Il perfetto fascista

La storia emblematica di Attilio Teruzzi che Victoria de Grazia racconta in “The Perfect Fascist” ci depura da tanti luoghi comuni sul fascismo, ricordandoci che “fascisti si diventa, non si nasce”.

Marco d'Eramo

Vi sono parole che ti fanno capire che appartieni a un’altra epoca. Prima, potevi illuderti di essere contemporaneo a questo presente. Poi, ti devi ricredere. Per me la parola è stata “antifa”, quando Donald Trump l’ha usata a ripetizione l’anno scorso come sinonimo di “terrorista di sinistra”. Per tutta la mia infanzia, giovinezza e vita adulta infatti, era stato il termine “fascista” l’insulto peggiore, l’epiteto da abbreviare (“fascio”, facho in francese), come nazista era accorciato in “nazi”. E improvvisamente “antifascista” diventa un insulto, diventa il nomignolo da elidere. La mia generazione è cresciuta in una “repubblica nata dall’antifascismo”, in cui anzi l’antifascismo era scontato, quasi benpensante, ed ecco che il termine diventa la sigla di un movimento “eversivo” di sinistra, associato al black bloc, dipinto come speculare all’alt right (il New York Times ha discusso la questione in un articolo del 28 settembre 2020: “What Is Antifa, the Movement Trump Wants to Declare a Terror Group?”).

Cosa c’è di irrisolto in questo termine “fascista” che, ancora 76 anni dopo la morte di Adolf Hitler e Benito Mussolini e la loro sconfitta nella seconda guerra mondiale, continua a tormentare le nostre concezioni politiche? C’è che del fascismo, e soprattutto dei fascisti, noi continuiamo ad avere un’immagine cinematografica. E ancor più del nazismo e dei nazisti. Ricordo nell’archivio cineteca di Göttingen, la prima volta che ascoltai un discorso di Joseph Göbbels: non abbaiava! Parlava suadente, ragionevole, calmo, niente a che vedere con i gerarchi nazisti cui ci avevano assuefatto i film hollywoodiani. Lo stesso avviene con il “fascista” che è diventato un tipo umano, uno stereotipo, al limite una macchietta che è nello stesso tempo una damnatio memoriae, una condanna senza appello del passato e un’assoluzione plenaria del presente, perché è inimmaginabile che qualcuno di noi replichi quegli oltraggi alla decenza intellettuale, ancor prima che politica, visto che fascisti e nazisti sono dipinti come minorati mentali.

Perciò costituisce un bagno salutare, un’immersione catartica nel passato The Perfect Fascist (Harvard University Press 2020, pp. 517) di Victoria de Grazia, storica della Columbia University. Questo tuffo nella prima metà del ‘900 ci depura da tantissime incrostazioni. Dall’idea che ci sia una “indole fascista” – oggi questo determinismo si esprimerebbe col linguaggio genetico: che “il fascismo sia inscritto nel Dna di una persona”. Il fatto è, come scrive De Grazia, che “Fascisti si diventa, non si nasce”. Una persona che a un certo momento della sua vita è una “persona decente, un buon soldato”, finisce poi per guidare squadre di picchiatori fascisti e infine collaborare con le Ss.

Il libro di De Grazia ci depura anche da una convinzione più insidiosa e più profonda, e cioè che la normalità degli esseri umani sia fatta di medietà. Che cioè l’essere normali consista nel “non discostarsi dalla norma”, mentre invece la normalità (e la mediocrità) è un insieme di tante eccezioni che interagiscono tra loro. Perciò la storia che De Grazia ci racconta è emblematica di un’epoca, anche se la sua trama non avrebbe potuto essere concepita neppure dallo sceneggiatore più pulp di un film hollywoodiano.

Chi mai potrebbe immaginare un intreccio di traiettorie sociali e geografiche come quelle che segnarono i destini di Attilio Teruzzi, il “fascista perfetto”, e Lilliana Weinman, diva dell’opera? Teruzzi era un milanese nato nel 1882 da padre vinaio e madre figlia di un fattore di una famiglia nobile. Nell’Italia di fine ‘800 il giovanissimo Attilio vide nell’esercito l’unica istituzione che gli consentiva un’ascesa sociale, pur arruolandosi come soldato semplice (non aveva i mezzi, né i titoli per essere ammesso all’Accademia militare). Fu subito spedito in Eritrea dove riuscì a diventare furiere. Grazie a un aspetto gradevole e al saper trattare superiori e commilitoni, riuscì a farsi ammettere all’accademia di Modena, l’equivalente italiano di West Point, Sandhurst o Saint-Cyr. Da ufficiale partecipò alla guerra contro la Turchia (1911-1912) e alla conquista della Libia, dove fu ferito, decorato e descritto dalla stampa come eroe di guerra.

Nella prima guerra mondiale si comportò onorevolmente, entrò nella massoneria, divenne aiutante di campo del generale Giuseppe Vaccari, fu decorato e promosso maggiore: per chiarire quali altri orizzonti possibili si aprivano a questi ufficiali se fossero sopravvissuti alla guerra di trincea, basti pensare che l’altro aiutante del generale Vaccari fu Raffaele Mattioli che poi sarebbe diventato amico dell’economista Piero Sraffa e di John Maynard Keynes, amministratore delegato di uno dei grandi istituti finanziari italiani (Banca Commerciale), avrebbe salvato dalla distruzione i Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci e, dopo la seconda guerra mondiale, sarebbe stato il primo a finanziare la società petrolifera italiana (Eni) di Enrico Mattei.

Già in questa “formazione di un capo (fascista)”, per parafrasare un famoso titolo di Jean-Paul Sartre, incontriamo un’incongruenza: come è possibile che un massone diventasse poi uno dei dirigenti di un movimento, partito e regime che si scagliava contro “il complotto pluto-giudaico-massonico”? In realtà numerosi furono gli esponenti fascisti aderenti alla massoneria. Giusto per citarne alcuni: Italo Balbo, Giuseppe Bottai, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi, Roberto Farinacci, Achille Starace, oltre allo stesso Teruzzi.

Troviamo così nel fascismo, riguardo alla massoneria, quella pratica che poi sarà codificata nell’esercito Usa rispetto all’omosessualità: “Non chiedere, non dire!”.

La prima guerra mondiale segnò il punto di svolta, perché la vittoria del regno d’Italia fu una sconfitta per gli italiani e per molti bloccò l’ascensore sociale: a costoro il fascismo apparve l’unica carriera in grado di “promuovere”. Fu così che a poco a poco, la “persona decente e buon soldato” divenne fascista, guidò le violenze delle squadracce contro le associazioni operaie e i partiti di sinistra, partecipò alla marcia su Roma da veterano decorato di guerra di bella presenza e cioè da esibire come figura “virtuosa” del fascismo, e fu implicato nell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (1924). Fu allora che a Milano incontrò Lilliana Weinman, figlia di ebrei emigrati negli Stati uniti dalla Galizia austriaca, che a New York avevano fatto fortuna producendo elastici per mutandine e che investirono parte della loro fortuna nella carriera lirica della figlia. Una giovane che, con totale determinazione, aspirava a diventare una grande diva dell’opera: “Sento che diventerò una grande prima donna[*], e la prerogativa di una grande prima donna è prendere, non dare”.

Qui ci scontriamo con un secondo luogo comune sul rapporto tra ebraismo e fascismo. Da un lato sappiamo di molti ebrei che fino alle leggi razziali furono fascisti, aderirono cioè a un movimento che per loro era “patriottico” e argine al bolscevismo. Sappiamo di grandi scienziati tedeschi ebrei che furono cacciati a forza dal nazismo, mentre avrebbero voluto continuare a contribuire alla grandezza della Germania. Dall’altro lato, altrettanto ambivalenti furono (almeno fino al 1937) i gerarchi fascisti con l’ebraismo. Come abbiamo appreso che molti di loro erano massoni, così li troviamo impegnati in strette relazioni con israeliti. L’amante e, per molti anni, musa ispiratrice di Benito Mussolini fu la critica d’arte veneziana Margherita Sarfatti che l’amò al punto da scriverne una biografia encomiastica e da convertirsi dall’ebraismo al cattolicesimo, il che non l’avrebbe esentata dall’esilio una volta che furono emanate le leggi razziali (1938). Anche Roberto Farinacci, che si sarebbe distinto per antisemitismo spietato, aveva per segretaria e custode dei suoi segreti l’ebrea Jole Foà che sarebbe morta ad Auschwitz dopo essere stata fascista convinta. Lo stesso Teruzzi non solo si sposò con Lilliana Weinman – che per molti anni si dichiarò fascista – , ma quando ruppe con lei, s’innamorò dell’ebrea romena Yvette Blank, nata al Cairo, ebbe da lei una figlia e fece di tutto per salvarla dai rastrellamenti negli ultimi convulsi mesi della seconda guerra mondiale quando quel che restava del regime fascista era solo un burattino manovrato dal generale Kesserling. E da Yvette tornò Teruzzi nel 1950 nella modesta pensione che lei aveva aperto a Procida, per trascorrere gli ultimi mesi di vita dopo essere uscito dal carcere dove era stato rinchiuso come criminale di guerra.

Qui si apre un secondo sottotesto, quello della violenza simbolica esercitata dal fascismo sulle donne, su cui De Grazia ha scritto un libro fondamentale, How Fascism Ruled Women: Italy, 1920-1945 (University of California Press 1992). Molte donne furono infatti fasciste nonostante il regime fosse maschilista e misogino, al punto da escludere le insegnanti di liceo dalle cattedre di lettere, filosofia, storia, e da raddoppiare le tasse d’iscrizione scolastica per le studentesse. Con un regio decreto del 1939 il fascismo stabilì le mansioni adatte alle donne: dattilografe, telefoniste, stenografe, conta banconote e biglietti, segretarie, annunciatrici, cassiere, commesse e sarte.

Un terzo luogo comune che viene smontato dal libro è la natura monolitica, granitica dei regimi totalitari: ripercorrendo la carriera di Attilio Teruzzi da deputato in parlamento a viceministro degli Interni, a governatore della Cirenaica, a capo della milizia fascista, a ispettore generale in Spagna durante la guerra civile, a infine ministro delle Colonie (anche quando queste colonie erano state ormai perse), De Grazia segue gli intrighi fra gerarchi, la fronda di Farinacci a Mussolini, il disprezzo dei generali di carriera per gli strateghi dilettanti, le intercettazioni che il regime effettuava sulle telefonate dei propri dirigenti, l’incertezza tra l’ambizione di sostituire una vecchia classe dirigente e la voglia di esserne cooptati.

Il libro non sarebbe possibile senza le carte di Lilliana Weinman e senza gli atti del processo di annullamento del suo matrimonio presso il tribunale ecclesiastico della Sacra Rota, quando Teruzzi cercò (invano) di liberarsi di lei assumendo come avvocato il fratello Carlo del segretario di stato vaticano, Eugenio Pacelli futuro pontefice Pio XII: un processo che durò anni e nelle cui carte si vede crescere l’antisemitismo sia tra i gerarchi fascisti che nelle alte sfere ecclesiastiche.

Una buona parte del libro è dedicata all’Africa, dove Teruzzi aveva iniziato la sua carriera militare, dove tornò da governatore (in Libia tra il 1926 e il 1928), dove tornò ancora a combattere nell’invasione dell’Etiopia nel 1936. Lì siamo testimoni della stravaganza di una cantante d’opera newyorkese che recita la governatrice omaggiata da tribù beduine. L’Africa, dove un fascista come Teruzzi poteva dare sfogo a tutta la sua sessualità (una delle più famose canzoni coloniali fasciste era insieme razzista e maschilista: “Faccetta nera, bell’abissina / aspetta e spera che l’ora si avvicina!”). L’Africa, dove gli italiani, che negli Usa erano considerati i “neri d’Europa” proclamavano leggi per non contaminare con le indigene “la purezza della razza italica”. L’Africa, dove l’Italia perseguiva un anacronistico sogno di modernità proprio quando il colonialismo vecchio stile stava per tramontare. Teruzzi realizzò opere pubbliche in Libia, come poi avrebbe costruito strade in Etiopia, dissestando le casse dello stato italiano, a dimostrazione della totale assenza di razionalità economica da parte dell’imperialismo fascista: a pensare che in Libia gli italiani sedevano su un mare di petrolio che non riuscirono mai a sfruttare, tanto che il maresciallo Erwin Rommel fu costretto a lanciare il suo Afrikakorps verso l’Egitto per arrivare ai pozzi di petrolio…

La distanza abissale tra la posizione reale dell’Italia nella gerarchia delle potenze e la situazione invece in cui l’Italia fascista s’immaginava di essere risulta chiara dal bilancio della campagna contro gli insorti libici nel 1927: “Alla fine della campagna, l’esercito aveva ucciso 1.226 ribelli, catturato 296 fucili, ucciso 2.844 cammelli e catturato 842, catturato 18.070 capre e pecore e uccise altre 5.050, requisito 172 mucche e 26 cavalli …”. I cammelli sequestrati e le capre catturate non costituiscono evidentemente un preliminare adeguato a una guerra mondiale contro gli Stati uniti.

Si parva licet, Teruzzi è molto simile, in negativo, al Julien Sorel de Il Rosso e il Nero di Stendhal: Julien Sorel ha delle qualità che gli permettono di ascendere socialmente dal suo paesetto della Franca Contea ai salotti aristocratici di Parigi, ma le stesse qualità che lo fanno ascendere sono quelle che pongono un limite alla sua ascesa e alla fine lo conducono alla morte. Per Teruzzi queste qualità erano la sua esperienza militare, la lealtà che lo rendeva affidabile e la mediocrità che lo rendeva innocuo come rivale potenziale (il genero di Mussolini e ministro degli esteri Galeazzo Ciano lo considerava “mediocre, ma leale, davvero leale”). Grazie a esse Teruzzi trovò nel fascismo il percorso per ascendere la scala sociale fino ad arrivare in cima (sua compagna di bridge fu per un periodo l’attrice Anna Magnani). Ma la stessa lealtà e mediocrità ne fecero un esecutore, un complice corrivo delle peggiori nefandezze del regime. E finirono per farlo crollare insieme a esso quando era ricercato dai partigiani e “tre o quattro, o perfino sette Terruzzi furono linciati nei mesi della liberazione” perché portavano la sua barba e avevano la sventura di somigliargli vagamente.

Ecco perché quella che De Grazia ci racconta “non è una biografia. È la storia sociale di un uomo che, nel farsi strada nella complessità delle sue relazioni umane e politiche, spesso catturate dai punti di vista delle sue donne, ci mostra come funzionasse in realtà il fascismo italiano”. Una storia sociale che getta una luce più chiara, più nitida su cosa dovrebbe implicare essere “antifa”.

[*] In italiano nel testo



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