Il Venezuela di Maduro vuole annettere la Guyana Esequiba

Cresce la tensione tra Venezuela e Guyana a seguito del referendum consultivo voluto da Maduro per annettere la terra contesa dell'Essequibo. Un cavallo di battaglia del populismo chavista riportata in auge a fasi alterne, in particolare nei momenti di crisi politica interna. Dietro la bassissima affluenza al voto, che ha sfiorato il 50% degli aventi diritto, si cela la fragilità del regime di Maduro.

Simone Careddu

Con il referendum consultivo per l’annessione della Guyana Esequiba, il Venezuela ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale una disputa secolare mai sopita, prima con l’impero britannico e poi con la Repubblica cooperativa di Guyana. Una rivendicazione territoriale che affonda le sue radici nel passato coloniale, e che è stata usata, a seconda delle necessità interne al regime autoritario, prima da Chavez e ora da Maduro, per infiammare lo spirito anti colonialista del popolo venezuelano. Nonostante Maduro abbia definito il referendum, che ha ottenuto circa il 95% dei voti a favore dei cinque quesiti, “una vittoria” che “appartiene a tutto il popolo venezuelano, senza discriminazioni o partigianerie”, in realtà la bassa affluenza (il 50% degli aventi diritto) cela le crepe di un governo sempre più impopolare e sempre più incapace di far fronte alla drammatica crisi socio-economica e all’alto tasso di emigrazione che si ripercuote su tutto il continente.

L’Essequibo: una terra contesa
Chi conosce l’America Latina sa che le dispute di frontiera come queste non sono eventi straordinari. Basti pensare che solo il 27% degli atttuali confini dei Paesi della regione risale all’epoca coloniale. Poi ci sono frontiere che sono state modificate e definite nel corso degli ultimi due secoli, o con la forza o per via diplomatica. E, infine, diversi contenziosi rimangono ancora irrisolti. Tra questi vi è proprio quello dell’Essequibo, tra Caracas e Georgetown. Si tratta di un territorio di 160 mila chilometri quadrati circa (i due terzi dell’attuale Guyana), ricco di risorse minerarie e di materie prime, che dispone di una biodiversità unica nel mondo. Un tempo terra degli aruachi,  dal XV secolo colonia spagnola, si trasformò in oggetto di contenzioso nel XIX secolo, quando la Gran Bretagna, che aveva acquistato dagli olandesi gli insediamenti dell’attuale Suriname e di un terzo dell’attuale Guyana, decise di spingersi oltre il confine orientale di quella che allora era la Grande Colombia. Con il dissolvimento dello Stato voluto dal libertador Simon Bolivar, e la seguente creazione della Repubblica del Venezuela, l’attività britannica oltre frontiera si intensificò perché, nella seconda metà del XIX secolo vennero scoperte alcune riserve aurifere. Fu da quel momento che il confronto tra la neo repubblica sudamericana e l’impero britannico si fece sempre più acceso. A poco è servito il lodo arbitrale del 1899, in cui il Venezuela era rappresentato dagli USA. Quello che Caracas accetta è l’accordo siglato a Ginevra nel 1966 che, in sostanza, riconosce la disputa territoriale e invita le due parti, Venezuela e Gran Bretagna, poi sostituita nella controversia dalla neonata Repubblica cooperativa di Guyana, ad affrontare la questione in maniera pacifica e diplomatica per il raggiungimento di un’intesa. Il referendum non è andato in questa direzione, anche perché si è trattato di una consultazione unilaterale, senza richiedere il parere di chi vive in quel territorio. Parliamo di 125 mila persone. Circa 20 mila sono venezuelani migranti in cerca di un futuro migliore. Molti sono soddisfatti della scelta fatta, perché ora hanno un lavoro e possono sostenere le famiglie. La maggior parte delle persone che abitano questa terra appartiene ai popoli originari. Si muovono nella selva quasi inesplorata e fanno spesso spola tra Guyana e Venezuela. Una cosa è certa: la loro lingua dominante, anche di quelle comunità indigene che vivono oltre il confine, nello Stato venezuelano del Bolivar, è l’inglese. E rispetto al contenzioso, come riportava qualche anno fa Global Voices, loro non vedono “alcun senso in questo problema. Le persone che sono rimaste lì e quelle che sono rimaste qui si sono visitate a vicenda”. E la maggior parte di questi, anche se accedono ai servizi venezuelani, come i servizi ospedalieri, si auto-identificano come guyanesi o semplicemente come amerindi. Inoltre, in un reportage pubblicato da ElPais, sono stati intervistati alcuni leader indegini, i quali hanno espresso la loro opinione rispetto alla disputa. “Nessuno è preparato per questa annessione e nessuno ci ha informato”, afferma (rigorosamente in inglese) Micheal Williams, leader della comunità Toshao. “Stiamo pregando, sperando che tutto questo sia una menzogna. Perché noi non siamo gente che crea problemi. Vogliamo continuare a vivere una vita pacifica in questa nostra terra magnifica”, sottolinea una donna del luogo. Persone che temono per il loro futuro, per i loro usi e costumi. Insomma, un’eventuale annessione da parte del Venezuela viene vista con molta preoccupazione perché minaccia la loro libertà e la loro identità.

Guyana Esequiba: il cavallo di battaglia (a fasi alterne) del populismo chavista
La rivendicazione territoriale venezuelana, sostenuta da una serie di documenti d’archivio, ha la capacità di risvegliare il sentimento patriottico e anti-colonialista del popolo. Dalle scuole primarie i bambini e le bambine apprendono che la Guyana Esequiba è venezuelana, usurpata dalla Gran Bretagna in combutta con il nemico yankee. Questo il chavismo lo sa bene: Hugo Chavez prima e Nicolas Maduro poi, hanno utilizzato, a fasi alterne, la disputa territoriale con la Guyana  per compattare intorno alle loro figure carismatiche il popolo venezuelano. Hugo Chávez, durante i suoi primi anni di mandato, non mancò occasione per rivendicare l’Essequibo e protestare ogni volta che la Guyana violava unilateralmente l’Accordo di Ginevra. Ma quando nei primi anni Duemila il Venezuela – grazie alla congiuntura internazionale favorevole e all’aumento dei prezzi delle materie prime – cominciò a sperimentare una forte crescita economica, la situazione cambiò. Chávez divenne il punto di riferimento della sinistra latinoamericana e ammorbidì le sue posizioni sulla Guyana Esequiba. Il suo obiettivo era quello di esercitare un ruolo egemonico nella regione e ottenere il sostegno dei Paesi anglofoni caraibici riuniti negli organismi regionali, come CARICOM (Comunità Caraibica) e ALBA (Alleanza Bolivariana per le Americhe) e successivamente puntare a un seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Un esempio lampante di questo cambio di atteggiamento è dimostrato da un visita ufficiale di Chávez a Georgetown nel 2004, in cui affermò che il governo venezuelano non avrebbe ostacolato “nessun progetto da condurre nell’Essequibo” e che la disputa territoriale sarebbe stata “rimossa dal quadro delle relazioni sociali, politiche ed economiche dei due Paesi”. Questa decisione di Chávez viene ora utilizzata dalla Guyana come acquiescenza alle cause legali per dimostrare la decisione dello Stato venezuelano di abbandonare la storica rivendicazione. Tuttavia, negli ultimi anni il Venezuela, guidato da Nicolas Maduro, è tornato alla ribalta. Soprattutto da quando (2015) nelle acque territoriali dell’Essequibo sono stati scoperti, grazie alle attività esplorative della compagnia petrolifera statunitense Exxon Mobil, imponenti giacimenti di petrolio. Da quel momento, la piccola repubblica che affaccia sull’oceano Atlantico è diventata in poco tempo uno dei Paesi a più rapida crescita al mondo: il suo PIL è aumentato del 57,8% nel 2022 e si prevede che crescerà di oltre il 20% quest’anno. Il reddito pro capite della Guyana è triplicato dal 2019 grazie allo sfruttamento del petrolio. Nicolas Maduro ha più volte ribadito che la classe dirigente del suo vicino “è al soldo di Exxon Mobil”. Una musica che fa parte del classico spartito madurista, sempre utile a distogliere l’attenzione dagli altri problemi. Anche dalle colonne de El Universal, quotidiano storico venezuelano, si pensa che le negoziazioni per la Guyana Esequiba, debbano essere condotte da Caracas direttamente con “Exxon Mobil e Chevron” affinché “Guyana e Venezuela raggiungano un accordo sull’Essequibo vantaggioso per tutti”. Davanti alle minacce venezuelane di invadere militarmente l’Essequibo e timorosi di perdere l’oro nero e gran parte del suo territorio, prima David Arthur Granger e poi Irfaan Ali, rispettivamente ex Presidente e presidente della Repubblica di Guyana, hanno fatto appello alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) al fine di risolvere definitivamente la questione della proprietà dell’Essequibo. L’organo giudiziario dell’ONU ha ammesso il caso e le argomentazioni della Guyana e si è pronunciato negativamente anche contro questo referendum. Secondo Sucre, editorialista de El Universal, non bisogna aspettarsi molto dalla Corte dell’Aia e non sarà utile per Caracas metterla sul piano legale, perché in realtà “Exxon e la compagnia petrolifera cinese hanno investito ingenti quantità di dollari sull’Essequibo, senza attendere la decisione della CIG”, la quale “ha già preso una decisione”. L’obiettivo, dunque, è quello di fare pressione mediatica per “far conoscere il caso all’opinione pubblica internazionale”. Ma a prescindere dalla strategia, la domanda che sorge spontanea è: ma perché il Venezuela, o meglio, Maduro, ha deciso soltanto adesso di celebrare un referendum? Perché non è stato indetto all’epoca delle grandi scoperte dei giacimenti petroliferi? Difficile pensare, come sosteneva qualche giorno fa Caracciolo su Repubblica, che dietro il referendum indetto da Maduro ci sia una “strategia antiamericana della Russia”. Ora, lo stesso direttore di Limes afferma che non ci sono “prove di un diretto intervento russo”. Ma solo tentare di immaginarlo vorrebbe dire per Caracas mettere a rischio i negoziati che sta conducendo con Washington per eliminare quelle sanzioni che esacerbano ulteriormente la crisi economica del Paese.

Oscurare l’opposizione (ove ce ne fosse bisogno)
Piuttosto, guardando all’interno del perimetro venezuelano, si può notare una perdita progressiva di popolarità del regime, e la tornata referendaria ne è stato un esempio. C’è un’opposizione interdetta dal Tribunal Supremo de Justicia (TSJ) a partecipare alla competizione elettorale, ma viva. Un’opposizione che unita ha scelto la leader che virtualmente parteciperà alle elezioni presidenziali del 2024: la conservatrice Maria Corina Machado. Virtualmente perché non si sa se il Tribunal Supremo de Justicia, totalmente controllato dal regime, le permetterà di partecipare alle elezioni, né se queste elezioni si terranno effettivamente nel 2024, come è stato accordato dal Regime e i leader d’opposizione lo scorso ottobre. Proprio sulla base di tale stipula che Washington ha promesso un allentamento delle sanzioni. E questa è una buona notizia per il Venezuela. Ma quello che preoccupa Maduro, più che altro, è che questo genere di rivendicazioni territoriali, abbandonate da Chavez, sono state lo strumento principale proprio della leader dell’opposizione per attaccare l’oficialismo chavista. Anche se, da quando è partita la campagna elettorale, Machado si è più volte espressa contro il referendum. Uno dei principali oppositori antichavisti ha affermato che “con l’esaltazione del patriottismo, il regime cercherà di sollevare qualche punto percentuale (nei sondaggi), distogliendo l’attenzione dai problemi reali”. Tanto il referendum, come la disputa territoriale, non servono tanto in funzione anti-americana o necessariamente per accaparrarsi ingenti risorse minerarie, ma servono a Maduro soprattutto per oscurare l’opposizione, monopolizzando il dibattito pubblico, ove ce ne fosse bisogno, per misurare la capacità di mobilitazione della militanza.

Escalation militare o distensione?
Nella sede presidenziale, a Palacio Miraflores, sembrano fare sul serio. L’8 dicembre sono stati firmati 6 decreti per recuperare il territorio dell’Essequibo, tra cui quello di ufficializzare la creazione di una struttura amministrativa dello Stato venezuelano denominato Guyana Esequiba. Inoltre, si sono registrate manovre preventive da una parte e dall’altra: Ali ha denunciato lo schieramento di militari della repubblica bolivariana al confine e, di contro, Maduro ha fatto sapere che il Comando Sur degli USA si muove all’interno di Georgetown, pronto ad intervenire contro Caracas. Mosca, Londra, Washington e Brasilia hanno invitato le parti ad allentare le tensioni. Nel frattempo, venerdì scorso, su richiesta del ministro degli Esteri della Guyana, Hugh Hilton Todd, si è riunito a porte chiuse il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, senza però prendere una posizione pubblica. Tuttavia, fonti diplomatiche hanno fatto sapere che i 15 membri del Consiglio hanno sottolineato l’importanza di rispettare la sovranità e l’integrità territoriale. Segnali positivi si intravedono grazie all’opera mediatrice di Lula che, insieme a CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici) e CARICOM, hanno organizzato un incontro tra Maduro e Ali il prossimo 14 dicembre a Saint Vincent e Grenadine. L’obiettivo, come recita il comunicato firmato dal primo ministro della piccola isola caraibica e ora presidente di turno della CARICOM, Ralph Gonsalves, è quello di “attenuare il conflitto e di istituire un dialogo appropriato, faccia a faccia, tra i presidenti di Guyana e Venezuela”. Servirebbe una palla di vetro per capire se tutto questo sfocerà in un’escalation militare o se si ricomporrà la frattura. Considerata l’imprevedibilità in questi casi (la guerra delle Malvinas insegna), nulla si può dare per scontato.
CREDITI FOTO: ANSA / Rayner Pena R



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