Il problema dell’esistenza di Dio

L'articolo illustra un metodo fondato sulla teoria delle descrizioni di Russell, per un approccio condivisibile al problema dell'esistenza di Dio. Il metodo viene applicato a dei casi concreti: l’esistenza del numero 2; quella di Alessandro Manzoni; quella del Dio trinitario cattolico.

Pasquale Giannino

1. Introduzione
La guerra tra fede e conoscenza dovrebbe essere finita da tempo. Le scoperte conseguite dal Seicento a oggi, con i metodi della scienza moderna, hanno tolto a molte fedi religiose il fondamento su cui si reggevano: la centralità della vicenda umana, nella storia grandiosa del cosmo. Rimane quella combattuta fra tantissime fedi in competizione tra loro. In verità, esse hanno qualcosa in comune: i sistemi di credenze che utilizzano risalgono ad antichi miti di religioni ormai estinte, opportunamente camuffati e adattati alle nuove esigenze dottrinali. Se Dio è morto, le religioni organizzate sono vive e vegete. D’altra parte, ogni forma di potere ha bisogno di un fondamento ideologico che lo giustifichi, ed esse lo trovano nella propria dottrina. Ne risultano dei sistemi di credenze in lotta fra loro e, sovente, in palese contrasto con la conoscenza. In questo saggio, illustro un metodo efficace – fondato sulla teoria delle descrizioni di Bertrand Russell – per formulare il problema dell’esistenza di Dio secondo un approccio condivisibile, che tenda a superare i contrasti dottrinali e non sia incompatibile con la conoscenza. Descrivendo il metodo, mostro come applicarlo a dei casi concreti: l’esistenza del numero 2; quella di Alessandro Manzoni; quella del Dio trinitario cattolico. Spiego come tale formalizzazione sia utile a trattare in modo separato: il problema dell’esistenza di un ente; quello della verità di una proposizione, in cui esso compaia come soggetto. Fornisco un criterio per affrontare correttamente i due problemi. Infine, mostro come applicare il metodo al problema dell’esistenza di un Dio sfrondato dagli attributi metafisici peculiari di ogni dottrina religiosa, i quali creano contrasti e divisioni, e possono favorire – ove il contesto lo permetta – manifestazioni di integralismo e violenza.

Per approfondimenti sulla teoria delle descrizioni, rimando all’esposizione divulgativa del saggio Introduction to Mathematical Philosophy[1].

2. Il metodo: i numeri esistono?

Anzitutto, è opportuno distinguere il problema della verità di una proposizione da quello dell’esistenza di un ente. La proposizione “2 è il minore dei numeri primi” è oggettivamente vera. Ma si può anche dire, utilizzando la nozione di enunciato aperto: “Esiste un unico numero naturale c, tale che l’enunciato ‘x è il minore dei numeri primi’ sia vero se x è uguale a c; tale numero è 2”. Questa seconda formulazione non è una sovrastruttura formale, ma permette di separare il problema della verità da quello dell’esistenza, i quali sono profondamente diversi: altro è interrogarsi sull’esistenza di un ente, altro è discutere della verità di una proposizione che utilizzi tale ente come soggetto. Non vi è dubbio che il numero 2 esista; che i numeri naturali esistano. Ma in che termini? Sono delle semplici astrazioni operate dall’uomo o degli enti che preesistono agli esseri umani, e magari al mondo conosciuto? È noto che essi vengono utilizzati come concetti fin dalla preistoria dell’umanità, prima che si inventi la scrittura e molto prima della loro formalizzazione matematica[2]. Dunque in che termini esistono i numeri naturali: sono mere astrazioni o enti metafisici? Il problema è antico ed è tutt’altro che risolto. Senza dubbio, il numero 2 esiste sul piano logico, come soggetto che rende vero l’enunciato “x è il minore dei numeri primi”.

Il problema dell’esistenza non è certo banale. Si presta a ogni sorta di ambiguità e inganni verbali. Il metodo che intendo illustrare consente di formularlo in modo chiaro e non ambiguo, separandolo da quello della verità. Un altro esempio può essere utile. Dire “Alessandro Manzoni esiste” è ambiguo. Infatti, a chi non sappia nulla del Manzoni sarebbe opportuno chiarire che egli è esistito, ma non esiste più come individuo: esiste come l’autore dei Promessi sposi. Utilizzando la teoria delle descrizioni, si può dire: “Esiste un unico scrittore c, tale che l’enunciato ‘x è l’autore dei Promessi sposi‘ sia vero se x è uguale a c; c è Alessandro Manzoni”. L’ambiguità scompare. Così, avendo accertato che l’autore dell’opera è lui, è chiaro che il Manzoni esiste sul piano logico, come l’autore dei Promessi sposi: è il soggetto che rende vero l’enunciato “x è l’autore dei Promessi sposi”. Come individuo, invece, dobbiamo ricorrere alle fonti storiche, per sapere che Alessandro Manzoni è esistito, ma oggi non esiste più. Questo metodo permette di affrontare in modo separato: il problema della verità di una proposizione; quello dell’esistenza di un ente. Non consente, da solo, né di sapere se la proposizione sia vera né se l’ente che compare in essa come soggetto esista e in che termini: permette di formulare i due problemi in maniera separata e non ambigua, che non è poco. Fornirò un criterio efficace per risolverli entrambi. Ma ora vediamo la formulazione del metodo:

  1. c è un tale ente (descrizione generale)
  2. x è questo ente (descrizione particolare, sotto forma di enunciato aperto)
  3. Esiste un unico ente c, tale che l’enunciato “x è questo ente” sia vero se x è uguale a c; c ha questo nome.

Applichiamola all’esempio del Manzoni:

  1. c è uno scrittore
  2. x è l’autore dei Promessi sposi
  3. Esiste un unico ente c, tale che l’enunciato “x è l’autore dei Promessi sposi” sia vero se x è uguale a c; c è Alessandro Manzoni.

Analogamente, si può applicare all’esempio del numero 2:

  1. c è un numero naturale
  2. x è il minore dei numeri primi
  1. Esiste un unico ente c, tale che l’enunciato “x è il minore dei numeri primi” sia vero se x è uguale a c; c è 2.

Una volta formulato il problema della verità e quello dell’esistenza, il criterio che io suggerisco per risolverli ambedue è la condivisibilità: un’affermazione è vera se è condivisibile, cioè se risulta vera a chiunque sia in grado di giudicarla in modo oggettivo. Applicando tale criterio, sappiamo che le proposizioni “2 è il minore dei numeri primi” e “Alessandro Manzoni è l’autore dei Promessi sposi” sono entrambe vere. L’esistenza del numero 2 è condivisibile sul piano logico; su quello metafisico non lo è. L’esistenza di Alessandro Manzoni è condivisibile sia sul piano logico che su quello storico.

Ecco, il problema dell’esistenza di un ente è più complesso di quello che riguarda la verità di una proposizione. Bisogna valutare non solo se l’ente esista o no, ma, se esiste, occorre specificare in che termini. I casi possibili sono i seguenti:

  1. Esiste solo sul piano logico, come soggetto di una proposizione.
  2. Esiste (o è esistito) come ente determinato nello spaziotempo.
  3. È metafisico: ovvero preesiste a ogni forma di astrazione che si possa effettuare nello spaziotempo.

3. L’esistenza di Dio

A una mente razionale dovrebbe risultare evidente qual è la contraddizione profonda delle dottrine religiose: ognuna offre ai fedeli un sistema di credenze alternativo a tutti gli altri del presente, del passato e del futuro. Non servono equilibrismi logici, per sapere come stanno le cose su tali dottrine: o sono tutte false o soltanto una è vera. Fra tutti i sistemi di credenze del passato, del presente e del futuro, la probabilità che l’unico vero sia quello della propria tradizione religiosa è pressoché nulla. Dunque, il problema teologico fondamentale non è tanto l’esistenza o la non esistenza di una o più divinità, quanto la competizione millenaria fra numerose descrizioni di Dio. Essa, com’è noto, non si svolge solo a livello dottrinale, ma ha alimentato nel corso dei millenni ogni sorta di violenze, discriminazioni e fanatismi, nonché vere e proprie guerre di religione. Ecco, formulare in modo corretto e non divisivo il problema dell’esistenza di Dio non è un mero gioco intellettuale: a questo punto della storia umana, dovrebbe essere un dovere etico. Già nel 1914, Russell suggeriva di applicare la teoria delle descrizioni a tale problema, nel saggio Il rapporto tra i dati sensoriali e la fisica[3]. Se l’invito fosse stato raccolto e condiviso, con una efficace opera divulgativa, forse avremmo evitato molte manifestazioni di integralismo religioso, le quali – bisogna dirlo – sono favorite da contesti culturali e politici meno evoluti, ma l’integralismo è insito in qualunque dottrina dogmatica. Nemmeno quella cattolica ne è immune. Anzi, per onestà intellettuale, si dovrebbe ammettere che essa ha una caratteristica che rende piuttosto evidente la sua struttura integralista: la pretesa di essere universale. D’altra parte, non si può negare che il cattolicesimo si sia ben integrato nelle società avanzate che oggi lo ospitano, mostrando un volto moderato e tollerante. Ma la dottrina resta quella che è: una delle tante dogmatiche in competizione fra loro.

Bene, il modo corretto di formulare il problema dovrebbe essere questo:

  1. Fra i tantissimi sistemi di credenze religiose – del presente, del passato e del futuro – ce n’è uno vero?
  2. Se esiste, qual è quello vero?

La teoria delle descrizioni è lo strumento che rende possibile una formulazione rigorosa. A titolo d’esempio, prendiamo il Dio trinitario della dottrina cattolica:

  1. c è un ente descritto come un Dio
  2. x è la Trinità cattolica
  3. Esiste un unico ente c, tale che l’enunciato “x è la Trinità cattolica” sia vero se x è uguale a c; c è il Dio cattolico.

L’esistenza di questo Dio è certamente condivisibile sul piano logico. Non lo è su quello metafisico. La stessa procedura si può applicare a qualunque descrizione di un Dio, e le conclusioni sono analoghe.

4. La causa prima

Rimane aperto un problema, che è forse il più grande e complesso di sempre: l’origine dell’esistenza e della vita. Le dottrine religiose non lo risolvono, poiché non forniscono soluzioni condivisibili. Si tratta di interrogarsi sulla causa delle leggi naturali che regolano i fenomeni fisici e biologici. La tesi che io sostengo è questa: sono falsificabili le leggi formulate dall’uomo, per descrivere il mondo fisico e fare delle predizioni intorno ai fenomeni osservabili; le leggi del mondo fisico non si possono violare. Quelle umane sono semplici rappresentazioni di tali leggi, non bisogna confonderle. Esse nascono dall’osservazione di fenomeni particolari. Lo scopo della scienza è correggerle e migliorarle, formulando leggi valide in ambiti sempre più estesi. Questo è possibile proprio in virtù di quel criterio che Popper ha individuato, per discriminare la scienza dalla pseudoscienza: la falsificabilità delle teorie scientifiche[4]. Osservare un fenomeno che viola una legge fisica non è una sconfitta della scienza. È una bella notizia. Vuol dire che si è circoscritto il campo di applicazione della teoria che include tale legge, e si può lavorare per formularne una nuova migliore: ossia, una che sia anche valida per quel tipo di fenomeni che hanno falsificato la vecchia. Il punto è questo: un fenomeno può violare una legge fisica formulata dall’uomo, attraverso l’utilizzo di opportuni modelli matematici. Ma non è la legge naturale che regola quel tipo di fenomeni. È quanto di meglio, allo stato delle conoscenze, l’uomo possa produrre per rappresentarla. Se si osserva un fenomeno che viola una legge fisica, vuol dire che la teoria da cui essa deriva non è perfetta, e la comunità scientifica si adopera per migliorarla. Non vi è alcuna evidenza che un fenomeno fisico possa violare una legge naturale che lo governa.

I problemi aperti, dunque, sono questi:

  1. Le leggi che regolano il mondo fisico sono pienamente intelligibili, seppure attraverso una serie di teorie parziali che si possono via via migliorare, grazie al requisito fondamentale della falsificabilità? O le teorie scientifiche hanno una funzione meramente pratica: quella di fare delle predizioni intorno ai fenomeni fisici, che siano utili a controllarli con la tecnologia?
  2. In ogni caso, la domanda cruciale rimane la seguente: da dove provengono tali leggi?

Da un punto di vista puramente speculativo, si può tentare di rispondere superando i contrasti che derivano dai tanti diversi modi in cui ogni dottrina religiosa descrive il proprio Dio. Le sovrastrutture dottrinali non consentono di fornire una descrizione condivisibile. Bisogna sfrondare l’idea di Dio dai suoi attributi metafisici: basta descriverlo come la causa prima del mondo. In termini formali:

  1. c è un ente descritto come un Dio
  2. x è la causa prima del mondo
  1. Esiste un unico ente c, tale che l’enunciato “x è la causa prima del mondo” sia vero se x è uguale a c; c è Dio.

5. Conclusioni

In definitiva, il problema vero rimane quello antico della causa prima. Si tratta di capire se il mondo che noi conosciamo abbia o no una causa prima, e di che natura essa sia. Le credenze e i miti che si sono diffusi intorno all’idea di Dio, nel corso dei millenni, non sono condivisibili. Molto probabilmente, sono tutti falsi. La mia proposta consente di formulare il problema dell’esistenza di un Dio come origine delle leggi che regolano i fenomeni del mondo fisico e biologico, sfrondato dagli attributi metafisici divisivi delle dottrine religiose. È sufficiente ipotizzare che un tale Dio abbia fissato una volta per tutte le leggi fondamentali che governano l’evoluzione del cosmo e della vita, secondo le componenti del caso e della necessità, come ha ben illustrato Jacques Monod nel suo celebre saggio[5]. L’ipotesi che possa intervenire nelle vicende umane, invocato da un singolo individuo di una specie che ha appena duecentomila anni, comparsa dopo circa 13,8 miliardi di anni dal Big Bang su un pianeta piuttosto periferico della Via Lattea, una fra almeno 2000 miliardi di galassie stimate… ecco, tale ipotesi non è solo superflua: rivela una visione antropocentrica del mondo in netto contrasto con la conoscenza. Il metodo che ho illustrato permette di superare tale contraddizione. Esso andrebbe divulgato anzitutto nelle scuole, non per sostituire un’educazione fondata sui valori della propria tradizione religiosa, ma per integrarla. Spesso, durante il percorso educativo, un ragazzo impara che i valori e i principi appresi dalla famiglia o dall’ambiente in cui viene educato siano la Verità. Così, l’educazione rinuncia a quello che dovrebbe essere il suo fine più nobile: educare al rispetto degli altri. E può diventare un pericoloso strumento di incomprensione e intolleranza. Già, perché quel ragazzo, crescendo, scoprirà che ci sono tanti suoi coetanei che hanno ricevuto un’educazione diversa dalla sua; che hanno appreso verità diverse da quella che lui ha assimilato dalla famiglia, dall’ambiente e dagli adulti che lo hanno formato. Essi, magari, gli hanno trasmesso il valore della propria tradizione; gli hanno insegnato che la verità è inscindibilmente legata alla tradizione; e che bisogna difendere e rispettare la tradizione. Un’educazione siffatta è certamente vantaggiosa, per la comunità che la condivide. Ma quando il ragazzo dovrà confrontarsi con altri giovani che sono stati educati a delle verità in contrasto con la propria, il rischio che la sua educazione lo induca all’odio e alla violenza è concreto. Allora, ecco l’importanza di un’educazione superiore, fondata su un concetto molto chiaro: la condivisibilità.

La condivisione di una “verità” basata sulla tradizione funziona all’interno della comunità che la realizza. Non può funzionare nel confronto con altre verità fondate su tradizioni diverse. Si rende necessaria un’educazione che estenda la condivisibilità del suo contenuto ben oltre i limiti dei condizionamenti familiari e ambientali; che superi l’angusto e divisivo recinto della tradizione. La condivisibilità dovrebbe essere il requisito basilare di qualunque strategia educativa. La storia umana è fatta di un progressivo superamento di tali recinti; di una progressiva estensione degli ambiti in cui si rende possibile la condivisione dei contenuti, con i quali si compie il processo educativo. È una strada che non piace a molti. Di certo, è invisa agli ultraconservatori. Ma la dobbiamo percorrere, se vogliamo affidare alle nuove generazioni un mondo più tollerante e meno aggressivo di questo, che tuttora fomenta odio e violenze in nome della religione.

 

 Pasquale Giannino è docente e scrittore. Decine di suoi racconti e articoli sono apparsi su blog letterari e riviste. Ha pubblicato di narrativa Banda, che passione! (Milano, 2003) e Ritorno al sud (Armando Curcio, 2011); il saggio scientifico-filosofico Dio gioca a dadi? (MicroMega – Il Rasoio di Occam, 3 febbraio 2020). Collabora con le riviste MicroMega e Critica Liberale.

 

[1]          B. Russell, Introduction to Mathematical Philosophy, Merchant Books 2014, cap. XVI.

[2]          C. B. Boyer, Storia della matematica, tr. it. Mondadori, Milano 2009, cap. 1.

[3]          B. Russell, Misticismo e logica, tr. it. Corriere della Sera, Milano 2022, p. 148.

[4]          K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica, tr. it. Einaudi, Torino 2010, cap. primo par. 6.

[5]          J. Monod, Il caso e la necessità, tr. it. Mondadori, Milano 2017.

Foto Pexel | Brett Sayles 

 



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