Il tabù della fertilità

Perché parlare di fertilità è così difficile? Cominciamo a costruire i tempi, gli spazi e i modi per parlare anche di questo. Di fertilità, di desiderio, di maternità (e paternità) incompiute.

Ingrid Colanicchia

Dorothy Byrne ha 69 anni, già giornalista di spicco di Channel 4, è da poco diventata presidente del Murray Edwards College, uno dei due college esclusivamente femminili di Cambridge (sorvoliamo sul fatto che esistano college femminili…) e in tale veste è da giorni al centro di un fuoco incrociato. La sua colpa? Quella, secondo il Sunday Times che ha diffuso la notizia, di aver annunciato “lezioni di fertilità” per colmare una presunta ignoranza delle donne in materia, col conseguente rischio che ci si «dimentichi» di fare figli.

Tra chi ha levato la propria voce indignata c’è il British Pregnancy Advisory Service, che si occupa di accesso ai diritti riproduttivi, che ha sottolineato come le donne siano assolutamente consapevoli della propria finestra riproduttiva e che le ragioni per cui molte aspettano a lungo per fare figli risiedono più che altro in preoccupazioni di ordine economico: «Piuttosto che mettere continuamente in guardia rispetto ai rischi di una genitorialità avanzata – è il monito del British Pregnancy Advisory Service – sarebbe più produttivo spingere per politiche che consentano alle donne di conciliare lavoro retribuito e genitorialità».

Byrne, che ha avuto una figlia poco prima dei 45 anni grazie a un donatore di sperma, ha spiegato che non aveva in mente un vero e proprio ciclo di lezioni: la sua idea era quella di parlare apertamente della questione, così come di qualsiasi altra; insomma di creare un ambiente aperto alla discussione, anche in materia di fertilità. «Ho detto che era un tabù», ha commentato: «Non mi ero resa conto di quanto lo fosse».

In un articolo sul Daily Mail ha poi raccontato la genesi di questa idea. «A 42 anni, al termine di una relazione, ho capito che mi ero dimenticata di avere un bambino. E sono rimasta sorpresa nello scoprire che se avessi intrapreso il percorso due o tre anni prima, avrei avuto circa il doppio delle probabilità statistiche di rimanere incinta. Molte giovani donne potrebbero pensare di ricorrere alla fecondazione in vitro, ma non è il proiettile d’argento che tutti sembrano pensare che sia: l’età determina molto il tasso di successo». «Naturalmente – spiegava ancora Byrne – la maggior parte delle persone è a conoscenza del fatto che la fertilità diminuisce con l’età e alcune giovani donne dicono di essere infastidite dal bombardamento a suon di minacciosi avvertimenti sul loro orologio biologico. Tuttavia, c’è una grande differenza tra la comprensione generale della questione e la conoscenza specifica su cui una persona può agire. Molte non si rendono conto che c’è una differenza significativa tra il tentativo di rimanere incinta a 38-40 anni e tra 41 e 42. Non consiglierei mai a nessuno di fare un test di fertilità o addirittura di suggerirglielo. Ma dare alle persone l’opportunità di conoscere i fatti è importante».

Personalmente non penso che le donne si dimentichino di avere bambini, ma è da qualche tempo che penso, come Byrne, che il tema della fertilità sia un tabù.

A scanso di equivoci: sono femminista, non penso che la maternità sia un destino, non penso che la natalità/detanalità sia questione che si possa affrontare a livello nazionale, non disconosco il ruolo giocato in materia dagli ostacoli di natura economica.

Sgombrato il campo da tutto questo, credo che sia venuto il momento di dire una parola sulla fertilità, di nominarla, di riconoscere quanto è esclusa dal dibattito pubblico (e forse anche privato).

Il discorso più prossimo è rappresentato dalle domande di amici e parenti che cominciano a piombarti addosso arrivata a una certa età. Non ne parlano i ginecologi se non nella migliore (?) delle ipotesi quando è quasi troppo tardi, per dirti (a volte in malo modo) che è tempo di darsi una svegliata. Non se ne parla a scuola perché non si fa educazione sessuale e quindi non si tocca neanche questo argomento. Non se ne parla nei luoghi e negli spazi femministi, così come non si parla di maternità (due lodevoli eccezioni di questi ultimi tempi sono il numero “Maternità femministe” della storica rivista Dwf e il libro In fondo al desiderio. Dieci storie di procreazione assistita di Maddalena Vianello). E non se ne parla perché ci abbiamo messo così tanto a decostruire l’idea che la maternità sia un destino che ora dire (dirci, dirsi) che la si può desiderare sembra eretico.

L’ultima volta che nel nostro Paese l’argomento è stato oggetto di dibattito pubblico risale al 2016, alla campagna del Fertility Day lanciata dal Ministero della Salute. Era pessima, come all’epoca rimarcato da più parti. Ricordava tanto l’invito a fare figli per la Patria di mussoliniana memoria. Definiva la fertilità “bene comune”, negando dunque in qualche modo l’autodeterminazione sul proprio corpo. Parlava della sessualità come biologicamente destinata alla procreazione, delegittimando di fatto qualsiasi rapporto non finalizzato a questo scopo. Non considerava la libertà di non fare figli. Suscitò un tale vespaio di polemiche che la cosa finì lì, non ebbe alcun seguito.

E invece parliamone di questa fertilità e parliamone sia sottolineando i passi compiuti dalla scienza, che hanno ampliato le chance riproduttive, sia sottolineando che per tante donne ultraquarantenni che rimangono incinta di cui sentiamo parlare ce ne sono altrettante, molte di più, che invece non ci riescono né naturalmente né attraverso tecniche di fecondazione assistita. I numeri ci aiutano a delineare il quadro e portarli a conoscenza di tutti e tutte aiuta a compiere scelte consapevoli.

Secondo l’Istituto superiore di sanità, l’infertilità (cioè l’assenza di concepimento dopo 12/24 mesi di rapporti mirati non protetti) è un fenomeno in crescita che riguarda circa il 15-20% delle coppie, ed è determinato da diversi fattori. «L’infertilità riguarda in uguale misura sia gli uomini che le donne, ed anzi alcuni studi sottolineano la crescita dell’infertilità da fattore maschile. Inoltre, sono ormai sempre più numerosi gli studi che dimostrano un declino della fertilità maschile correlata all’età. Una prima riduzione della qualità dello sperma inizia già dopo i 35 anni (ed è significativa dopo i 40 anni) ed è correlata spesso a una maggiore incidenza di aborti spontanei, indipendentemente dall’età della donna. Gli studi più stringenti sono stati condotti sulle coppie infertili, ma anche le prime ricerche condotte sulla popolazione generale hanno dimostrato un aumento del tempo di attesa di una gravidanza nelle coppie in cui l’uomo ha più di 35 anni». Per quanto riguarda le donne, dal sito del Ministero della Salute apprendiamo che «la fertilità risulta massima tra i 20 e i 30 anni, subisce poi un primo calo significativo, anche se graduale, già intorno ai 32 anni e un secondo più rapido declino dopo i 37 anni, fino ad essere prossima allo zero negli anni che precedono la menopausa, che in genere si verifica intorno ai 50 anni».

E la fecondazione assistita? Non è purtroppo la panacea di tutti i mali. Fa, sì, nascere ogni anno in Italia circa 10 mila bambini ma la probabilità di ottenere una gravidanza per ciclo di trattamento è inversamente proporzionale all’età: i dati relativi al 2018, ci dicono che su cento cicli a fresco (FIVET/ICSI[1]) iniziati in pazienti con meno di 34 anni, sono state ottenute circa 22 gravidanze, mentre su cento cicli iniziati in pazienti con età maggiore di 43 anni, ne sono state ottenute circa cinque.

Cominciamo a costruire i tempi, gli spazi e i modi per parlare anche di questo. Di fertilità, di desiderio, di maternità (e paternità) incompiute.

 

[1] Si tratta di due tecniche di fecondazione assistita. La Fivet è la fecondazione in vitro con trasferimento di embrioni in utero; la Icsi è la fecondazione in vitro tramite iniezione di spermatozoo in citoplasma.



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