In ricordo di Boris Pahor

È morto ieri all’età di 109 anni Boris Pahor, il maggiore scrittore sloveno di cittadinanza italiana. Autore di una trentina di titoli tradotti in più di dieci lingue, ha dato voce all’esperienza della deportazione politica vissuta nei lager nazisti nel suo capolavoro Necropoli (Fazi, 2008). Lo ricordiamo con due testi pubblicati negli scorsi anni su MicroMega: nel primo, tratto dal numero 5/2013, Pahor racconta il suo percorso di allontanamento da Dio, nel secondo, tratto dal numero 3/2015, racconta la resistenza slovena.

Boris Pahor

È NEL LAGER CHE HO ABBANDONATO DIO
di Boris Pahor (da MicroMega 5/2013)

Per poter esprimere appieno il mio pensiero sulla religione – sono religioso ma non credente – devo necessariamente prenderla alla larga e fare, diciamo così, una sorta di prefazione sugli anni giovanili funestati dal fascismo banditesco, anarchico, distruttivo che qualcuno ha giustamente chiamato antislavo. Prima di affermarsi come forza governativa, il fascismo si manifestò infatti in tutta la sua intolleranza nella Venezia Giulia, dove diede sfogo al suo sciovinismo, incendiando le Case di cultura slovene e croate in Istria, distruggendo biblioteche e uffici. E diffondendo un’atmosfera di terrore anarcoide, fino ad arrivare a sparare nelle chiese dove il sacerdote pronunciava il sermone in sloveno. Ma più di tutto fui segnato dall’impossibilità di apprendere e studiare nella mia lingua madre, lo sloveno, che fino ai primi anni di scuola elementare, sotto l’impero austroungarico, era cosa possibile. Fu come, riprendendo il titolo del libro dell’amico Sergio Salvi Le lingue tagliate, se fossi stato privato della mia lingua e costretto a usarne un’altra. A causa di questa violenza subita, d’un tratto mi tramutai in un pessimo studente, non certo perché non comprendessi le lezioni, ma per un senso di abulia, dovuta in parte a distrazione, in parte a indifferenza per ciò che mi veniva insegnato in un idioma per me straniero.

Fu così che mia madre, che era una donna molto pia, ascoltò un’amica che consigliava di mandarmi in seminario per farmi prendere la maturità. Se allora avessi avuto accanto a me una persona saggia che avesse saputo cogliere lo stato di confusione in cui mi trovavo, o se fosse stato di moda l’uso di ricorrere a uno psicologo, in questo caso necessariamente sloveno, avrei risolto questo mio nodo interiore, che solo due amici del seminario che si trovavano nelle mie stesse condizioni riuscirono a spiegarmi. Mi spronarono a studiare in italiano solo in vista dell’obiettivo di arrivare alla promozione, tanto il fascismo non sarebbe durato in eterno. Ma allo stesso tempo mi svelarono il modo per restare fedeli alla propria identità: studiare la lingua, leggere di nascosto, frequentare corsi clandestini in montagna, mentre già esisteva un’organizzazione antifascista capillare, forte di circa cinquemila membri e diffusa in tutto il territorio.

Grazie a questo convincimento interiore divenni uno studente modello, e mi persuasi che il seminario era il posto migliore, visto che era uno dei pochissimi luoghi in cui potevamo di nascosto conservare la lingua materna, pregando e cantando in sloveno con i nostri sacerdoti, visto che la dittatura fascista aveva abolito ogni possibilità di creare nostre istituzioni o organizzazioni,

Nonostante queste considerazioni cominciai ad accorgermi che lo studio della teologia mi allontanava dalla vita normale, che non avevo modo di conoscere, il che mi si rivelava attraverso la lettura di opere letterarie classiche slovene che di tanto in tanto riuscivo ad avere in prestito. Non era facile arrivarne in possesso, perché bisognava fare loro passare la frontiera di nascosto, come le sigarette di contrabbando. Studiai per due anni teologia, ma continuavo a essere segnato dal dubbio nei riguardi della fede. Inizialmente mi turbò un seminario sulle religioni comparate, in particolare sull’islamismo, anche se doveva essere chiaro che il cattolicesimo era l’unica religione in grado di ritenersi tale. Mi chiedevo come fosse stato possibile che, sei secoli dopo la nascita del cristianesimo, i musulmani si fossero imposti in Africa e in Asia. Ma più che teologico il mio problema era esistenziale. Se abbandonavo lo studio di teologia e mi secolarizzavo, avevo in tasca una maturità classica che lo Stato non avrebbe riconosciuto perché ottenuta in una scuola privata, quale era considerato il seminario. In pratica, mi sarebbe rimasta in mano solo la pagella della quinta elementare. Ecco il problema principale, mio personale, al quale si univa un senso di distacco – vissuto anche da gran parte della popolazione slovena – dal Vaticano, che assecondava la politica di Mussolini, definito dal papa «uomo della Provvidenza» perché nel 1929 aveva riappacificato, con il Concordato, lo Stato e la Chiesa. E quest’ultima, in virtù di quell’accordo, assecondava la politica fascista nel proibire la lingua slovena anche durante le funzioni religiose e nel rimuovere i soggetti che si opponevano a questo disegno: l’arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej e l’arcivescovo di Trieste Luigi Fogar, entrambi colpevoli di volersi attenere agli insegnamenti del Vangelo lasciando noi sloveni esprimerci nella nostra lingua madre.

Alla fine decisi di lasciare teologia e fui allora abile alla leva: venni chiamato sotto le armi e finii con il reggimento assegnatomi, in Libia. Avrei potuto, pagando un maresciallo, restare in Italia ma preferivo cambiare ambiente e liberarmi dello stato di denigrazione al quale eravamo sistematicamente sottoposti dalla stampa e dalla radio noi sloveni. In Libia condividevo la sorte degli arabi, che erano sottomessi, ma a cui nessuno toglieva il diritto di esprimersi nella propria lingua. Durante l’anno che trascorsi in Libia continuai strenuamente a ripassare le materie per superare l’esame di maturità: tenevo nel tascapane e nelle tasche della giacca e del pastrano ogni sorta di Bignami, ma anche l’Edipo re di Sofocle e l’Apologia di Socrate di Platone. E alla fine la mia perseveranza mi fece passare l’esame a Bengasi, presso il liceo Giosuè Carducci. Grazie al diploma mi iscrissi all’università di lettere a Padova, e vi andavo a fare gli esami nei giorni di permesso, perché ero interprete in un campo di ufficiali prigionieri jugoslavi. Ritornato a Trieste dopo l’8 settembre 1943, divenni militare fuggiasco per non aver ottemperato all’ordine di presentarmi al comando tedesco e mi unii alla lotta clandestina antinazista. Ero sergente. Ovviamente la Gestapo ne tenne conto: si finiva in campo di concentramento se non si accettava di combattere al loro fianco ma, nel mio caso, fu un testo antinazista trovato a casa mia dalla milizia slovena collaborazionista, che aveva una caserma a Trieste, ad aprirmi le porte del Lager.

Fu nel campo di Struthof-Natzweiler, nei Vosgi, che si rese vivo in me il fattore religioso. Il campo era fatto a terrazze. Sulla più bassa c’era il forno crematorio che era sempre attivo, durante il giorno con l’odore insistente, di notte con la fiamma sempre presente al di sopra del tubo metallico che serviva da camino. Una sera, adunati sulle terrazze, ebbi l’impressione che fossimo schierati in una piramide tra i monti votati al nulla. Pregai. Furono tre Ave Maria in sloveno, accompagnate dall’impegno a recarmi al santuario di montagna dedicato alla Madonna di Svete Višarje (il Monte Santo di Lussari, Luschariberg in tedesco, alto 1.700 metri) dove da studenti andavamo di nascosto e per studiare la nostra storia e letteratura. Fu l’unica volta che pregai, perché poi, grazie a un’infezione alla mano, potei entrare in contatto con il medico Jean Lareyberette, con cui ebbi un dialogo in francese. Grazie a ciò il dottore mi segnalò al dottor Poulsen e divenni il suo interprete, condizione che mi permetteva di saltare l’appello sui balconi scavati nella parete della montagna a 1.800 metri con la neve e con la pioggia. Mia madre direbbe che sono state le sue preghiere a salvarmi. Sarà. Ma senza il mio (povero) francese, imparato all’Università, e senza il tedesco del seminario non sarei mai diventato interprete del medico norvegese, primario a Oslo.

È stato però l’aver visto gli innumerevoli scheletri di Natzweiler, Dachau, Dora, Harzungen e Bergen Belsen a farmi riflettere sull’onnipotenza e bontà di Dio. È stato lì che mi sono detto – come poi ho trovato scritto in Hans Jonas, il filosofo ebreo che s’interroga sul concetto di Dio dopo Auschwitz – che il male, la bontà assoluta e la somma potenza non possono stare insieme, uno dei due deve cedere: o la somma potenza o la somma bontà. Un cattolico si salverebbe dicendo che Dio ha creato l’uomo libero, quindi responsabile del male che fa. D’accordo, dico io, ma se parto dal presupposto che Dio, come essere divino, vede il futuro e accetta il male che gli uomini faranno – la terra che tremerà e li farà morire a migliaia, le pesti che mieteranno vittime a migliaia, il cancro che ucciderà in tutte le forme in cui potrà manifestarsi – escludo che sia sommamente buono. Non può essere buono un Dio che non rinuncia a creare un mondo simile. E se non può rinunciarvi, non è somma autorità, non è Dio.

Quindi concludo, con Einstein: se Dio è una divinità che del mondo non si interessa o, meglio, che non ha creato il mondo perché non ne aveva la facoltà né ne sentiva il bisogno – come dice Lucrezio o come prima di lui pensavano Eraclito e Parmenide, e più tardi Spinoza – allora egli non ha né intelligenza né volontà. Per citare sant’ A gostino: «Sine intelligentia creatorem» o «lumen superrationale».

Sono rimasto con Spinoza, con «Deus sive natura», con Spinoza spiegato eccellentemente da Giuseppe Renzi, Spinoza onesto e coraggioso che mette gli umani di fronte alla verità, affermando cioè che sono soli e devono trovare la maniera di vivere in società. Sì, ho cominciato a occuparmi anche del nostro destino dopo essere ritornato vivo dai campi. Ho osato mettere in dubbio l’insegnamento ricevuto, che da giovane accettavo come verità indiscussa laddove era invece, scoprii, tutta da discutere. Mi interrogavo quindi sull’immagine di questo Dio onnipotente che conosce il futuro e la grande quantità di male dei secoli. Un Dio che, ciononostante, crea, sapendo che manderà poi suo figlio a morire per redimere gli uomini, un mondo pieno di mali. Trovavo questa spiegazione assurda, creata ad hoc e, per così dire, «antieconomica».

Apprezzo la figura di Gesù, l’insegnamento dell’amore e del perdono, la condanna delle brame della ricchezza, l’aiuto al prossimo, la solidarietà, l’amore perfino per i nemici. Un uomo semplice che camminava in sandali con gli amici pescatori mentre la Chiesa, che vorrebbe rappresentarlo, ha sempre sognato la potenza ed è stata amica dei grandi, condannando chi non pensava come voleva il capo che la dirigeva, in maniera che il capo infallibile è stato di esempio ai regimi dittatoriali che sono nati proprio nei paesi più cattolici dell’Occidente e in quelli ortodossi dell’Oriente.

Sono panteista e m’inchino davanti al mistero dell’universo, della forza immane che lo tiene in vita, mentre noi ammiriamo il mondo distruggendolo nello stesso tempo per soddisfare i nostri interessi. C’è ogni tanto qualcuno che, come Gesù, cerca di insegnare la bontà e la giustizia collegata all’amore, ma purtroppo poi finisce male anche lui perché viene a guastare l’ordine stabilito. Si tratta anche del materialismo religioso, di cui parla Berdiaev affermando che è ostile allo spirito e alla libertà, una specie di magia che lo rende prigioniero.

Per conto mio c’è un problema importante che bisogna prima di tutto risolvere, quello riguardante l’armonia della coscienza con il cervello in modo da superare il dualismo materia-spirito. Il buddismo lo risolve a modo suo, mentre in Occidente ci viene in aiuto l’astrofisica. Così adesso mi occupo, con una lenta lettura, di un importante libro in forma tascabile, L’Infini dans la paume de la main, nell’originale francese delle edizioni Fayard, che riporta il dialogo tra Matthieu Ricard, dottore in biologia molecolare divenuto buddista, e Trinh Xuan Thuan, professore di astrofisica. Nel capitolo riguardante il cervello e lo spirito i due si sono trovati d’accordo nell’affermare che tanto per la scienza quanto per il buddismo non c’è alcuna ragione per cui la materia e lo spirito devono essere considerati due enti separati, come voleva Cartesio. Continuerò lo studio, ma curiosando fra le pagine conclusive del libro, vedo che Thuan si dilunga sul risveglio e conclude con la necessità dell’amore e della compassione. Ricard, invece, è d’accordo con Einstein sull’idea di un Dio impersonale, quindi per una religione senza dogmi, e poi dice: «Se c’è una religione che potrebbe essere d’accordo con gli imperativi della scienza moderna, questa è il buddismo». E conclude: «La scienza può funzionare senza la spiritualità, la spiritualità può darsi senza la scienza, ma l’uomo, per essere completo, ha bisogno di tutte e due».

Non me la sento di divenire buddista come ha scelto Ricard, penso che sia sufficiente la religiosità cosmica che egli suggerisce per il futuro dell’umanità. In tal modo, egli si schiera anche al fianco di Spinoza, come afferma in un altro capitolo del libro. La mia posizione è analoga a quella dell’amico Stéphane Hessel, caro amico purtroppo scomparso. Quando domandarono al grande scrittore Mario Rigoni Stern che cosa fosse per lui la religione, rispose: «Fermarsi in silenzio nel bosco». Era ciò che facevo quando camminavo tra gli alberi sul sentiero che sale verso l’altipiano carsico; ora sono più modesto, e la mattina mi raccolgo davanti all’infinita distesa del mare.

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IL CONTRIBUTO DELLA RESISTENZA SLOVENA

Il regime fascista – odioso in ogni sua manifestazione – nelle regioni dell’Istria e della Dalmazia ha assunto anche il volto della violenta occupazione straniera che pretendeva di cancellare ogni traccia di culture e lingue con grandi tradizioni. Per questo in quei territori la liberazione dal nazifascismo è stata anche guerra di liberazione nazionale. Uno dei suoi protagonisti, esponente di spicco
della cultura slovena, ricorda i momenti più significativi di quel periodo.

di Boris Pahor (da MicroMega 3/2015)

Il genocidio culturale degli sloveni

Il termine «resistenza» generalmente in Italia si usa per definire la lotta antinazista e antifascista dopo l’8 settembre del 1943, giorno in cui l’Italia firma l’armistizio con gli alleati. Per ciò che riguarda gli sloveni, invece, la lotta armata contro il fascismo inizia nell’aprile del 1941, quando l’esercito e il Fascio entrano in Slovenia, contro il nazismo dopo l’8 settembre del 1943, quando le forze militari e fasciste italiane hanno facoltà di andarsene, lasciando le armi.

Quindi la Resistenza armata slovena non solo è anteriore a quella italiana, ma è di più: è lotta di liberazione nazionale, in sloveno Osvobodilna fronta, Of, ed è ciò di cui parlerò in questo mio saggio. Interpretando il termine resistenza nel significato italiano, una vera resistenza al fascismo gli sloveni della Venezia Giulia la iniziarono – in modo non armato, ma con morti e prigionieri – già nel 1926 con un’organizzazione clandestina che successivamente si preparò per la lotta armata nella parte montagnosa del territorio.

Per arrivare al termine di «Venezia Giulia», bisogna prima prendere in considerazione il fatto che gli sloveni come popolo facevano parte dell’impero austriaco, poi austro-ungarico, senza un territorio ufficialmente delimitato (il tentativo di realizzarne una carta geografica fu passibile di citazioni in giudizio), ma generalmente per territorio sloveno si intendeva quello di quattro regioni: Primorje (Litorale, con capitale Trieste), Kranjska (Carniola, con capitale Ljubljana), Štajerska (Stiria, con capitale Maribor) e Koroška (Carinzia, con capitale Klagenfurt/Celôvec).

Questo è il territorio in cui gli sloveni vivono uniti fino alla fine della prima guerra mondiale, che fu disastrosa come tale, ma che per il territorio sloveno rappresentò un vero smembramento. E la prima responsabile fu l’Italia che, lasciata la Triplice alleanza (il patto che la univa ad Austria e Germania), firma il Patto di Londra nel 1915 con il quale entrava in guerra a fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia per avere l’Istria, Trieste e il territorio che dal mare si estende fino alle Alpi Giulie, formando il Litorale sloveno, Gorizia, Val Canale, Tarvisio, oltre a dei possessi in Dalmazia. Mire imperialistiche conseguite, dopo il conflitto, con il Trattato di Rapallo firmato il 12 novembre 1920 tra il Regno serbo-croato-sloveno e il Regno d’Italia.

Il Trattato di Rapallo, ripeto, è del 12 novembre, ma già il 13 luglio di quell’anno le squadre fasciste incendiano la grande Casa della Cultura slovena in Piazza Caserma (l’odierna Piazza Oberdan) a Trieste e demoliscono altri uffici e istituzioni slovene, mentre non viene stabilito nessun diritto delle minoranze, ma si ebbero solo delle parole altisonanti sul «grande Stato che con la sua civiltà unica custodirà gelosamente la cultura locale» (come ebbe a dire il ministro degli Esteri, conte Sforza).

Sulla civiltà del grande Stato non c’è alcun dubbio, ma qui si tratta di politica, e sta di fatto che nel febbraio del 1919, quando quindi l’annessione vera e propria non c’è ancora stata, le autorità di occupazione deportano oltre mille persone, per lo più intellettuali di Trieste, dell’Istria e del Goriziano, in Sardegna, nella fortezza di Verona, le maestre invece vengono portate nelle carceri insalubri San Marco di Venezia. Tra gli internati c’erano 35 sacerdoti, tra i quali il vescovo di Veglia Anton Mahnic´, 36 insegnanti, 45 impiegati statali, 9 maestre elementari.

Date queste premesse, il terrore fascista aveva già nel 1919 grande facilità d’azione e le 550 mila persone slovene e croate nella per loro costituita provincia Venezia Giulia non possono che aspettarsi il peggio nel 1922, quando Mussolini sale al governo.

Qui non posso elencare tutto ciò che il fascismo soppresse, riprenderò perciò quello che la storica Marta Verginella riassume nel suo saggio pubblicato nel libro collettaneo I giorni di Trieste (Editori Laterza 2014, che raccoglie le «Lezioni di storia» organizzate da Il Piccolo, il quotidiano di Trieste): «L’ascesa del fascismo portò alla chiusura coatta delle scuole di tutti i gradi con lingua d’insegnamento slovena e croata nell’intera Venezia Giulia. Le autorità fasciste vietarono la pubblicazione dei giornali sloveni e croati, l’uso della due lingue negli uffici pubblici, imposero lo scioglimento di circa 400 circoli sportivi e culturali, istituti bancari, casse di credito e 300 cooperative con circa 125 mila soci, l’utilizzazione dei cognomi, nomi e toponimi. Ogni espressione pubblica della nazionalità minoritaria fu interpretata alla stregua di un atto criminoso. Nel giro di qualche anno l’italiano divenne l’unica lingua ufficiale in uso nella Venezia Giulia e il divieto di comunicare in sloveno e croato si estese dai pubblici uffici ad altri luoghi di lavoro, fabbriche, ditte private, trattorie, negozi, pena il licenziamento, ammonizione o ritiro dell’autorizzazione dell’esercizio». In breve: un genocidio culturale, sociale e politico e, in parte, anche religioso nell’Europa del XX secolo. Razzismo fascista prima delle leggi razziali del 1938, solennemente esposte da Mussolini stesso, appunto a Trieste.

Questo in breve. Per un approfondimento rimando al libro del professor Lavo Cˇermelj, Sloveni e Croati in Italia tra le due guerre, prima edizione in inglese nel 1936 con il titolo Life and Death Struggle of a Nation Minority, in francese nel 1938. Il libro contiene 344 pagine di dati, parte dei quali si riferiscono già alle conseguenze della Resistenza armata.

L’antifascismo sloveno prima del 1941

Prima di Albert Camus, prima del suo Homme révolté, il giovane e grande poeta sloveno Srecˇko Kosovel, morto a 22 anni nel 1926, dichiarava in una sua lirica:

In mi se bomo uprli
E noi ci opporremo

Qui vediamo il verbo usato nel senso di resistenza. La società di giovani del Litorale sloveno, che si forma quasi lo stesso anno della morte di Srecˇko Kosovel, si chiama Borba, che in italiano si traduce «lotta» e, in senso estensivo, anche combattimento.

Visto che i deputati sloveni (fino a quando c’era il parlamento) non combinavano niente confidando troppo nel valore delle loro argomentazioni, i giovani decisero di agire per conto proprio, usando metodi estremi per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica europea. Si aiutarono purtroppo con la benzina, come avevano fatto i fascisti nell’incendio della Casa della cultura, Narodni dom, nel 1920. Spargevano la benzina di notte, quando le aule scolastiche erano deserte. Poi ebbero la malaugurata idea di mettere dell’esplosivo davanti alla sede del giornale fascista di Trieste, Il Popolo di Trieste, di sera, sicuri che nella redazione non ci fosse più nessuno, credendo che fossero tutti al pasto serale. Invece quattro persone erano ancora all’interno e una di loro perse la vita.

Così fu fatto venire a Trieste il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che era stato istituito dopo aver riabilitato la condanna a morte, alla quale vennero condannati 4 giovani ancor prima di essere processati. Avrebbero dovuto esserci 87 imputati, ma ne furono arrestati soltanto 52, mentre gli altri riuscirono a mettersi in salvo. Di fatto poi vennero giudicati soltanto in 18, riservando agli altri un altro processo. Per dimostrare alla Jugoslavia la propria autorità e potenza, Trieste fu trasformata, facendo arrivare navi da guerra, camicie nere in grande quantità eccetera.

Il processo in base ai molti capi d’accusa sarebbe dovuto durare 10 giorni, invece ne durò soltanto 4 perché il 6 settembre del 1930 il principe ereditario jugoslavo festeggiava il compleanno e bisognava avere a Trieste quattro morti. E così, il processo si concluse il 5 alla sera, la condanna venne resa pubblica alle 23, i giovani furono fucilati all’alba del giorno dopo.

In tal modo i quattro pagarono con la vita la rivolta fatta in nome dei diritti umani, mentre gli altri subirono condanne da 5 a 30 anni. Da notare che sei settimane prima si era celebrato il decennale dell’incendio del Narodni dom alla presenza di alte autorità civili e militari, e si scoprì una lapide in onore di Francesco Giunta che aveva condotto l’incendio, e che successivamente era diventato sottosegretario nel gabinetto di Mussolini e durante la seconda guerra mondiale governatore della Dalmazia.

La pubblicità data dall’autorità al processo e la teatralità della messa in scena a Trieste suscitarono un gran numero reazioni con articoli di riprovazione e di biasimo su vari giornali internazionali. Così per esempio il Manchester Guardian scrisse che chi ha una concezione liberale non può che esprimere solidarietà nei confronti dei giovani terroristi sloveni, che non avevano altro mezzo per combattere la denazionalizzazione, e che la loro fucilazione senza neanche la possibilità di intervenire a Ginevra in loro favore è stato uno schiaffo in faccia a tutti coloro che lottano per la libertà. L’ufficiosa Tribuna difese il sistema giudiziario italiano, Il Giornale d’Italia, fondato da Mussolini, il giorno dopo la fucilazione, cioè il 7 settembre 1930, scrisse che i giovani appartenevano a «una stirpe senza cultura e quasi senza lingua e anche senza nazionalità». «Possono avere nazionalità le cimici annidate in un’abitazione? Questa è la posizione storica e morale degli sloveni alla nostra frontiera».

E dire che queste «cimici» durante il fascismo tradussero I Promessi sposi di Alessandro Manzoni e il Decamerone di Boccaccio in sloveno e si costruirono una scuola elementare a Trieste perché la maggioranza italiana al comune non voleva aprire una scuola slovena in città, e dire che il teatro nella Casa della cultura Narodni dom, bruciato dal fascismo nel 1920, metteva in scena Ibsen…

Devo tralasciare gli altri processi e condanne. Posso solo segnalare che la Resistenza non continuò con il metodo dei giovani che avevano dato l’esempio di sacrificare anche la vita in nome dei diritti conculcati. Era un prezzo troppo caro. Le azioni divennero clandestine, ma bastava poco per finire in prigione, al confino, mentre centomila persone scelsero l’esilio, in Jugoslavia la maggioranza, in altri paesi il resto. Resta però il dato che mezzo migliaio di persone slovene e croate furono mandate al confino, rinchiuse nelle carceri di Trieste, di Capodistria e di Regina Coeli. Nonostante ciò, l’organizzazione segreta, conosciuta con la sigla Tigr (Trst, Istra, Gorica, Reka – Trieste, Istria, Gorizia, Fiume, che in croato si dice Rijeka e in sloveno Reka), svolse le sue azioni culturali in modo capillare; nelle città con lezioni private di sloveno, correzione di compiti di studenti insieme ad adulti, gite in montagna per incontri di studio, anche una settimana intera: così, per esempio, al santuario del Monte Lussari (in sloveno Višarje, in tedesco Luschariberg) nella Alpi Giulie, dove si univa il pellegrinaggio con le ore di lingua e di storia sotto le falde dei Lovci (Cacciatori). Nei rioni di Trieste e sul Carso triestino, nella giornata di San Nicolò il 6 dicembre e per Natale, c’era la distribuzione clandestina di pacchi dono con inclusione di alfabetieri con il disegno delle lettere dell’alfabeto sloveno usato dalle famiglie trasformate in scuole.

Il processo monstre del 1941

Nonostante la clandestinità continuavano gli arresti, soprattutto nella primavera del 1940, tanto che finirono in prigione circa 300 persone, di cui molte non risultarono colpevoli ma furono cionondimeno inviate ai campi di confino.

Si preparava un processo per 60 persone, alle quali si aggiunse qualcuna di quelle prelevate in Jugoslavia dopo l’occupazione nella primavera del 1941.

E il processo monstre si tenne dal 2 al 14 dicembre del 1941 a Trieste, perché la maggioranza degli imputati erano della Venezia Giulia e perché gli antifascisti sloveni e croati della stessa Venezia Giulia già cominciavano a unirsi alla lotta iniziata nella parte della Slovenia occupata, trasformata in Provincia di Lubiana, annessa all’Italia. Il processo doveva servire anche come minaccia per le due parti al di qua e al di là della frontiera, ma era un tentativo inutile, dato che nella Venezia Giulia, come abbiamo visto, l’antifascismo aveva preceduto quello del 1941 in Slovenia, e poi, di fatto, si unì alla lotta armata.

Il processo fu organizzato con una grande propaganda; avrebbero dovuto esserci tre processi: uno per i comunisti, uno per i terroristi, uno per gli intellettuali, ma all’ultimo momento Mussolini decise che dovevano essere uniti, con 60 imputati presenti e 10 assenti. L’imputato principale era il professor Lavo Cˇermelj, inizialmente assente, poi arrestato a Lubiana.

Sarebbe superfluo parlare della molteplicità delle accuse, delle personalità militari e politiche presenti, delle difficoltà delle traduzioni dallo sloveno (tanto che si dovette ricorrere all’aiuto degli stessi imputati). È invece interessante citare l’episodio riguardante il professor Lavo Cˇermelj, personalità di spicco che aveva dato alle stampe il libro in lingua inglese Life and Struggle of a National Minority, già citato. Il pubblico ministero comm. Carlo Fallace nella sua requisitoria si scagliò contro il professor Cˇermelj, il quale avrebbe (ingiustamente secondo Fallace) rimproverato lui e il presidente del Tribunale speciale di avere condannato a 20 anni degli innocenti in un precedente processo. Il difensore del professor Cˇermelj si oppose affermando che, se il pubblico ministero si sentiva toccato dall’accusa avrebbe dovuto tacere o rinunciare alla funzione. Allora il pubblico ministero sbottò esigendo che l’avvocato Bruno Cassinelli venisse espulso dall’aula perché impazzito. Fatto sta che poi chiese dodici condanne a morte, tra le quali anche quella del professor Cˇermelj. Il Tribunale ne concesse nove, Cˇermelj compreso, che fu però fra i quattro che ebbero la pena commutata in ergastolo. Gli altri cinque furono fucilati il giorno seguente la sentenza e sepolti, lo si scoprì alla liberazione, nel cimitero di Fontana di Villorba (Treviso).

A questo proposito mi piace riferire che nel 2013, mentre mi trovavo a Treviso per ricevere la cittadinanza onoraria, venni a sapere che a Villorba avrebbero inaugurato un monumento in onore dei cinque antifascisti seppelliti nel 1941 nel loro cimitero. Espressi il desiderio di essere presente. E il comune mi fece accompagnare e poi riportare a Trieste. Una bellissima esperienza di amicizia di cui parlai sul Sole 24 Ore. Caso raro che fa onore al popolo italiano.

Con il processo del 1941 e i 60 condannati a morte, all’ergastolo, a 30, 24, 15, 12, 8, 7, 5 anni e con quattro assolti (che però non furono rilasciati) si chiuse la «resistenza» slovena e croata nella Venezia Giulia al fascismo, resistenza che poi continua insieme con la lotta armata in Slovenia dalla primavera del 1941 al maggio 1945. Periodo questo che riguarda tutti gli sloveni e che dunque si riferisce ai due lati della frontiera sotto la direzione dell’Of, il Fronte di liberazione nazionale sloveno.

Qui però bisogna dire qualcosa anche sui campi di concentramento fascisti, quelli maggiori, come Gonars, Chiesanuova, Monigo (Treviso), Visco, Grumello, ma soprattutto Rab (Arbe) nell’arcipelago dalmata, dove furono mandati paesi interi sotto delle tende, dove la gente moriva di fame e di malattia. Il poeta Igo Gruden in una sua lirica scrive:

Mentre eri morente
ti rubavamo il pane.
Dopo morto ti seppellimmo nella paglia
per avere la tua razione.

Su 350 mila abitanti della «Provincia di Lubiana» ne furono deportati 30 mila. Si può quindi riferire (cfr. Quaderni della Resistenza, n. 10) che nella sola «Provincia di Lubiana» tra ostaggi e rastrellamento ci furono 5 mila morti, di cui 200 bruciati e massacrati in modi diversi, 900 i partigiani fucilati, e 7 mila furono i morti nei campi di concentramento. Quindi complessivamente 13 mila su 350 mila abitanti. In più 12.773 edifici distrutti, fra cui anche scuole, ospedali, biblioteche.

La Resistenza armata dal 1941 al 1945

Ciò durante l’occupazione dalla primavera 1941 all’8 settembre 1943. Quando inizia la Resistenza al nazismo.

Per essere giusti, bisogna dire che già i cristiano-sociali in un loro incontro e sulla loro rivista Dejanje avevano proposto un’unione nazionale nonostante le differenti concezioni culturali e politiche, ma non ci fu alcun seguito perché per i comunisti la decisione si rese necessaria quando l’Unione Sovietica, che aveva patteggiato con la Germania riguardo alla Polonia, si decise ad agire. Così si formò il Fronte di liberazione nazionale sloveno (Of) composto dalla coalizione di comunisti, cristiano-sociali, liberali di sinistra e intellettuali di diversa estrazione.

Per spiegare un po’ meglio la situazione delicata, bisogna prima dire qualcosa dei cristiano-sociali. Si trattava di un’organizzazione inizialmente universitaria che ha come esponente di prim’ordine il professor Edvard Kocbek, che era al corrente dei movimenti culturali cattolici in Europa, tra i quali quello francese che pubblicava la rivista Esprit, diretta da Emmanuel Mounier, di cui Kocbek era amico. Stimato come poeta, con al suo attivo una raccolta di liriche dal titolo Zemlja (Terra), Edvard Kocbek scrive un saggio intitolato «Premišljevanje o Španiji» («Ragionamento sulla Spagna»), nel quale critica la Chiesa spagnola perché si era messa dalla parte del fascismo di Franco. Il saggio era stato pubblicato su Dom in svet (Patria e mondo), una rivista in mano ai rappresentanti della Chiesa cattolica, i quali, quando si accorgono che Kocbek attaccava rappresentanti della Chiesa, condannano che un fatto simile possa essere accaduto, fino a giugnere alla spaccatura tra i sostenitori e gli oppositori di Kocbek. A quest’ultimo non resta altra soluzione che fondare una rivista per coloro che sostengono la sua posizione, che poi è la stessa della rivista Esprit. La chiamò Dejanje (Azione).

Questo scontro si ripeterà in modo più tragico quando nascerà il movimento di liberazione nazionale. Kocbek ci mette molto a decidersi di stare con i comunisti, perché da un lato disapprovava la loro etica staliniana e conosceva l’enciclica papale che vietava qualunque coalizione dei cattolici con i comunisti, ma dall’altro era consapevole che senza un’unione non ci sarebbe stata possibilità di vittoria con gli alleati, per cui alla fine si decise a far parte del direttivo. I comunisti avevano fatto di tutto per averlo, perché avrebbe dato un valore aggiunto al Fronte unitario. Purtroppo dall’altra parte c’erano i cattolici ligi alla proibizione papale e contrari ai metodi sbrigativi degli atei comunisti, che si erano fatti strada con liquidazioni sommarie degli anticomunisti o di quelli che tali sarebbero potuti divenire.

In ultima analisi la situazione reale è che mentre combattevano per l’identità e la libertà della nazione, i comunisti preparavano la rivoluzione, mentre gli anticomunisti credevano di combattere per la fede e la patria, senza rendersi conto che i capi della Chiesa pensavano soprattutto a non lasciarsi togliere il potere dal Partito comunista. L’errore fatale commesso da questi ultimi fu di essersi messi prima dalla parte dei fascisti e poi da quella dei nazisti.

Lo sbaglio peggiore lo commise il vescovo di Lubiana monsignor Rožman che, volendo essere ligio alla proibizione di collaborazione con i comunisti, collaborò purtroppo con i due regimi, che certo non si potevano lodare come difensori della fede; il vescovo, se fosse stato un uomo più sveglio, avrebbe constatato che gli Stati Uniti erano dalla parte degli alleati europei e dell’Unione Sovietica. Infatti, il presidente Roosevelt aveva chiesto a Roma: «Con la proibizione del papa come la mettiamo?». Il Vaticano rispose: la proibizione allora andava bene, ora le cose sono cambiate. Lui, invece, il vescovo, era succube dei dirigenti anti-Of e durante l’occupazione nazista finì a confermare con la sua presenza il giuramento di schiere di collaboratori del regime.

Ad ogni modo, da parte partigiana la lotta sentita funzionava, sebbene fosse anche allo stesso tempo fratricida. Funzionò anche l’accordo tra comunisti, cristiano-sociali e liberali, fino a quando i comunisti, visto che da parte cristiana stava aumentando il numero dei comandanti e considerando anche che la suprema dirigenza politica comunista non era favorevole alla specificità della lotta nazionale slovena, pretesero dai cristiani e dai liberali una dichiarazione che demandava la guida della lotta al solo Partito comunista. È la Dolomitska izjava (Dichiarazione delle Dolomiti). Edvard Kocbek a malincuore firmò, da una parte per la necessità di mantenere l’unità, dall’altra convinto che se lui non avesse firmato i comunisti avrebbero chiesto la firma a qualcuno del suo gruppo che era diventato comunista, così che, senza di lui, i combattenti cristiano-sociali sarebbero rimasti sguarniti, e infine, dati i metodi del partito, non era da escludere che sarebbe potuto capitargli un «infortunio». Si fece promettere che nella futura Repubblica slovena gli sarebbe stata autorizzata l’organizzazione che si era sviluppata prima del conflitto. Promessa non mantenuta. Avuto il suo consenso, i comunisti rimasero rispettosi verso Kocbek per dimostrare che erano democratici, finito il conflitto lo fanno ministro per la Slovenia a Belgrado, poi a Lubiana vicepresidente del Presidio, ma, restando egli cristiano e critico del nuovo sistema, a un certo punto gli tolgono la carica, che era comunque praticamente solo simbolica e per dieci anni lo condannano al silenzio. La ragione addotta era la raccolta di novelle dal titolo Strah in pogum (Paura e coraggio), libro di cui era stata comunque ammessa la pubblicazione, tanto è vero che il quotidiano sloveno di Trieste mi chiese una recensione e la pubblicò, con tutte le lodi che conteneva. Dopo la condanna il giornale dovette però pubblicare una lunga serie di attacchi contro Kocbek e le sue novelle.

L’orrore delle foibe e il ricordo degli sloveni

Ancora a proposito di Kocbek, voglio riferire di una tragedia, un esempio di quanto cara ci costò, per colpa comunista, la lotta e l’affermazione della nostra identità, prima contro il fascismo, poi contro il nazionalsocialismo tedesco.

Quando nell’aprile del 1945 l’Armata jugoslava, in cui era stato incluso il Fronte di liberazione nazionale sloveno, cominciò la sua marcia verso occidente, tutti i militari e le persone che erano dalla parte del perdente, si misero in fuga e si rifugiarono per lo più in Carinzia, in Austria, così anche gli sloveni domobranci (traduzione letterale: «difensori della patria»). Purtroppo l’autorità militare inglese, secondo gli accordi, disarmati i fuggiaschi, li rimandò in Jugoslavia, i domobranci in Slovenia, dove in più di 12 mila finirono nelle grotte e nelle foibe: un orrore.

Mi spiace dover entrare di persona nello svolgimento dei fatti ma, come amico di Edvard Kocbek dai tempi dell’articolo sulla Spagna, quando lessi sulla stampa degli esuli della sorte toccata ai fuggiaschi rimandati indietro disarmati, chiesi all’amico come avesse reagito. Mi rispose di aver chiesto subito al Comitato comunista un commento sulle voci riguardanti le persone inviate indietro dall’Austria e di aver ricevuto una smentita assoluta sulla verità delle voci. Poi invece persone di fiducia gliele confermarono, ma allora non pensò più di reagire, data la situazione politica della Jugoslavia.

Allora io gli dissi che, anche se l’eccidio avvenne a guerra finita e il Fronte non esisteva più, perché confluito nell’Armata già molto prima, egli come autorità morale che rappresentava i cristiano-sociali avrebbe fatto bene, trattandosi della sorte di cattolici, a esprimere la sua disapprovazione sull’accaduto. Mi rispose che ci aveva già pensato, ma la condizione di relegato in cui era stato messo lo dissuadeva, ma che comunque ci avrebbe pensato ancora. E ci pensai anch’io, dato che pubblicavo con l’aiuto di mia moglie una rivista, che usciva quando riuscivo a raccogliere il necessario per pagare la tipografia: proposi a Kocbek di pubblicare su quella rivista un’intervista nella quale avrebbe avuto l’occasione di esprimersi sulla fine di coloro che erano stati rimandati indietro dall’Austria rispondendo a una mia domanda in merito.

Certo, la rivista si dichiarava convinta della necessità della lotta per la libertà e l’affermazione dell’identità nazionale, ma non condivideva il partito unico e si avvaleva della dichiarazione, anche se solo formale, dell’unità culturale degli sloveni, nonostante la separazione causata dalle frontiere. Era un rischio, per Kocbek, uscire con un’intervista sulla rivista, ma accettò. Alla fine l’intervista non uscì in un numero della rivista Zaliv (Il Golfo), ma in un volumetto speciale dello stesso formato che, insieme allo scrittore cattolico Alojz Rebula, decidemmo di pubblicare in onore del 70° compleanno di Kocbek. Il libretto uscì nel marzo del 1975 con il titolo Edvard Kocbek. Pricˇevalec našega cˇasa (Edvard Kocbek. Testimone del nostro tempo).

Kocbek nel corso dell’intervista affermò: «Non ci può essere ragione alcuna che autorizzi un tale procedere nel togliere la vita. Se non ci pentiamo del male fatto, per noi non ci può essere un futuro onesto». Lo cito a memoria, perché non mi trovo a casa e non posso consultare quel volume. Quell’intervista fu come una bomba. Non solo in Slovenia ma in tutta la Jugoslavia ci furono, come in simili casi accadeva sotto il regime totalitario, un’infinità di attacchi, che ci trattavano da mentitori e tipi che si erano uniti ai domobranci. L’ondata si sparse anche all’estero. Per fortuna fu proprio dall’estero che ricevemmo, anzi ricevette principalmente Kocbek, l’aiuto che calmò le acque. A Parigi il direttore di Esprit J.-M. Domenach in visita all’ambasciatore jugoslavo fece la voce grossa, chiedendogli se fosse quella la maniera di ringraziare una persona che si era dedicata così profondamente alla lotta di liberazione, una persona che aveva anche il merito di aver fatto accettare quella lotta anche da loro, dai parigini. Poi ci fu l’amico di Kocbek, lo scrittore cattolico Böll, premio Nobel, che si mostrò solidale con lui. Così la bufera si calmò, l’autorità in Slovenia fece perfino pubblicare l’intervista con la scusa di mostrare che cosa fosse capace di combinare il poeta Edvard Kocbek, suscitando numerose proteste contro di lui, ma riconoscendo de facto che aveva detto la verità. Furono in molti che, sebbene fossero critici riguardo ai metodi del regime, mai avrebbero pensato che fosse capace di tale sciagurato eccidio.

E questo per ciò che riguarda i comunisti. Ma anche l’etica dei difensori della Fede non era molto migliore: uccidevano, torturavano, e lo facevano persino in onore delle piaghe di Cristo, consegnavano la gente alla Gestapo che la mandava a Dachau, bastava non essere con loro per essere arrestato. E poi avevano ottenuto una caserma a Trieste e un ufficio politico, perché, dato l’antifascismo sloveno a Trieste e nell’intero Litorale sloveno, avevano più probabilità di arresti.

Ad ogni modo, questo non è il luogo per giudicare della colpevolezza delle due parti in lotta, ma solo l’occasione per segnalare che la lotta fratricida ha inciso fortemente nella vita della comunità e che molto lentamente ora si cerca di creare un’atmosfera di necessaria saggezza per un accettabile futuro.

Un accomodamento simile fu necessario, ed è ancora utile, tra il popolo italiano e quello sloveno. Molti problemi sono stati risolti, altri si stanno risolvendo specialmente in relazione alla legge di tutela della comunità slovena della regione autonoma del Friuli Venezia Giulia. Così, per esempio, si è commemorato insieme lo scoppio della prima guerra mondiale, della quale purtroppo parte terribile si svolse proprio sul territorio del Litorale sloveno. Quindi ne soffrirono ambedue le parti, ed è giusto ricordarlo e commemorarlo insieme.

Ciò che vorrei dire come umanista, come scrittore, come sloveno di cittadinanza italiana, è che la legge che istituisce il Giorno del Ricordo, fissato nel 10 febbraio, non è adatta a promuovere una visione storica comune, perché è monca, è unilaterale, parla del ricordo italiano, tralascia il ricordo altrui. Il male che ne deriva è che le nuove generazioni hanno così una visione storica errata.

Ciò si potrebbe evitare pubblicando e distribuendo nelle scuole la conclusione della commissione mista storico-culturale italo-slovena sulle relazioni italo-slovene dal 1880 al 1956. Conclusione che purtroppo è rimasta nel cassetto. Ora, se il testo in questione per ragioni politiche o di altra natura non è accettato, se ne faccia una revisione italo-slovena. È una necessità e un dovere. Se poi ci si considera dei resistenti, sta a noi esigerlo.

(credit foto Photo: AXEL HEIMKEN/dpa)



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