Il velo “lo vuole portare lei”

Indossare il velo islamico non è una scelta delle donne ma il risultato subdolo dell’affermazione patriarcale.

Maria Mantello

Coprirsi testa e volto era una necessità assoluta, sia per difendersi dalle tempeste di sabbia, sia per proteggersi dal sole rovente. E ancora oggi uomini e donne usano velarsi quando devono attraversare il deserto. È una necessità, come quella di coprirsi ad esempio con un cappuccio in caso di vento e pioggia battente. Gesti normali. Abbigliamenti consigliati o necessari, ma che non possono diventare obbligatori.

Non considereremmo infatti una violenza, una lesione della libertà personale se il cappuccio usato per la pioggia diventasse imposizione?  Per giunta solo per le donne. E reggerebbe l’argomento degli usi e dei costumi?
Forse qualcuno potrebbe dire che hijab, burka, chador – o come altro si vuole chiamare il velo islamico – sono le stesse donne a indossarli.
Ma dopo secoli e secoli che una tale abitudine è inculcata fin dall’infanzia ce la sentiamo onestamente di poter affermare che non è il risultato ancora più subdolo dell’affermazione patriarcale?

Forse qualcuno potrebbe dire che hijab, burka, chador -o come altro si vuole chiamare il velo islamico- sono le stesse donne a indossarli.

Ma dopo secoli e secoli che una tale abitudine è inculcata fin dall’infanzia, ce la sentiamo onestamente di poter affermare che non è il risultato ancora più subdolo dell’affermazione patriarcale?

Usi e costumi non sono eterni e non possono essere utilizzati come ipocrita accondiscendenza verso i paesi islamici, per il fatto che abbiamo con loro interessi commerciali. Paesi dove oggi c’è un grande fermento. Dove dittatori cadono. Dove le donne sono in prima linea per conquistare la loro libertà e autodeterminazione. E in questo vanno aiutate! E certamente l’argomento degli usi e dei costumi che legittima il velo dimenticando che è solo un elemento di tutta una legislazione teocratica che nega soprattutto alle donne pari opportunità e diritti, giova solo a ridefinire la loro sottomissione. Il velo, insomma, per usare una celebre definizione antropologica: è e resta una sorta di imene in faccia.

Gli stessi islamici secolarizzati tendono oggi a sottolineare che nel Corano non esiste alcun cenno a coprirsi capelli e/o volto. La Sura 24.31, che viene sbandierata dagli integralisti è solo un invito alla pudicizia «E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne.».

Anche i così detti libri sacri risentono del periodo in cui sono stati scritti, e questa Sura era scritta in un contesto in cui le nudità ci cominciavano a coprire. Quindi, più che a coprire capelli e volto essa invitava a non lasciare più il petto scoperto. Usanza questa che persisteva e che continua ad esserci ancora in tanti paesi africani.

Nei secoli tuttavia il velo è sempre più diventato simbolo d’identità della donna islamica. E per gli islamisti – fratelli musulmani, il pilastro centrale dell’Islam. Il baluardo per arginare attraverso il controllo patriarcale sulle donne modernità e secolarizzazione.

Allora, forse, a chi continua a parlare di uso del velo come scelta delle donne, dobbiamo dire che commette l’errore di applicare le categorie democratiche della scelta a situazioni e condizioni storiche dove la democrazia è tutta da conquistare. E ben lo sanno i ragazzi e le ragazze che contrastano a volto scoperto le tirannie islamiche dei loro paesi.

 

(credit foto Arnesen, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons)



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