Il passato non è una terra straniera. Della sentenza sul saluto fascista

La sentenza della Corte di Cassazione, sancendo l’antigiuridicità del saluto fascista nel corso di manifestazioni pubbliche limitatamente al pericolo di “riorganizzazione” del partito fascista e fatti salvi i rituali di “commemorazione”, decide di ignorare la norma cardine della legge Scelba che all’articolo 1 stabilisce che si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista anche quando una associazione o un movimento compie manifestazioni esteriori di carattere fascista.

Giuseppe Panissidi

La massima istanza della giurisdizione penale, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, si è infine pronunciata, gettando un fascio di luce nuova sulla controversa materia del “saluto fascista”. In estrema sintesi, la Corte sancisce l’antigiuridicità del saluto fascista nel corso di manifestazioni pubbliche, ancorché limitatamente al pericolo di “riorganizzazione” del partito fascista e fatti salvi i rituali di “commemorazione”. Cosicché, aderendo a uno specifico orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità, correttamente individua nella sola legge Scelba del 1952 la previsione dell’“apologia del fascismo”.
Inoltre, il collegio unitario del giudice della legittimità esclude dalla materia il “principio di specialità” nella relazione con la legge Mancino del 1993, distinta da una maggiore genericità in ragione del divieto di frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitamento all’odio, l’incitamento alla violenza, la discriminazione e la violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. In tal modo, significando la possibilità per il giudice di merito di applicare entrambe le disposizioni in concorso, in presenza dei necessari presupposti di fatto e di diritto, evidentemente.
Altro l’“apologia del fascismo”, la difesa, ossia, più o meno celebrativa del regime fascista, che, per l’appunto, cade sotto le specifiche disposizioni della legge Scelba.
E la Suprema Corte di certo non erra, quando sottolinea che la legge concerne la “riorganizzazione del disciolto partito fascista”. In modo palesemente contro intuitivo, tuttavia, decide di ignorarne la norma cardine, e non solo la ratio, bensì la lettera stessa, che traduce la volontà del Parlamento quale legislatore costituzionale.
L’art. 1, infatti, sancisce che “si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione o un movimento […] compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”. Semplici manifestazioni, dunque, tout court, anche in assenza di ulteriori evidenze e/o pericoli. Senza scomodare i rudimenti dell’ermeneutica, il senso dell’identificazione non potrebbe essere più chiaro!
Insomma, a nulla rileva se i partecipanti alla “cerimonia” rappresentino o meno un pericolo, “astratto” o “concreto” che sia, per l’ordine pubblico, né che si astengano (sic) dal riaprire la sede del partito fascista a Roma, in piazza Colonna o in via della Lungara! La semplice gestualità della “manifestazione esteriore” si configura come intrinsecamente antigiuridica e, dunque, sufficiente, nella prospettiva del comando giuridico che esprime la volontà dello Stato democratico.
Ecco il punto dirimente. L’apologia non deve necessariamente esprimersi attraverso atti di propaganda esplicita o violenza eversiva, in quanto il delitto appare pienamente integrato anche in costanza della semplice e tipica gestualità del saluto di memoria fascista, a mente del citato art. 1. Questa prima limpida disposizione riceve ulteriore e conclusiva chiarezza nell’art. 5, che punisce “chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste”.
Non giova rammentare che la legge, nella sua organica interezza, quale coerente attuazione della XII disposizione finale della Costituzione, risulta corroborata da plurime pronunce della Corte Costituzionale.
Inoltre, il letterale tenore delle norme fa riferimento alle manifestazioni in senso lato, in modo indistinto, vale a dire indipendente dai contesti e dalle finalità dell’una o dell’altra e senza eccezioni, vedi caso per occasioni “commemorative”. Se pubbliche, a queste ultime si estende e applica il principio generale, per la semplice ragione che la “pubblicità” in sé del saluto fascista, una delle “manifestazioni esteriori usuali del disciolto partito fascista”, appare pienamente idonea a integrare il delitto di “apologia del fascismo” e, finanche, di potenziale “riorganizzazione”, del tutto a prescindere da circostanze, intenzioni e pericoli ulteriori, insomma dalla situazione concreta nella quale siffatta gestualità si concreta.
Quanto alle commemorazioni, in specie, v’è qualcosa di più. In generale, sarebbe più che ragionevole impedire quegli eventi/sfide suscettibili di generare controversie e rischi. È del tutto evidente, infatti, che, in situazioni politiche sensibili, una cerimonia commemorativa, dunque celebrativa di una specifica memoria, può implementare o aumentare desideri di vendetta, catalizzando ulteriore violenza. Il principio logico-giuridico di precauzione esige una maggiore e doverosa attenzione, qualora si svolgano eventi altamente politicizzati, connessi pertanto con la volontà di potere politico, e di propaganda e proselitismo impliciti, oggettivamente difficili da controllare e modellare. Al riguardo, lo storico israeliano Guy Beiner introduce il concetto di decommemorating, de-commemorazione, diniego, ossia, verso atti di commemorazione che potrebbero provocare violenza.
Va da sé che la dibattuta questione è ben lungi dall’essere risolta, anche perché le singole sezioni della Corte Suprema hanno, de iure, la facoltà di non condividere i princìpi di diritto ora affermati dalle Sezioni Unite, le quali di conseguenza potrebbero essere ancora investite della questione.
La strada per un nuovo “conflitto delle interpretazioni” è più aperta che mai.
La sentenza costituzionale n. 74/58, infatti, statuisce la legittimità costituzionale non solo delle sanzioni penali che prendono in considerazione gli atti finali e conclusivi di un’ipotetica riorganizzazione del partito fascista, bensì anche di quelli idonei a creare un effettivo pericolo di tale riorganizzazione, qualora il fatto, qualunque fatto, ancorché commemorativo, trovi nel momento e nell’ambiente in cui è compiuto circostanze tali da renderlo pervasivamente idoneo a provocare adesione e consensi e a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione.
Dalle pronunce della Corte Costituzionale si desume come la fattispecie di cui all’art. 5 della legge Scelba configuri determinate condotte, in quanto tali, come un reato di pericolo concreto. In dottrina, peraltro, il contenuto delle manifestazioni simboliche che ricordano l’ideologia fascista o nazista assumono un rilievo decisivo sul piano della offensività, principio cardine della giurisdizione, a norma della XII Disposizione, senza alcuna necessità di individuare una idoneità concreta e funzionale alla riorganizzazione del disciolto partito fascista, ove si svolgano in ambito pubblico, che per sua natura può consolidare il consenso intorno a tali idee e realizzare un effetto di turbamento della pacifica civile convivenza democratica.
Conclusivamente. La libertà di “braccia tese” à gogo confligge apertamente con l’ordinamento giuridico costituzionale e la legge penale, con buona pace della seconda carica dello Stato (sic), il gongolante Ignazio La Russa, e della sua ardente passione per i busti del duce. Per tacere – frange scopertamente eversive, alla CasaPound, a parte – di vaste frazioni di popolo, le cosiddette “zone grigie” del Paese.
Riguardo a queste ultime, vero è che la conclamata “estraneità al fascismo” rappresenta soltanto la precondizione necessaria, epperò del tutto insufficiente. In Assemblea Costituente, nella seduta del 13 marzo 1947, Aldo Moro argomentò con parole definitive, accolte con una forte ovazione, in merito all’implausibilità, al limite dell’insensatezza, e connesso rifiuto, dell’a-fascismo, giudicato un ostacolo alla “via lunga”. Una via, pare, smarrita, da ritrovare e percorrere. Ancora. Sempre.
E ci sovviene dello sgomento lucido di Pietro Nenni, nel 1922, poco prima del naufragio, davanti a troppi “occhi bendati”. Invero, com’è indubbiamente vero, il passato non è una terra straniera e, anzi, può ritornare e ritorna, in forme sempre nuove, impreviste e imprevedibili, talora sorprendenti. Avanzando, anche nel nostro presente storico, abilmente e di necessità mascherato, un passo dopo l’altro…



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