Immigrati, la guerra di ogni giorno

Sanatoria, conflitto russo-ucraino, cittadinanza: lo sciopero delle persone immigrate tra irregolarità e invisibilità.

Andrea Ruben Pomella

In alcune città italiane – Roma, Foggia, Modena, Milano, Torino – il 31 marzo si è tenuto lo sciopero delle persone immigrate. L’occhio rivolto verso la guerra in Ucraina ha, a torto o a ragione, distolto l’attenzione mediatica dalle sofferenze interne, solo acuite dall’esplosione della pandemia due anni fa e dalla guerra oggi. Nel maggio del 2020 in piena emergenza sanitaria – il cui impatto sui e sulle migranti in Italia è ancora largamente sconosciuto – il governo Conte bis approvava un decreto di emersione del lavoro nero per due categorie: il lavoro di cura e quello agricolo. Dietro il pagamento di 500€ e la compilazione di un modulo nelle questure, si poteva regolarizzare la posizione giuridica del o della lavoratrice. Quasi un favore per tutti quei datori di lavoro che invece di incorrere in sanzioni anche penali per l’assunzione senza contratto dei propri dipendenti, avrebbero potuto pagare una cifra modesta e rientrare nei parametri della legalità. Si dice che i coccodrilli piangano mentre mangiano, per una sorta di rimorso verso la propria preda, e pare sia così che ha preso vita l’espressione “lacrime di coccodrillo”. Le ragioni scientifiche risiedono ovviamente altrove, in un complesso sistema fisiologico di lubrificazione ed espulsione dei sali. E tuttavia come potrebbero essere definite le lacrime versate dalla ministra delle politiche agricole Teresa Bellanova durante la presentazione del decreto, che tanto hanno ricordato quelle piante in un’altra occasione, da Elsa Fornero, ministra del lavoro durante il governo tecnico Monti, che nel 2012 progettò una riforma pensionistica i cui effetti di impoverimento perdureranno per chissà quanto tempo ancora. Ciò nonostante pare che il lavoro «nero» frutti degli utili più allettanti per il mondo delle imprese e rappresenti un regime comprovato di economicizzazione per i singoli datori di lavoro a danno dei diritti dei dipendenti. Non solo le testimonianze dirette di chi ha provato ad accedere alla cosiddetta sanatoria del 2020 hanno denunciato il pagamento da parte dei e delle lavoratrici della “quota” di emersione, ma anche forme di vera e propria segregazione soprattutto nel mondo delle «colf» e delle «badanti», da questo momento in poi, dietro la retorica del «lavoro essenziale», chiamate ipocritamente «caregivers». Se la sanatoria ha avuto una qualche forma di efficacia ce lo mostrano i dati pubblicati dall’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione: a gennaio 2022 delle oltre 240mila domande presentate, solo il 13% dei richiedenti ha ottenuto il permesso di soggiorno.


Video di Lorenzo Boffa

«È giusto parlare della guerra in Ucraina», si è detto da piazza dell’Esquilino a Roma, «ma è giusto anche parlare della guerra che lo stato italiano porta avanti ogni giorno sulle persone immigrate» attraverso gli innumerevoli ostacoli per l’ottenimento o il rinnovo del permesso di soggiorno. Razzismo istituzionale lo hanno chiamato. Figli e figlie di uomini e donne immigrate da trent’anni che pur essendo nati e cresciuti, laureati, in Italia non hanno cittadinanza, costretti anche loro al circolo infernale iniziato con la legge Bossi-Fini, che vincola la regolarità sul territorio al possesso di un contratto di lavoro e di una residenza – spesso ottenuta solo grazie al pagamento di migliaia di euro sotto ricatto del proprietario di casa. E viceversa. Senza un regolare documento di soggiorno come si ottengono contratto di lavoro e residenza? Il risultato conseguente pare non essere altro che l’informalità lavorativa e abitativa. Per quanto possa in un primo momento sembrare un controsenso, così come denunciano da vent’anni le e i migranti, si è di fronte a un impianto normativo che produce quella stessa clandestinità demonizzata nell’opinione pubblica e nel mondo della politica. Ma questa condizione determina anche un impedimento materiale che rende impossibile godere dei più basilari diritti dell’essere umano, come la sanità. Una condizione ancora più grave oggi, in uno scenario in cui la pandemia è diventata contesto e persiste nelle vite delle persone, per quanto adesso latitante dai principali circuiti mediatici. Proprio la guerra in Ucraina e la drammatica fuga dal paese di milioni di rifugiati ha mostrato, con tutta la sua crudeltà, il doppio standard europeo e occidentale nell’affrontare la questione dell’accoglienza. Non solo le notizie dei respingimenti sulla frontiera polacca di studenti, lavoratori o richiedenti asilo neri presenti in territorio ucraino; ma anche le storie di privazione della libertà come chi di loro è stato imprigionato nei centri di detenzione europea per immigrati.

Dallo scoppio della guerra, è stato raccontato all’Esquilino, nelle questure di Roma si pratica una netta discriminazione tra le pratiche di soggiorno, perché «loro non sono negri come noi». E in effetti la postura del mondo dell’informazione e della politica, delle imprese e dell’istruzione è stata prona a qualsiasi giusta iniziativa di solidarietà e assistenza nei confronti dei rifugiati ucraini. Ma dove risiede la differenza tra ciò che sta accadendo in Ucraina e quello che è successo e continua a succedere in altre parti del mondo, come l’ex-Jugoslavia, il Kosovo, l’Afghanistan, l’Iraq, la Somalia, la Libia, la Siria, lo Yemen, nella tragicità di essere costretti ad abbandonare il proprio paese o di vivere sotto le bombe e disimparare la parola futuro? O di abbandonare terre desertificate dal progressivo surriscaldamento globale, innescato, come mostrano decine di ricerche, dall’industrializzazione capitalistica occidentale e dall’agricoltura intensiva delle sue multinazionali? Perché non si è fatto lo stesso? In Europa l’establishment, a prescindere da dove si collochi nello spettro politico, sembra pensarla come il segretario della Lega Nord Matteo Salvini: esistono profughi veri e profughi falsi. Quale sarebbe altrimenti la ragione per non aver applicato anche a tutte le altre persone, poi inserite nel circuito della protezione internazionale o della richiesta d’asilo, la Direttiva 2001/55/CE – pensata per i profughi kosovari in fuga dalle bombe della NATO e mai applicata – che garantisce una regolarizzazione fino a due anni a persone in fuga da guerra o da violenze e violazioni dei diritti umani? Il nesso che può condurre a una risposta si condensa in un filo di una trama, in una linea del colore per dirla con l’intellettuale afroamericano W.E.B. Du Bois. Essere sotto la linea nera del colore della pelle definisce un insieme di esistenze lacerate e di privazioni a cui le persone immigrate sono destinate nella loro vita europea; è questo ciò che hanno testimoniato la presenza e le voci di chi ha preso il microfono messo a disposizione dal presidio. Le richieste delle piazze organizzate di un incontro, in un primo momento ottenuto, con il ministero dell’Interno e con le prefetture per rivendicare lo sblocco delle domande della sanatoria, la regolarizzazione di chi non ha il permesso di soggiorno, l’accesso alla cittadinanza e la cancellazione del legame fra contratto di lavoro e permesso di soggiorno e della residenza come requisito di rinnovo sono state infine disattese. Incontro rimandato alla settimana prossima. Quanto deve aspettare una vita per essere vissuta dignitosamente?

 

(credit foto Emanuela Rescigno)



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