevano da ridire su un termine oggi finalmente entrato nell’uso comune come “femminicidio”, ad esempio?). Viviamo un momento lucido, intenso, vibrante. Dobbiamo solo continuare a lottare.

 

Foto Canva



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