In economia conta più la fede che la scienza

Un saggio di Mauro Gallegati, “Il mercato rende liberi – e altre bugie del neoliberismo”, distrugge la credibilità dei modelli che guidano da anni le politiche economiche, credibilità peraltro già messa ampiamente in dubbio dai risultati. E indica una nuova strada.

Carlo Clericetti

Quando leggiamo sui giornali che l’anno prossimo il Pil aumenterà del tot per cento, l’occupazione andrà in un certo modo, i soldi del Recovery Fund avranno quel dato effetto sulla crescita, stiamo esaminando i risultati di calcoli economici di grande complessità. Per farli le varie istituzioni – ministeri, banche centrali, enti sovranazionali come il Fondo monetario, istituti di previsione – dispongono di modelli che fanno interagire i vari fattori tramite equazioni e funzioni matematiche.

Tutto molto scientifico, sembrerebbe. E infatti una buona parte degli economisti sostiene che l’economia è una scienza come lo sono la fisica e la chimica. Però, se davvero è così, come mai i risultati di queste elaboratissime procedure sono molto spesso sbagliati, e varie volte clamorosamente sbagliati?

Una spiegazione la fornisce Mauro Gallegati con il suo libro “Il mercato rende liberi”, dove più del titolo è importante il sottotitolo: “e altre bugie del neoliberismo” (ed. Luiss), con prefazione di Francesco Saraceno. Il concetto di base è che l’economia è una scienza sociale. Qual è la differenza? Per capirlo basta una frase del fisico Gell-Mann, citata da Gallegati: “Come sarebbe difficile la fisica se gli atomi potessero pensare”. Ecco, gli “atomi” di cui si occupa l’economia, a differenza di quelli della fisica, possono pensare, perché sono gli esseri umani.

Questo comporta una serie di conseguenze. Gli esseri umani imparano dall’esperienza ma hanno informazioni incomplete e spesso le usano male, cioè sbagliano; interagiscono e reagiscono, e questo fa sì che un comportamento collettivo non è semplicemente la somma di tanti comportamenti individuali, ma qualcosa di diverso. In altre parole, l’interazione fra essere umani implica un sistema non lineare. Un sistema lineare è quello in cui, se l’aggregato si spezzetta in varie componenti, le caratteristiche non cambiano, ossia ogni parte possiede le stesse caratteristiche della loro somma. “Se invece ci sono elementi che dipendono gli uni dagli altri – scrive Gallegati – allora il tutto è diverso dalle parti e compaiono caratteristiche che non appartengono a nessuno degli elementi costituenti”.

Che cosa c’entra questo discorso con i modelli dell’economia? C’entra perché quasi tutti quelli in uso sono costruiti come se l’economia fosse un sistema lineare. Non solo: si basano su assiomi relativi al comportamento umano – ossia su presupposti – e non tengono conto della complessità generata dalle interazioni. Le basi teoriche di questi modelli risalgono nientemeno che all’ultimo ventennio del 1800. Fu allora che alcuni autori – Jevons, Menger, Walras e poi Pareto – fecero nascere l’economia matematica, col proposto, come affermò Pareto di “disinquinare la scienza economica da politica e filosofia”. Non ricorda, questa frase, quello che si afferma anche oggi quando si dice che l’economia è bene che sia gestita da tecnici e non da politici?

Queste costruzioni, dunque, trattano gli uomini come se fossero atomi, e si propongono di individuare le condizioni in cui l’economia raggiunge il suo equilibrio. Nonostante le successive elaborazioni che rendono i modelli sempre più complessi, una serie di assunti di base restano gli stessi. Sono proprio quegli assunti che Gallegati analizza, smontando i modelli e mostrando come la loro costruzione manchi di logica. E, anzi, ricorda come spesso siano proprio gli economisti di quegli orientamenti a individuare (o ad ammettere, come dopo la nota “controversia tra le due Cambridge”) le debolezze dei loro sistemi, che però continuano ad utilizzare: “Per ragioni di fede – scrive Gallegati – in attesa di verifiche empiriche che confinino la critica a casi marginali e irrilevanti”.

Questo atteggiamento non è senza conseguenze sulle politiche economiche. Per esempio, “Quanti raccomandano che, in presenza di disoccupati, si deve ridurre il costo del lavoro, cioè i salari, lo sostengono senza una base analitica di supporto, con dosi abbondanti di ‘nasometria’ spacciata per scienza”.

E ancora: “L’economia studia sistemi complessi evoluzionistici di tipo adattativo. L’adattamento all’ambiente si riflette nella tendenza verso l’equilibrio ma, in economia, l’ambiente si evolve, cambia continuamente e abbiamo pertanto bisogno di nuovi strumenti rispetto a quelli della fisica classica: leggi della dinamica quantistica e le proprietà caotiche delle dinamiche non lineari e ABM” (Agent Based Model). Gli economisti del pensiero dominante usano invece, appunto, la matematica della fisica newtoniana, che anche la fisica moderna ha superato. “L’impiego della matematica fornisce all’economia autorevolezza e si è trasformata in una (presunta e pretestuosa) oggettività che dimentica come gli assiomi – le ipotesi di base – condizionino fortemente i risultati ottenuti e che questi siano frutto di condizionamenti ideologici. (…) E quando la realtà economica non ubbidisce più alle inverosimili ipotesi del mainstream si tratta la questione come se fosse un rompicapo, un puzzle, e non una falsificazione della teoria. A quel punto, perché non usare auspici e tarocchi? Inseguendo i formalismi matematici, si sta perdendo di vista la realtà. (…) La matematica che doveva decretare il successo dell’economia, non più una disciplina letteraria ma una scienza, l’ha sepolta”.

Insomma, l’analisi di Gallegati distrugge la credibilità dei modelli cosiddetti “di equilibrio generale”, le cui formulazioni più diffuse sono la AD (Arrow-Debreu) e DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium). Preoccupa un po’ il fatto che tanto il nostro ministero dell’Economia che la Banca d’Italia utilizzino appunto modelli DSGE.

Bisognerebbe voltare pagina, e concentrare le energie sul perfezionamento di un altro tipo di modello, l’ABM (Agent Based Model), che applica metodologie ampiamente diffuse nella fisica moderna, e la cui prima elaborazione si deve nientemeno che a Enrico Fermi. In Italia alcune università ci stanno lavorando, i risultati sono buoni e infatti anche a livello internazionale c’è un crescente interesse. Le politiche economiche degli ultimi anni, ispirate dal paradigma dominante, hanno aumentato a dismisura le diseguaglianze senza favorire la crescita, che non è migliorata rispetto al trentennio precedente. Solo gli interessi costituiti impediscono che questo paradigma venga abbandonato. Fino a quando?

 

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