Il pretesto dei “provocatori” per manganellare gli studenti che protestano

Nonostante la repressione – giustificata secondo la ministra Lamorgese dalla “presenza di provocatori” – gli studenti torneranno in piazza in tutta Italia venerdì 18 febbraio: “La nostra lotta continua”.

Maurizio Franco

Il “cortocircuito” nelle piazze italiane, quando gli studenti manifestano contro il governo dei migliori e per la morte di un loro coetaneo, Lorenzo Parelli, avvenuta durante l’apprendistato in un’azienda di Udine. Ordine pubblico e repressione del dissenso sono accompagnati da lunghi discorsi sull’emergenza pandemica e sulla salute pubblica da preservare con divieti e restrizioni. “Un cortocircuito da scongiurare” per evitare che le scene del 28 gennaio si ripetano. “La presenza di provocatori” è la giustificazione che la ministra degli Interni, Luciana Lamorgese, ha esposto dopo i fatti di Milano, Roma e Torino, quando i manganelli della polizia si sono abbattuti sul corteo del movimento studentesco. Un’entità eterea, quella del “provocatore”, che ha caratterizzato il conflitto sociale per tutta la storia della Repubblica. “Infiltrati” o “violenti” in grado di far esplodere le tensioni, così da legittimare la reazione spropositata delle forze dell’ordine. E derubricare a questioni di sicurezza e gestione tecnica dei cortei, le rivendicazioni di ampi settori della società che nelle piazze trovano una cassa di risonanza comune. A riprova della presenza degli agenti provocatori nelle manifestazioni della galassia studentesca, secondo Lamorgese, sono “gli arresti fatti in alcune città”.

Durante il comitato per l’ordine e la sicurezza del 7 febbraio a Milano, la ministra ha dichiarato: “Quando ci sono ragazzi che manifestano per questioni gravissime, ovviamente c’è da avere la massima attenzione. Però non possiamo ignorare che, in questo momento, vige una direttiva che impediva manifestazioni, se non statiche, per ragioni di salute pubblica” riferendosi all’ordinanza dello scorso novembre. E ha aggiunto: “dobbiamo valutare quelle che sono le modalità di comportamento da parte della polizia”.

Gli studenti, comunque, torneranno in strada. L’assemblea nazionale del 5 e del 6 febbraio dei collettivi ha lanciato una data di mobilitazione su tutto il territorio nazionale: venerdì 18 febbraio. “Abbiamo deciso di opporci tutti e tutte insieme a un sistema che ci sta stretto, che ci opprime e ci uccide e che è volto soltanto a garantire le logiche del profitto e non costruito sulla base delle nostre necessità e desideri”, dicono gli studenti de La Lupa. “Allora grideremo più forte: ci riprenderemo i nostri spazi, le nostre scuole, le nostre città, pretenderemo risposte concrete alle nostre esigenze”, concludono.

Il sindacato Si Cobas – sempre il 7 febbraio – ha organizzato un presidio a Piazza San Babila, “nonostante il grave divieto della questura di Milano” di manifestare davanti alla Prefettura. Il motivo della protesta: l’aumento degli organici di polizia da impiegare su Milano. “Non è con più poliziotti che si risolvono i problemi sociali – scrive il sindacato di base in un comunicato – ma con l’aumento dei salari e il loro aggancio all’aumento del costo della vita […]. Seguiamo l’esempio dei lavoratori Fedex e Unes, capaci, con la lotta, di tenere viva una trattativa per il reintegro sui posti di lavoro e degli studenti di Torino che, in seguito alle manganellate subite, sono tornati più forti in piazza venerdì scorso conquistandosi la possibilità di manifestare in corteo”.

Il Partito democratico e Sinistra italiana hanno presentato un’interrogazione parlamentare alla ministra Lamorgese che dovrà riferire alla Camera quanto è successo nelle manifestazioni studentesche. Durante il vertice di Milano, alla domanda sull’introduzione di codici identificativi delle forze dell’ordine – battaglia che da anni, comitati e associazioni, come Amnesty international, portano avanti per l’elaborazione di una norma in linea con gli standard legislativi internazionali ed europei –, la ministra ha risposto: “Ci sono già in essere le telecamere sui caschi dei poliziotti, che servono per documentare quelle che sono le azioni di ordine pubblico, quindi per la massima trasparenza. E questo serve a tutti: serve a chi manifesta, ma serve anche alle forze di polizia perché è giusto che ci sia una rappresentazione concreta di quello che avviene durante un’operazione”. E ribadisce: “Noi siamo su questa fase, ora. Quindi non mi sposterei ancora sui codici”. Anche qui, l’ennesimo cortocircuito, stavolta comunicativo.

(credit foto ANSA/JESSICA PASQUALON)

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