L’arbitrio dell’impero contro la legalità internazionale

Le immagini del precipitoso ritiro americano dall’Afghanistan hanno suggellato il totale fallimento della politica estera statunitense degli ultimi due decenni. E non solo perché i risultati della “guerra al terrorismo” sono stati Paesi devastati, milioni di profughi e reti terroristiche rafforzate. Ma anche perché i metodi usati dagli Usa (basti pensare ad Abu Ghraib) hanno inflitto un colpo durissimo al nucleo di valori attorno a cui la comunità internazionale aveva faticosamente lavorato dopo la devastazione delle due guerre mondiali: la difesa dei diritti umani e dello Stato di diritto.

Bernd Greiner

Quando un giorno si discuterà sulla classificazione storica dell’11 settembre 2001, questa data sarà probabilmente considerata come la vera fine del secolo americano. Che di questo si tratti è infatti drammaticamente dimostrato dalle immagini della devastante sconfitta subita in Afghanistan dagli Stati Uniti e dalla “coalizione contro il terrore” da essi forgiata.

Gli Stati Uniti iniziarono a diventare una forza globale dominante con l’ingresso nella prima guerra mondiale, ma fu solo dopo la fine della seconda che lo divennero pienamente. E quando la guerra fredda finì, con l’implosione dell’Unione Sovietica, si aprì una finestra poi durata circa un decennio che si sarebbe potuto sfruttare per la costruzione di un nuovo ordine mondiale cooperativo. Un’opportunità andata sprecata, non ultimo anche con la risposta degli Stati Uniti ai mostruosi attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.

Tutto ebbe inizio con una decisione non negoziabile del gabinetto di crisi del presidente George W. Bush, che escluse immediatamente un’operazione coordinata tra i servizi segreti e la polizia per la cattura degli autori e dei mandanti dell’11 settembre: la via era la guerra. E questo nonostante il fatto che l’Afghanistan non avesse attaccato gli Usa.

Bush ottenne dal Congresso l’autorizzazione ad agire contro qualsiasi nazione, organizzazione o persona che egli ritenesse avere qualcosa a che fare con il terrorismo: carta bianca per una guerra di durata indefinita. «Da oggi in poi», annunciò Bush a entrambe le camere del Congresso il 20 settembre 2001, «gli Stati Uniti tratteranno come nemica qualsiasi nazione che continui a dare rifugio o a sostenere i terroristi. […] La nostra guerra al terrorismo inizia con al-Qaida, ma non finisce lì. Non si fermerà finché ogni gruppo terroristico di portata globale non sarà trovato, fermato e sconfitto» 1. I discorsi pubblici così come i documenti interni erano permeati dal fantasma di una vittoria finale sul male, ma anche dall’intuizione pubblicamente negata del fatto che i soldati brandiscono contro i terroristi un’arma spuntata e che neanche lo Stato più potente può sostenere alla lunga una guerra senza fronti su tutti i confini. Ma, si sa, chi come attrezzo di lavoro non conosce altro che il martello vede un chiodo in ogni problema.

L’Afghanistan era già da tempo un Paese devastato quando gli Stati Uniti vi lanciarono la loro “guerra al terrore” il 7 ottobre 2001. Dieci anni di occupazione da parte delle truppe sovietiche e il successivo regno del terrore dei talebani avevano lasciato solo rovine. Migliaia di persone morivano ogni mese per influenza, morbillo o diarrea, in nessun altro luogo la mortalità infantile era più alta, l’aspettativa di vita per donne e uomini era rispettivamente di 44 e 45 anni. Come se non bastasse, il Paese era alle prese con una siccità estrema. Il 70% del bestiame era morto e metà della terra coltivabile non era più utilizzabile: per questo più di tre milioni di afghani avevano lasciato le loro case, il più grande gruppo di rifugiati al mondo. Altri 800 mila si spostavano internamente da un posto all’altro in cerca di cibo e riparo. Gruppi armati fra di loro ostili si erano divisi il territorio, creando in qualche modo un ordine alternativo a quello dello Stato. Da un lato, c’erano i talebani, che potevano contare su circa 45 mila combattenti afghani ed erano inoltre sostenuti da circa 15 mila jihadisti provenienti dal Pakistan, dall’Uzbekistan e da diversi Paesi arabi; dall’altro, c’era una coalizione fluida di “signori della guerra” per i quali il conflitto era diventato una ragione di vita perché di esso si nutrivano. L’Afghanistan era sceso al livello dei più poveri Paesi dell’Africa, uno Stato senza più un ordine statale. Ecco perché il giornalista pakistano Ahmed Rashid, uno dei maggiori esperti della regione, parlò della «più grave catastrofe umanitaria del mondo» 2. Il fatto che il Paese dopo 20 anni di occupazione occidentale abbia lasciato il fondo della classifica della povertà globale non è dovuto tanto all’impegno della coalizione di guerra, quanto piuttosto alla devastazione che galoppa altrove, prima di tutto in Stati come il Mali o lo Yemen.

Per quanto riguarda il bilancio della guerra al terrore nella zona dell’Hindu Kush, diverse commissioni d’inchiesta sono presto arrivate a una conclusione unanime: è stato un fallimento storico, che ha spianato la strada verso successivi disastri. Questa la valutazione di una commissione voluta dal governo norvegese 3, nonché di investigatori speciali nominati dal Congresso degli Stati Uniti nel 2008, che per dieci anni, fino al 2018, hanno condotto più di 400 interviste con i vertici militari responsabili di quella missione. Un impiegato del Consiglio di sicurezza nazionale ha dichiarato: «Non avevamo idea di cosa ne sarebbe venuto fuori alla fine. Noi abbiamo portato avanti i nostri piani, ma le cose sul terreno sono cambiate. Abbiamo risolto alcuni problemi senza sapere cosa volevamo ottenere a lungo termine» 4.
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CREDIT FOTO EPA/Jack Holt /


1 George W. Bush, cit. in The 9/11 Commission Report, W. Norton & Company, 2004, p. 337, www.9-11commission.gov.

2 Ahmed Rashid, Descent into Chaos. How the War against Islamic Extremism is Being Lost in Pakistan, Afghanistan and Central Asia, Viking, 2008, p. 19 [tr. it. di Bruno Amato, Caos Asia. Il fallimento occidentale nella polveriera del mondo, Feltrinelli, 2008].

3 Ministero degli Affari esteri e Ministero della Difesa norvegesi, A Good Ally: Norway in Afghanistan, 2001-2014 (Official Norwegian Reports NOU 2016/8, noto come “Godal Report”), bit.ly/2YMykXO.

4 Cit. in: Congressional Research Service, “The Washington Post’s ‘Afghanistan Papers’ and U.S. Policy: Main Points and Possible Questions for Congress”, 28 gennaio 2020, p. 4, bit.ly/2ZGJQV5.


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