“365”, di Daniele Barbieri e Gianluca Cicinelli

365 è un libro che per parlarne va letto due volte, perché la prima diverte, strania, commuove. La seconda è necessaria per buttar giù pensieri concreti. Fortuna vuole sia lavoro che si legge facile, è agile, scritto come doveva essere scritto, forse anche meglio.

Giovanni Carbone

Da poco nelle librerie, 365 (Calamaro Edizioni di Bologna) è scritto a quattro mani, anche a due teste, dai giornalisti Daniele Barbieri e Gianluca Cicinelli. Per parlarne va letto due volte, perché la prima diverte, strania, commuove. La seconda è necessaria per buttar giù pensieri concreti. Fortuna vuole sia lavoro che si legge facile, è agile, scritto come doveva essere scritto, forse anche meglio. Sulla quarta di copertina c’è scritto che contiene il «70 per cento di verosimile follia, 2 per cento di fantascienza, 14 per cento di verità e 35 per cento di politica ribelle», aggiungerei anche una buona percentuale di jazz. Se i conti non tornano, – nemmeno ai due autori, per ammissione spontanea – c’è da farsene una ragione.

A primo acchito preoccupa che «365» inizi già bene e per certi libri non è sempre cosa buona. Si rischia di fare come un tremilasiepista che parte sparato ed a metà del percorso tira già il fiato coi denti, alla fine taglia il traguardo boccheggiante ed ultimo, se va bene. Invece questo non molla, non cede, rilancia sugli inseguitori con scatti imperiosi. Protagonisti sono Daniele Barbieri e Cicinelli in persona, si descrivono senza infingimenti. Giornalisti entrambi, il primo s’è fatto il ’68, il secondo il ’77. Si potrebbe dire che nessuno dei due abbia mai smesso davvero. Formidabili le diverse fisionomie convergenti del sessantottino, stralunato, visionario ed incazzato, e del settantasettino, pragmatico, operativo, incazzato. I lunghi soliloqui ce ne rendono perfetta l’identità, quella che arriva confusa ed imperscrutabile ai ligi tutori dell’ordine che li intercettano, o cercano di farlo, nell’incedere del racconto. Coerenti fino in fondo, non si sono né annacquati nemmeno hanno cercato scorciatoie, come giornalisti questo gli è valso un limbo di notorietà negate. Dunque, appare strano ad entrambi che Primum, – non Primus come si dovrebbe, per ragioni che non svelo – sbirro tra gli sbirri li convochi d’urgenza e non per il loro passato militante. Ancora più misteriosa la ragione per cui Il trio riceve in simultanea l’inquietante messaggio che annuncia un delitto da lì ad un anno. Chi lo manda, per assonanza alla minaccia, diverrà 365. Poi un indizio al mese. La necessaria collaborazione del trio c’è, ma fa acqua da tutte le parti, dura il tempo d’uno sbadiglio, poi è guerra aperta. Troppo lontani gli obiettivi. Lo stato è lo stato, al più vuole evitare di farsi ridere dietro per non aver evitato un omicidio telefonato. Poi è lo stesso stato che ha imprigionato Luigino Scricciolo, l’amico e compagno prigioniero per 7171 giorni prima del consueto «ci siamo sbagliati», senza il neppure formale scusate. A Scricciolo, vittima della ragion di quello stato, della necessità d’un colpevole purché sia, è dedicato il libro.

La storia conserva la struttura del giallo, talora con manifesti deragliamenti. È a trama fittissima, pure quando s’apre a fuochi d’artificio non si sfilaccia mai, segue una precisa logica che chi ha – anche solo per linee sghembe – conosciuto anni di repressione, di passione, di coerenze, d’utopie, decifrerà come impeccabile. L’ironia è una costante della narrazione, ma non è sottile, è rabbiosa, nota a margine d’una consapevolezza d’essere dentro un sistema malato, in cui è labilissima la possibilità di trovarvi tra gli interstizi «brave persone». Il fiuto e le modalità investigative dei due giornalisti sono lontane anni luce da quelle istituzionali. Loro indagano nelle proprie identità non rimosse, scavano dentro il loro passato e lo trovano nel presente, individuano in quello la risposta futura. Per dirla alla Nabokov, «il futuro è solo un obsoleto al contrario». I temi sono quelli, non se ne vanno, il reflusso dei movimenti, la loro storica sconfitta, non elimina le contraddizioni sistemiche contro cui si sono schierati, le amplifica anzi. Dentro il libro una cosa di Abbie Hoffman che chiarisce da sola, e meglio di qualsiasi recensione, il pensiero degli autori: «Certo eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati, eravamo sciocchi, ma avevamo ragione noi.»
Postfazione d’un tale U.E. Che sia lui?

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