In ricordo di Eugenio Scalfari

In ricordo di Eugenio Scalfari, il più grande giornalista italiano del dopoguerra, fondatore del settimanale l’Espresso e del quotidiano la Repubblica, scomparso oggi, ripubblichiamo due suoi testi apparsi su MicroMega.

Redazione

Dialogo sull’attualità della questione morale (da MicroMega n. 2/2006)
La sinistra odierna, e in particolare i Ds eredi di Berlinguer, considerano ancora la questione morale una questione politica cruciale? O la ritengono, al contrario, un retaggio di scarsa ‘modernità’? Si può ancora parlare di una diversità/superiorità della sinistra? Il confronto senza perifrasi e anche polemico tra l’allora fondatore di Repubblica e il direttore di MicroMega. 

Paolo Flores d’Arcais: Ti sembra eccessiva l’espressione popolaresca, da fescennino, con cui rispondono moltissimi cittadini, se li scegli a caso e li interroghi su Berlusconi che si fa paladino della questione morale, e cioè «la faccia come il culo»?

Eugenio Scalfari: No, affatto, non mi sembra eccessiva, perché corrisponde esattamente alla realtà: «La faccia come il culo». Proviamo, semmai, ad articolarne il contenuto.
iccolo passo indietro: Berlusconi si reca alla procura della Repubblica di Roma, dove incontra il dirigente e i due sostituti. Dopo di che ripete più volte che c’è andato perché Bertinotti nella trasmissione di Porta a porta, e poi Fassino, di fronte alle insinuazioni di Berlusconi: «So cose… che sarei tentato di andare dal magistrato», gli hanno dato la risposta ovvia: «Ci vada subito, dal magistrato».
In realtà, come poi si è saputo e capito, Berlusconi aveva già pianificato di andare dal magistrato, e chi ha organizzato il tutto è stato il suo avvocato, Ghedini, e Berlusconi ha poi buttato lì quella frase, proprio per farsi rispondere «Ci vada subito, dal magistrato». Ma ci sarebbe andato comunque.
Allora uno dice: va dal magistrato, perché sa cose che altri non sanno, cioè dei reati, delle «notitiae criminis» (o «criminum»), perché dal procuratore si va solo quando qualcuno ha da denunciare reati.
Berlusconi, viceversa, è andato a riferire dei gossip, a raccontare dei pettegolezzi.

Flores d’Arcais: Alcuni già smentiti dagli interessati.

Scalfari: Alcuni già smentiti dagli interessati. E tutti, comunque, penalmente irrilevanti, come Berlusconi stesso si è affrettato a spiegare appena uscito dalla procura, ripetendolo in una trasmissione televisiva e in una conferenza stampa.

Allora perché è andato in procura? È andato in procura solo per mettere in moto un meccanismo con cui infangare, anzi con cui gettare schizzi di merda, visto che abbiamo usato la frase «faccia come il culo», che andassero a colpire i suoi avversari politici.

Flores d’Arcais: Insomma, nessuna «notitia criminis», ma una sorta di «ammuina». Credo che negli Stati Uniti d’America (di cui una volta disse che hanno sempre ragione) una cosa del genere configurerebbe qualcosa di analogo all’oltraggio alla corte, o all’intralcio alla giustizia, reati per cui si finisce dritti in galera.

Scalfari: Beh, l’impeachment di Nixon avvenne su un fatto analogo. Nixon faceva spiare i membri dell’opposizione. Non andò neppure dal magistrato a fare «denunce»: il fatto stesso che li facesse spiare, portò all’impeachment. Questo avviene in un paese dove la democrazia funziona in un modo serio.

Voglio però attirare l’attenzione di chi ci legge, sul fatto che la procura di Roma invece di dire: grazie, abbiamo preso nota, non ci riguarda molto, ma comunque abbiamo preso nota… ha fatto sapere che intende convocare come testi (e magari quando esce la rivista l’avrà già fatto) Antoine Bernheim e quel Tarek Ben Hammar, cioè quel suo socio e amico tunisino, che non si è presentato quando i magistrati di Milano lo convocarono per deporre su certi affari assai dubbi di Berlusconi medesimo.

E li convocano per sapere cosa? Vogliamo dire che Prodi, Rutelli, Veltroni, D’Alema, hanno pranzato o hanno incontrato Bernheim? Due di loro l’hanno già detto, mi pare anche gli altri, che hanno incontrato Bernheim.

Di che cosa hanno parlato? Ma sono fatti loro. Quand’anche avessero detto la loro opinione a Bernheim, il quale aveva un pacchetto, non decisivo ma importante, di azioni della Banca nazionale del lavoro, ed era incerto su come comportarsi, e voleva probabilmente sondare i dirigenti delle forze politiche, come poi ha sondato il presidente del Consiglio, per sapere, a parte le valutazioni di mercato, in che modo le forze politiche di maggioranza e di opposizione valutavano una partecipazione all’Opa, di una impresa importantissima nel panorama della finanza italiana? Che ci sarebbe di strano?

E che cosa ci sarebbe di strano (e men che meno di reato) se un dirigente di sinistra gli avesse risposto: se lei è proprio così incerto, visto che le condizioni di prezzo più o meno si equivalgono, forse è meglio che venda al­l’Unipol?

Se hanno detto questo (e se magari Rutelli avesse detto l’opposto, visto le sue opinioni in materia) dove sarebbe il reato?

E invece non hanno neppure detto questo. Perché Bernheim e Ben Hammar hanno smentito che si sia parlato di Unipol. Se però il procuratore di Roma assume le parole di Berlusconi come denuncia di un possibile reato, e alla fine viene fuori che non c’era nulla (solo del gossip), allora Berlusconi diventa un calunniatore, nel senso tecnico del termine. Sporgere denuncia sul nulla configura il reato di calunnia contro il quale, come si sa, si deve procedere d’ufficio.

Flores d’Arcais: Ho cominciato chiedendoti se l’espressione da fescennino «la faccia come il culo» ti sembrava eccessiva, o adeguata, per descrivere il comportamento di Berlusconi, perché sono convinto che in questi cinque anni del suo malgoverno siamo arrivati a qualcosa di insopportabile in una democrazia liberale, per quanto approssimativa e in crisi.

Berlusconi, infatti, anche se come auspicabile (ed anzi vitale per il paese, se non vuole precipitare nel Terzo Mondo) perderà le elezioni, quello che consegna al prossimo parlamento non è più un paese, ma un paesaggio di macerie: macerie morali, macerie istituzionali, macerie politiche, macerie economiche e sociali, macerie culturali. Questo il risultato di 5 anni di regime.

Oggi i dirigenti del centro-sinistra sono costretti a prenderne atto, e a stigmatizzare i comportamenti – ai limiti del dicibile – di questo signore. Quando però, per 5 anni, poche voci già raccontavano quanto era sotto gli occhi di tutti (perché bisogna riconoscere che Berlusconi non ha mai nascosto di essere quello che è, e i comportamenti che oggi vengono stigmatizzati da D’Alema e Fassino sono suoi da sempre, e ne ha fatte anche di peggio, anche se non contro D’Alema e Fassino, basti pensare a quando trattò da fiancheggiatori dei brigatisti i lavoratori della Cgil che in tre milioni riempirono il Circo Massimo – e mezza città – con Cofferati, per non parlare degli insulti alla «festa di protesta» con cui i girotondi si ritrovarono in oltre un milione a piazza San Giovanni il 14 settembre del 2002, o ai sanguinosi insulti contro pacifisti e no global – e non solo insulti, come sappiamo da Genova…) gli stessi D’Alema e Fassino accusavano quelli che raccontavano la verità di essere dei demonizzatori, degli estremisti, dei moralisti, dei sognatori (e tutto il resto del noto repertorio).

E non è proprio questo atteggiamento di troppi dirigenti del centro-sinistra ad aver incoraggiato Berlusconi, non è anche questo atteggiamento ad averlo convinto che si poteva far passare per «normale» dialettica politica il suo oltraggio sistematico e virulento alle regole fondamentali della democrazia liberale?

Scalfari: Non credo. Dobbiamo infatti fare uno sforzo per capire che il ruolo di un politico non è lo stesso di quello di un giornalista, di un filosofo, di un libero cittadino, con i nostri comprensibili e diversi modi di esprimerci. Dobbiamo metterci nelle scarpe dei dirigenti di un partito importante, dobbiamo fare uno sforzo di obiettività.

Allora io presumo, anche conoscendo le persone e le loro riflessioni sul­l’argomento, che i dirigenti dei due maggiori partiti dell’opposizione, Ds e Margherita, volessero e vogliano presentarsi all’opinione pubblica come una cosiddetta forza tranquilla, senza spingere la critica all’estremo. Perché non è che non abbiano criticato Berlusconi, lo hanno criticato eccome, ma evitando posizioni ed espressioni, appunto, di demonizzazione, anche perché consapevoli che Berlusconi gioca molto sul vittimismo, e quindi dandogli il meno possibile occasioni per giocare su questa chiave.

I dirigenti del centro-sinistra hanno cercato e cercano di inquadrare i problemi reali del paese, e di non passare la vita a dire che Berlusconi è una faccia di culo, come sicuramente pensano, perché sappiamo che lo pensano, e perché così è. Ma non possono bloccarsi su questo tasto.

E allora, Paolo, noi non possiamo pensare che leader di partiti che bene o male raccolgono milioni di voti, e che giustamente cercano anche di intercettare il cosiddetto disincanto della pubblica opinione che votò per Berlusconi nel 2001, usino il linguaggio dei girotondi. I disincantati, se tu ti presenti con un volto radicaleggiante, tutt’al più si rifugiano nell’astensione.

Alla tua domanda rispondo: possiamo condividere o meno l’atteggiamento dei dirigenti Ds e Margherita, ma se mettiamo i piedi nelle loro scarpe vediamo che ha una motivazione seria.

Flores d’Arcais: Eppure a me sembra che non aver detto, con la semplicità delle verità analitiche, cosa è stato ed è Berlusconi e il suo regime, cosa è stato ed è di minaccia in atto contro la democrazia il berlusconismo come populismo massmediatico illiberale, sia stato dannoso proprio dal punto di vista dell’efficacia nell’accrescere consensi per l’opposizione.

E mi sembra, oltretutto, sia una scelta esattamente agli antipodi rispetto a quella che fece Enrico Berlinguer nella ormai storica intervista sulla questione morale (che qui ripubblichiamo a p. 27) che costituisce l’occasione per questo nostro dialogo.

Berlinguer ha impostato tutta la sua strategia politica con l’obiettivo di convincere grandi masse di nuovi elettori che il Partito comunista costituiva proprio una «forza tranquilla», per usare l’espressione che hai ripreso ora tu, e che è poi l’espressione della campagna elettorale vincente di Mitterrand, no?

Una forza tranquilla. Berlinguer è riuscito talmente bene nel comunicare questa convinzione, che ad un certo punto (e malgrado si chiamasse ancora Partito comunista…) ha sfiorato il sorpasso della Dc alle politiche, è stato sul punto di diventare il capo del partito maggioritario…

Scalfari: L’ha realizzato quando è morto, perché nelle elezioni europee, sia pure sul cadavere di Berlinguer, il Partito comunista sorpassò…

Flores d’Arcais: …e proprio nell’intervista che ha fatto con te, il capo di questa «forza tranquilla» parte dalla questione morale, ma poi la impone come questione politica cruciale e inaggirabile. Strutturale, per dirla col vecchio linguaggio marxista.

Riprendo da titolo, sommario e catenaccio dell’epoca: «Questi partiti degenerati sono l’origine dei nostri mali», «A comandare sono le camarille», «Noi vogliamo che le forze politiche cessino di occupare lo Stato. Ai tempi della solidarietà nazionale ci hanno scongiurato di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno. Abbiamo sempre detto di no. E a un certo punto ce ne siamo andati sbattendo la porta».

Insomma, il cuore di quella storica intervista è l’idea che la questione morale non si esaurisce nella dismisura di corruzione cui sono arrivati i partiti di governo e i loro dirigenti. Che, naturalmente, i politici che rubano devono essere scoperti, denunciati e finire in galera, ma che la radice strutturale della questione morale va rintracciata nella trasformazione della democrazia in partitocrazia, nella trasformazione dei partiti di governo, pur nati dalla Resistenza, in camarille affaristiche dedite alla spartizione e lottizzazione della cosa pubblica.

Berlinguer, insomma, denuncia la spartitocrazia, se vogliamo sintetizzare in una sola parola la durezza analitica della sua denuncia. Non più democrazia ma partitocrazia spartitoria, che occupa la cosa pubblica come fosse «cosa loro» e la lottizza appropriandosene privatamente.

Proprio in funzione della strategia di costruire una «forza tranquilla», credibile nel candidarsi al governo del paese, Berlinguer in questa intervista arriva a «demonizzare» con toni ben più che «radicaleggianti» quello che poi verrà definito il Caf (Craxi-Andreotti-Forlani). Oggi, invece, i dirigenti Ds che pure dicono di rifarsi a Berlinguer, hanno scelto la strada opposta. E proclamano di volervi perseverare. Non solo non hanno cercato di spiegare le radici strutturali del regime, che costituiscono la radice del tracimare di episodi di corruttela sotto il malgoverno berlusconiano, ma hanno addirittura messo la sordina sul carattere criminoso, in senso tecnico, di questo lato del regime: visto che Berlusconi e molti altri dei «suoi» sono stati incriminati e condannati un’infinità di volte, e hanno scampato la galera solo grazie a leggi di procedura e/o leggi ad personam che hanno impedito condanne definitive, hanno portato a verdetti di prescrizione (cosa ben diversa dall’assoluzione per innocenza) e altre vie cavillose verso l’impunità.

Ecco, io vedo una radicale differenza fra il Berlinguer così come viene fuori dalla tua intervista, uomo della «forza tranquilla», che però non solo denuncia la questione morale quando era infinitamente meno grave – ieri – che oggi con Berlusconi, ma che dietro la questione morale nel senso delle ruberie denuncia le radici strutturali, l’occupazione di «banche, enti, poltrone di sottogoverno» come appropriazione indebita della cosa pubblica, anche a prescindere dagli illeciti arricchimenti personali. Usando la parola partitocrazia che, tu ricorderai, per parecchi anni fu usata a sinistra solo da pochi intellettuali e giornalisti, tacciati per questo e spesso di «anime belle» e magari qualunquiste.

Scalfari: La lezione di Berlinguer, che io ricordo come uno dei pochi ultimi grandi leader politici di questo paese, nasce in un contesto completamente diverso, in un paese ancora a sovranità limitata, perché nell’81 c’è ancora una divisione internazionale di campi contrapposti, siamo cioè in piena guerra fredda.

Berlinguer lavora nell’ambito di questa difficoltà, cercando da un lato – gradualmente ma in modo man mano sempre più accelerato – di allargare il famoso strappo rispetto all’Unione Sovietica, e dall’altro accentuando la pressione interna contro il governo.

E se può permettersi di usare l’espressione partitocrazia spartitoria, è perché alle spalle ha un partito ancora monocratico. Può permettersi di denunciare la partitocrazia, senza con ciò autodenunciare anche il suo partito, perché alle spalle ha un partito che, sia pure con alcune autorevoli opinioni dissenzienti (cito per tutti Napolitano, ma potrei aggiungere anche Pajetta, e Macaluso), quando il segretario prende una posizione, lo segue.

Adesso, per fortuna, aggiungo, non è più così. Quindi, nel momento in cui Berlinguer dice: i partiti si debbono ritirare dall’occupazione delle istituzioni, lo fa perché il Partito comunista nelle istituzioni nazionali non è entrato.

Flores d’Arcais: Forse mi sbaglio, ma Rai3 c’era già, mi sembra. O no?

Scalfari: No, non così. Oppure c’era Rai3, adesso non mi ricordo le date, ma comunque il partito non era nelle istituzioni nazionali.

Quando poi il Pci aveva appoggiato i governi cosiddetti di unità nazionale, durante il periodo degli anni di piombo, l’aveva fatto dall’esterno (appoggio importantissimo, sia chiaro, proprio ai fini della lotta contro il terrorismo, legittimandosi come il più coerente partito della fermezza, ma che non comporta tutte le trattative di un’alleanza di governo organica).

Poi, Berlinguer compie una svolta, quella della «alternativa», che è stata molto criticata nel mondo riformista. Io, viceversa, non la critico e non la criticai, anzi il giornale appoggiò la famosa svolta berlingueriana di Salerno (per il Pci era la seconda svolta di Salerno, la prima l’aveva fatta Togliatti nel ’44, quando appoggiò il governo Badoglio, differenziandosi dai socialisti e da tutto l’azionismo. La seconda la fece Berlinguer, di segno opposto rispetto a quella di Togliatti).

Flores d’Arcais: In effetti, la svolta di Berlinguer qualche eco azionista la mostrava…

Scalfari: Forse. Insomma, comunque disse: siamo entrati in qualche modo nella maggioranza, abbiamo appoggiato i vostri governi eccetera, perché c’era un’emergenza nazionale, a questo punto però noi riprendiamo la nostra libertà d’azione, e quindi ci schieriamo per l’alternativa democratica.

Ricordo che questo rovesciava in qualche modo la strategia del compromesso storico, che pure era stato uno dei punti più qualificanti dell’azione politica di Berlinguer. Il compromesso storico infatti si basava sull’idea che i partiti che hanno dietro di loro le grandi masse popolari (e in Italia dunque, essenzialmente, il Pci e la Dc) debbono incontrarsi e raggiungere un compromesso per «rifondare» il paese. Berlinguer dichiarava apertamente che il Pci, anche avesse raggiunto da solo il 51 per cento, la maggioranza assoluta, avrebbe comunque cercato l’accordo con la Dc, con l’altro grande partito popolare.

Poi, improvvisamente, passa all’opposizione e proclama la necessità di una alternativa democratica alla Democrazia cristiana.

Tieni conto di questa circostanza, per capire il senso della sua denuncia. Berlinguer ritiene di aver già regolato i conti con Mosca, di non poter più essere accusato di farsi megafono dell’Unione Sovietica in un paese occidentale, di essere anzi il protagonista della costruzione di un autonomo comunismo europeo, con i comunisti francesi e spagnoli (soprattutto questi ultimi, il Pcf resta più filosovietico, come sappiamo) e finirà addirittura per chiedere l’adesione all’Internazionale socialista.

È proprio in virtù di questa autonomia riconquistata, anzi conquistata, perché prima non c’era mai stata, che Berlinguer rivendica la piena legittimità del Pci a governare anche da solo, e quindi compie la «svolta» dell’alternativa democratica, della questione morale e della denuncia contro la partitocrazia.

Flores d’Arcais: Perfetto. Ma proprio per questo la tua risposta mi sembra paradossale. Infatti tu sottolinei come Berlinguer abbia scelto la strada della «radicalità» (della demonizzazione, diremmo oggi) in condizioni molto più difficili di quelle degli attuali dirigenti Ds.

Personalmente non credo oggi, e non lo credevo allora, che Berlinguer avesse fatto davvero i conti con Mosca (perché per farli, l’unico modo era dichiarare senza perifrasi che l’Urss era un paese a dominio totalitario). Ma malgrado non li avesse fatti, e dunque pesasse ancora sul Pci l’handicap di un’accusa possibile e non infondata di atteggiamento accomodante verso il totalitarismo sovietico, Berlinguer si sente legittimato a governare le istituzioni (anche il Pci da solo, se conquistasse la maggioranza assoluta!), perché «loro» le istituzioni le stanno distruggendo con l’occupazione partitocratica.

Infatti, l’alternativa democratica, rispetto al compromesso storico, non significa: rinunciamo a stare nelle istituzioni, perché la nostra vocazione è l’opposizione. Bensì, al contrario: noi siamo la forza tranquilla che vuole entrare nelle istituzioni, ma per governarle in modo alternativo, cioè democratico, rispetto a quello non più democratico, ma partitocratico, dei partiti con cui avevamo immaginato di dar vita al compromesso storico. Su di loro ci sbagliavamo. Loro stanno nelle istituzioni per occuparle, dunque privatizzarle, renderle «cosa loro», noi siamo la forza tranquilla che le rinnoverà restituendole ai cittadini, liberandole da corruzione, lottizzazioni, camarille. Questo mi sembra il senso dell’intervista che ti ha dato, e a partire dalla quale l’espressione «questione morale» è entrata nella vita pubblica.

Ora, gli attuali dirigenti della sinistra hanno l’enorme vantaggio di non doversi giustificare rispetto a un comunismo che non esiste più, e l’ulteriore vantaggio di avere di fronte a loro forze politiche ben peggiori (non lo avremmo creduto possibile!) dei democristiani, socialisti e laici del Caf. Hanno a che fare con Berlusconi, con gli ex fascisti, con la Lega, cioè con forze che nei paesi europei ed occidentali standard sarebbero considerate fuori della «legalità repubblicana».

Quindi operano in una situazione infinitamente più facile di quella di Berlinguer. Eppure si comportano come se avessero la coda di paglia, come dovessero ancora farsi perdonare, per essere legittimati a governare anche da soli, colpe più pesanti dei legami del Pci con l’Urss. È come se, per farsi legittimare, dovessero omologarsi. È come se rivendicare la differenza della questione morale, alla Berlinguer (e dunque il j’accuse berlingueriano contro le radici strutturali e partitocratiche della questione morale), a loro sembri impresa improba. Malgrado la situazione molto più facile in cui operano.

Ecco perché diventa inevitabile domandarsi se, più semplicemente, non considerino la politica della questione morale un’impresa sbagliata, e la differenza della sinistra centrata sulla questione morale come un’eredità da liquidare, non un patrimonio più che mai irrinunciabile, ma un peso, un retaggio di scarsa «modernità».

Eppure, a distanza di una generazione (la tua intervista a Berlinguer è di venticinque anni fa, chi nacque allora ha ormai responsabilità anche nella vita pubblica) l’impostazione di Berlinguer mi sembra di un’attualità bruciante. E sconcertante. Un’analisi oggi più vera ancora di allora, proprio per quel nesso: questione morale-occupazione partitocratica della cosa pubblica. Cioè la questione della legalità come questione politica ineludibile: centrale e onnipervasiva. E tale è, di fatto, dal ’92, quando fu scoperchiata Tangentopoli, ad oggi. Fino a che non sarà risolta, è perciò una inutile litania ripetere: occupiamoci dei problemi reali del paese. Come se illegalità impunita di politici ed establishment, monopolio tv, conflitto d’interessi, non costituissero la pietra di inciampo che, fino a che non sarà frantumata, ci impedirà di essere un paese normale.

Se, in una situazione più favorevole di quella di Berlinguer, gli attuali dirigenti, al di là degli omaggi retorico-verbali, gettano alle ortiche la sua «demonizzazione» degli avversari, vuol dire che non giudicano più una priorità la lotta contro l’occupazione partitocratica dello Stato. Priorità morale, e di conseguenza (berlinguerianamente parlando) urgentemente politico-istituzionale.

La vicenda Rai, con Petruccioli messo, dopo il pellegrinaggio alla residenza privata di Berlusconi, a presiedere il consiglio di amministrazione più certosinamente lottizzato della storia Rai, è l’ennesima (ma certamente non ultima) dimostrazione che la questione morale-partitocratica non è considerata dai vertici Ds una questione politica essenziale. È davvero il minimo che si possa dire.

Tu obietti: ma Berlinguer aveva il vantaggio di dirigere un partito monocratico. È come se l’unica alternativa al partito monocratico fosse un partito partitocratico come gli altri. L’omologazione, insomma. Ma non è vero. L’opposizione a Berlusconi ha senso proprio perché è possibile l’alternativa di un partito democratico conseguente, che non occupa lo Stato, e che anzi considera l’occupazione dello Stato una mostruosità, si faccia da destra, si faccia da sinistra. E che non considera le primarie una iattura a cui ci si è dovuti piegare, ma una conquista dei cittadini che dovrà diventare legge, entrare nella Costituzione, e in una forma tale che i partiti le primarie non le possano addomesticare. Un partito democratico conseguente che avrebbe già proposto una riforma dell’intero sistema radiotelevisivo secondo il modello Zapatero (mentre questa legge improcrastinabile l’hanno dovuta presentare i comici, oggi politici più lucidi dei nostri dirigenti di partito).

E infine: Paolo Sylos Labini aveva proposto un codice etico per i politici di sinistra, da assumere intanto come volontariamente vincolante, ma in caso di vittoria da trasformare in legge dello Stato. In Spagna anche questo è stato già fatto.

Insomma: la mia impressione è che invece di sottolineare la necessità di una diversità democratica, si finisca per adeguarsi all’andazzo dell’esistente. Ma non ci si stupisca, allora, se Berlusconi continua a fare il Berlusconi. Perché, omologandosi, anche appena un poco, ci si mette in una posizione di estrema debolezza.

Scalfari: Ho la sensazione che tu dia soverchia importanza ad una questione che a me non sembra così cruciale. Anche perché questa sordina che tu rimproveri ai dirigenti Ds di aver messo nelle loro critiche a Berlusconi, non mi pare sia stata una sordina: la resistenza contro le leggi ad personam è stata il frutto dell’impegno dell’opposizione parlamentare, che ha fatto tutto quello che doveva, e non solo dal punto di vista del linguaggio. La tua doglianza, se la debbo tradurre in spiccioli, è che D’Alema e Fassino non abbiano adottato il tuo linguaggio… Ma questo non puoi pretenderlo.

Qui siamo di fronte a delle forze politiche che hanno già governato il paese per un’intera fase (bene o male, non voglio adesso entrare in questo discorso. Secondo me il saldo finale di quei governi, quello di Prodi e perfino quello di Dini, è più che positivo), nulla di paragonabile, dunque, alla situazione del Partito comunista berlingueriano. Gli attuali dirigenti hanno governato per anni. E con un meccanismo elettorale che, con tutte le deficienze che sappiamo, impone il bipolarismo, nel quale ogni schieramento rappresenta all’ingrosso metà del paese ed è di per sé alternativo all’altro. E lo schieramento di centro-sinistra non ha mai taciuto sulla precisa volontà di non ripetere l’errore della partitocrazia, di non volersi insomma invischiare affatto in una spartizione delle istituzioni.

Ti faccio notare, peraltro, che nelle democrazie più mature, a cominciare da quella americana, lo spoils system fa parte delle regole: in America, quando vince, un presidente per prima cosa, sia pure col barrage dell’approvazione del Senato, effettua una serie di nomine importantissime, cambia migliaia di titolari nell’amministrazione, dai ministri agli ambasciatori e via via…

Insomma, lo spoils system fa parte di un assetto democratico, mentre noi vagheggiamo una cosa diversa, e perché la vagheggiamo? Perché non abbiamo fiducia nella continuità dell’amministrazione. Questo è un vecchio discorso che risale niente meno che a Marco Minghetti e Silvio Spaventa. Noi abbiamo sempre vagheggiato che le istituzioni abbiano una vita autonoma, su cui il cambiamento dei partiti al governo agisca solo come stimolo e quadro di riferimento ad un politica amministrativa che rimane istituzionale.

Nei paesi anglosassoni questo problema non si pone, il premier inglese, come il presidente americano, ha un potere enorme, e se ne avvale mettendo uomini di sua fiducia in tutti i punti strategici delle istituzioni. Noi abbiamo un concetto diverso, quello dell’autonomia amministrativa, ma poi una pratica ancora diversa da questo concetto, che lo riduce ad una ipocrisia, perché la pratica dell’occupazione delle istituzioni permane, e i direttori generali sono spesso costretti a seguire le indicazioni dei partiti anche nelle più minute decisioni quotidiane, mentre alla politica dovrebbero essere riservate, come è ovvio, le scelte strategiche, ma affidando la loro traduzione di gestione quotidiana a una pubblica amministrazione efficiente e, entro questi limiti, autonoma. Mentre sappiamo, purtroppo, che la prima cosa che si fa dopo un successo elettorale è occupare le Usl o le Asl come adesso si chiamano…

L’attuale opposizione, però, credo si contrapponga al governo berlusconiano non solo per il suo programma politico alternativo ma anche, mi auguro, per la volontà di concepire in modo diverso il rapporto tra decisione politica e gestione amministrativa.

Qualche cosa di questa volontà è già entrata nel costume istituzionale. La costituzione materiale, degenerata nella Prima Repubblica, si è riavvicinata alla Costituzione formale, alla lettera della Carta, ad esempio, visto che il presidente incaricato di formare il governo presenta la lista entro pochi giorni, se non addirittura entro poche ore, come è scritto nella Costituzione, il cui puntuale rispetto i presidenti della Repubblica hanno cominciato ad esigere. In passato, le trattative tra i partiti per definire la lista dei ministri si trascinavano per settimane e settimane…

È vero che la presidenza della Repubblica è la sola istituzione che si è mossa nella direzione di avvicinare costituzione materiale e Costituzione scritta, ma è già però un segnale. Ciampi prima ha adottato la moral suasion, un po’ perché era la sua forma mentis, alla Banca d’Italia, e un po’ perché ha innovato. Ha cercato di emendare le leggi che gli venivano presentate, prima ancora che venissero portate in parlamento con marchiani errori di incostituzionalità, e in parte c’è riuscito. Quando poi ha visto che la resistenza del governo era coriacea, ne ha rimandata qualcuna in parlamento, una in particolare, e insomma ha resistito e tuttora resiste. Non so come si concluderà il settennato, ma è molto probabile che la legge sull’abolizione del giudizio d’appello per il pubblico ministero non venga firmata [come in effetti è avvenuto], è possibile che il governo gliela rimandi tale e quale, la Costituzione a quel punto lo obbliga a firmare, ma questo è il segno che l’istituzione ha funzionato.

Mentre, in tempo di Prima Repubblica, i partiti di governo non mettevano nemmeno in discussione che il presidente della Repubblica non fosse un loro delegato. La sovranità dei partiti era totale. La Democrazia cristiana non concepiva nemmeno l’idea che il presidente della Repubblica fosse un’entità istituzionale, distinta e autonoma dalla maggioranza che lo aveva eletto.

Insomma, per concludere su questo punto: a me pare che questa sordina che tu lamenti, rispetto alla questione morale, i dirigenti del centro-sinistra non l’abbiano messa. C’è stato il desiderio di non perseguire Berlusconi attraverso la via giudiziaria, cioè di non utilizzare politicamente quello che la magistratura di volta in volta decideva. Questo sì c’è stato, non credo sia stato un errore. Credo che sia stato giusto dire: i giudici facciano quello che devono fare. Ma senza utilizzarlo politicamente. Naturalmente i giudici quello che devono fare lo hanno potuto fare sempre di meno, per via delle leggi ad personam che rendono più difficile l’azione di contrasto, abrogano di fatto reati gravi eccetera.

E tuttavia i giudici hanno continuato a investigare e a perseguire e a condannare, quando le leggi gli consentivano di farlo. Certo, se le leggi non glielo consentono più, perché la prescrizione da un lato, il cosiddetto giusto processo dall’altro, e via enumerando, hanno tagliato abbastanza le unghie alla magistratura… Ma che la politica distingua e dica: la magistratura faccia il suo lavoro, noi facciamo il nostro di opposizione parlamentare (con tutto il vigore che hanno messo in questo) non trovo che sia manifestazione di sordità nei confronti della questione morale.

Flores d’Arcais: Nessuno pretende, ovviamente, che i politici si sostituiscano ai giudici. Anzi, distinzione netta dei ruoli. Magari i dirigenti del centro-sinistra avessero detto, nei confronti di Berlusconi e di altri della sua maggioranza che avessero commesso crimini, «i giudici facciano il loro lavoro», punto e basta. Invece, anche nei cinque anni in cui sono stati al governo, quasi il 90 per cento delle leggi che hanno modificato i poteri giudiziari e reso infinitamente più difficile l’azione di contrasto contro determinati reati, in primis quelli che in genere vengono commessi dai politici e dai loro entourage, è stato votato dal centro-sinistra insieme a Berlusconi!

Scalfari: Ma dammi un esempio, io non me lo ricordo.

Flores d’Arcais: Esempi te ne posso fare tanti: nel luglio del ’97 scompaiono numerose fattispecie di «abuso d’ufficio», salvando centinaia di imputati di giunte e consiglio regionali (e vertici del Coni). Il nuovo articolo 513 del codice di procedura, che rende inutilizzabili le dichiarazioni non reiterate da un testimone in aula, legge dichiarata incostituzionale (come aveva già ipotizzato Borrelli) dalla Suprema Corte, a cui il parlamento risponde… cambiando con fretta bipartisan la Costituzione (articolo 111, cosiddetto del «giusto processo»), riforma del 317 bis, per cui chi rifiuta di testimoniare non rischia più l’arresto, ma continuando negli anni potrei continuare con le esemplificazioni…

Scalfari: No, il giusto processo, e tutta la dialettica e la polemica che si sviluppò allora, me lo ricordo abbastanza bene. Ribadiva, come è giusto, che: un processo deve essere rapido, i magistrati non devono prendere pubblicamente posizione prima che si svolga il giudizio eccetera. Non metteva affatto la mordacchia ai giudici, semplicemente richiamava alcune condizioni essenziali nelle quali deve svolgersi l’iter processuale perché sia equo. Poi è stato stabilito, anche questo giustamente (credo l’abbia fatto il governo Berlusconi, ma con l’appoggio dell’opposizione) che prima di candidarsi in politica un magistrato deve far passare un determinato periodo, e comunque non può candidarsi nella circoscrizione dove ha operato come giudice o pubblico ministero eccetera. Tutte cose perfettamente accettabili.

Insomma, non possiamo inchiodare l’opposizione parlamentare al dovere di dire sempre e comunque no, perché questo non fa parte delle regole democratiche, questo vuol dire ipotizzare la politica dell’Aventino, che però durò poche settimane e, come tu sai, in periodo fascista. Ma si trattava di ben altro, lì c’era l’abolizione dei partiti, l’abolizione della libertà di stampa, l’abrogazione di fatto del parlamento. E per favore, non confondiamo – perché sarebbe radicalismo deteriore e pericoloso – il governo Berlusconi con il regime fascista, perché non lo è. Tu mi dirai: forse è peggio, può anche darsi, perché questo corrompe… ma…

Flores d’Arcais: No, niente affatto, io non ragiono così, non penso affatto che il manganello e l’olio di ricino fisici siano peggiori del manganello e dell’olio di ricino mediatici, detesto il paradosso per cui il condizionamento morale o psicologico sarebbe una violenza più violenta delle bastonate…

Scalfari: E allora ti voglio aggiungere, fatta questa distinzione che ci vede d’accordo, che il governo Berlusconi non ha impedito affatto la libertà di espressione, noi qui ne siamo testimoni viventi. Tu ed io non solo abbiamo pensato, non solo abbiamo detto, quando c’è capitato di dirlo, ma scriviamo tranquillissimamente tutto quello che ci viene in mente di scrivere, e nessuno ci può censurare. Ma non siamo due casi eccezionali, due eroi che si immolano… Avviene continuamente. Prendiamo il Corriere della Sera, condivido alcune cose della sua linea politico-editoriale, altre non le condivido affatto, ma è un giornale che prende posizione anche contro Berlusconi, e può farlo con assoluta libertà. Prendiamo la Stampa di Torino, discorso identico.

Quindi: noi viviamo in un regime che resta democratico, semplicemente c’è una leadership che ha occupato le istituzioni. Io direi, come dissi all’epoca di Craxi, con una banda che ha occupato le istituzioni, e che stiamo facendo il possibile per cacciare. Ma in un regime di libertà, nel quale ciascuno conta secondo le forze che ha dietro, le aspettative che sollecita, i consensi che conquista.

Per esempio, parlando di quotidiani. Repubblica possiede, fin dalla fondazione, un determinato dna. Il Corriere della Sera, se si muovesse con la stessa cifra di Repubblica, perderebbe probabilmente un terzo delle copie, perché una parte dei suoi lettori non ama che un quotidiano si dica apertamente vicino a uno schieramento politico o comunque esprima una sua concezione etico-politica, una sua cultura (quella che un tempo si chiamava ideologia). Buona parte dei suoi lettori vogliono che il Corriere sia un giornale che oggi dà ragione alla destra, oggi dà ragione alla sinistra, a seconda dei casi.

Perciò, chi vuole dirigere il Corriere, o fa propria questa concezione, che è quella della leadership del Corriere, oppure sceglie un altro giornale. Oppure, pensa se il direttore della Stampa, in nome della sua autonomia direzionale, volesse fare un’inchiesta sui guai e sugli errori eccetera della Fiat. Quello è il giornale della Fiat, se accetta di dirigere il giornale della Fiat, ha ampia autonomia salvo su un punto. E quello che vale per i giornali, vale anche per i partiti, non c’è dubbio.

Flores d’Arcais: Guarda, Eugenio, che io non desidero affatto che i politici del centro-sinistra usino il mio linguaggio, come tu mi hai…

Scalfari: Beh, un po’ lo vuoi.

Flores d’Arcais: No, non lo voglio nel modo più assoluto, perché io penso, oltre tutto, che i politici parlino attraverso gli atti che fanno. E allora, quello che non mi convince è che, per esempio in parlamento, l’opposizione abbia fatto davvero tutto quello che si poteva fare.

Io non auspico affatto l’Aventino, semmai il suo opposto, l’Aventino all’incontrario, cioè l’utilizzazione sistematica di tutti gli strumenti parlamentari che consentono di bloccare la maggioranza, con gli attuali regolamenti, mettendola in una condizione difficilissima, quando tale maggioranza vuole leggi assolutamente indecenti, che scardinano i principî della Costituzione. Il che, con il governo Berlusconi, è avvenuto un giorno sì e l’altro pure.

Scalfari: Ma usano il voto di fiducia, così non puoi bloccare più nulla.

Flores d’Arcais: Guarda, ai tempi dei girotondi, mi sembra, mi informai presso amici parlamentari di lunga esperienza, e poi scrissi sull’Unità una lettera aperta a Violante, in cui chiedevo proprio un «Aventino all’incontrario» e facevo l’elenco di tutte le tattiche possibili per paralizzare una maggioranza che superi la soglia dell’indecenza anticostituzionale. E Violante mi diede sostanzialmente ragione.

Perché non c’è solo il filibustering o le migliaia di emendamenti (con i tempi contingentati e i voti di fiducia, alla fine neutralizzi entrambi), c’è ad esempio la possibilità di essere sempre presenti tutti in aula (tutti significa rinunciare anche alle «missioni») e poi allontanarsi lasciando un solo deputato a chiedere la verifica del numero legale: o la maggioranza è presente quasi al completo o i lavori si interrompono. E la maggioranza non è mai presente quasi al completo, tranne casi eccezionalissimi. Certo, i deputati di opposizione, in questo modo, risultando assenti, non prenderebbero la «diaria»… ma paralizzare il governo varrebbe un sacrificio nei propri emolumenti, credo.

Ma nei comportamenti dei vertici dei Ds, per fare esempi concreti di questi ultimi giorni, c’è talvolta qualcosa di peggio che non mettere la sordina alla questione morale. Fassino va ripetendo come una litania che lui a Consorte telefonava solo per informarsi. Ora, in una delle telefonate registrate ci sono due frasi. Lascio perdere la prima, in cui si lascia sfuggire «la nostra Banca», diciamo che è una licenza poetica, anche se di pessima poesia…

Scalfari: Fassino non dice nemmeno «la nostra Banca». Dice a un certo punto: «La nostra, scusa… vostra banca».

Flores d’Arcais: Va bene, d’accordo, non scomodiamo Freud per Fassino, benché la teoria dei lapsus… Ma c’è una frase assolutamente esplicita: a Consorte che sente di avere la vittoria in pugno e quindi manifesta il proposito di vendicarsi di quelli che lo hanno ostacolato, Fassino risponde testualmente: «Aspetta, prima portiamo a casa tutto». Questa non è la frase di chi si informa. E io trovo offensivo per l’intelligenza degli elettori democratici che Fassino, avendo pronunciato una frase del genere, voglia farci credere che quella era una telefonata per informarsi. «Prima portiamo a casa tutto» indica un’appassionata partecipazione emotiva, non una richiesta di informazioni.

Questa è una menzogna, dunque, e a me risulta intollerabile che una persona, che col mio voto ho mandato in parlamento, mi prenda in giro. Partecipava appassionatamente, e continua a insistere che si informava. Non si informava.

Scalfari: Ha detto: il mio errore è stato quello di fare tifo per questa cosa qui.

Flores d’Arcais: Sì, e però ha detto che lui si informava e basta. Non è vero, non si informava.

Scalfari: Non era certo lui il regista.

Flores d’Arcais: Certo che non era il regista, non era il regista, ma quella non è una frase di chi si informa.

Allora, non deve insultare l’intelligenza dei suoi elettori. Ma andiamo più a fondo. Che cosa c’è, secondo me, dietro questa mentalità? Perché per alcuni mesi, poche testate – e alcuni singoli giornalisti – hanno detto di Consorte quello che già si poteva sapere, se uno fa il giornalista sul serio. Ne hanno scritto puntualmente Barbacetto e Diario, l’Unità, MicroMega. L’hanno fatto alcuni giornalisti di Repubblica, alcuni giornalisti di giornali finanziari, ma una minoranza. E tutti quelli che denunciavano l’intreccio tra le varie cordate, si pigliavano le bastonate mediatiche dei Fassino, dei D’Alema, dei Bersani che continuavano a giurare su Consorte, su Fazio eccetera.

Scalfari: Su Fazio no.

Flores d’Arcais: Su Fazio, Bersani ha fatto una dichiarazione che era un peana…

Scalfari: Non rifare la storia della canea, perché è stata chiarita la storia della canea.

Flores d’Arcais: Va bene, bisognerà ripubblicare tutto perché non restino equivoci.

Ma quello che mi ha colpito è che nel momento in cui D’Alema e Fassino riconoscono che per mesi si sono sbagliati, almeno su Consorte, non riconoscono affatto che il loro torto più grave è stato quello di insultare chi le cose giuste le aveva dette in anticipo. E questo mi sembra un residuo del togliattismo (versione italiana dello stalinismo) con cui si sono formati come dirigenti politici.

Nello storicismo togliattiano (ma anche in tutto il poststalinismo delle nomenklature dell’Est), infatti, il peggiore dei torti è quello di avere ragione in anticipo. Gli errori del proprio partito si possono riconoscere, ma solo quando li riconosce il partito stesso. Tu li hai denunciati prima? Rimarrai sempre all’inferno. Chrusˇcˇëv riconosce i crimini di Stalin, ma gli anarchici e i trotzkisti che lo avevano fatto in precedenza restano «nemici del popolo». Nell’86 riconosci che nel ’56 avevano ragione quelli che si schierarono con gli operai di Budapest, ma non chiedi scusa a quelli che il partito per trent’anni ha vilipeso…

Per fortuna oggi si tratta di vicende assai meno tragiche delle cose dell’Ungheria e dei processi di Mosca, ma la mentalità mi sembra pericolosamente la stessa: il peggiore torto è quello di chi ha visto giusto in anticipo, e per mesi si è dovuto prendere i soliti epiteti di moralista, estremista, azionista (che spesso a me fanno l’impressione di elogi).

Perché non avere la normale onestà intellettuale di dire: abbiamo sbagliato, avevano ragione i Barbacetto, i Travaglio. E a insultarli, mentre vedevano quello che noi non vedevamo, abbiamo sbagliato due volte. E soprattutto, cercheremo di capire in base a quali meccanismi, categorie, mentalità, noi non siamo stati capaci di vedere e loro sì. Ecco, secondo me il fatto grave è che non si pongono mai questa domanda, perché poi ti devi dare una risposta. Perché hanno sbagliato su Consorte? Non certo perché sono ingenui.

Di ingenuità, infatti, accusano sempre noi, intellettuali sognatori e anime belle, moralisti e senza uso di mondo. Loro sarebbero invece quelli del sobrio realismo. E allora non possono invocare l’ingenuità. E infatti, la ragione delle aberranti valutazioni date per mesi e anni su Consorte, su Fazio, non è l’ingenuità, è la loro linea politica. La propensione all’inciucio, la cui radice va secondo me trovata nel rovesciamento dell’atteggiamento che aveva Berlinguer su questione morale e partitocrazia.

Scalfari: Paolo, per quale motivo noi stiamo facendo questa discussione così prolungata? Perché ormai le posizioni mi sembrano chiarissime. Tu l’hai ribadito con estrema chiarezza. Questi dovrebbero dire: abbiamo sbagliato e chiediamo scusa a Paolo Flores d’Arcais.

Flores d’Arcais: No, non a me, io non mi sono occupato di Fazio e Consorte.

Scalfari: Allora, ti voglio dire che il fatto di ammettere un errore ma non riconoscere i meriti di chi aveva capito già prima di noi (e che magari per questo avevamo criticato) è una legge di natura…

Flores d’Arcais: Ti prego…

Scalfari: Sì, che opera in ciascun individuo. Io infatti potrei domandare a te, ma anche a me e ad infiniti altri individui appartenenti a questa specie umana: tu quante volte hai sbagliato?

Flores d’Arcais: Tante ovviamente.

Scalfari: Hai sempre dato ragione a quelli che avevano visto giusto in quel caso prima di te?

Flores d’Arcais: Quando mi convinco di aver sbagliato, ci provo.

Scalfari: A me non mi risulta…

Flores d’Arcais: Tu richiamami un errore pubblico che ho commesso e…

Scalfari: Tu, come me, come chiunque, tendiamo ad essere metro di misura della nostra vita. E vuoi che questo non avvenga in un corpo collettivo?

Tu hai vissuto dentro delle contraddizioni politiche enormi. E non voglio dire molto, ma il 50 per cento (io penso anche di più) delle tue posizioni si sono poi rivelate sbagliate. Ma non è che io ti ho sentito dire: qui ho sbagliato e me ne sono accorto, e aveva invece ragione quell’altro. Non mi risulta, non mi risulta.

Prendi la mia esperienza personale. Da quando ho lasciato la direzione di Repubblica, e via via nei dieci anni che sono ormai passati, ho acquistato una maggiore, come dire, considerazione degli errori che posso aver fatto. Perché è cambiato il mio punto di osservazione sulla realtà. Ma fino a che stavo alle manopole, e quindi dovevo guidare me stesso e gli altri che con me lavoravano al giornale, io con difficoltà ammettevo gli errori.

Flores d’Arcais: Caro Eugenio, non credo affatto che sia una legge di natura. Io, per esempio, mi rammarico ancor oggi (e credo di averlo raccontato un’infinità di volte ad amici e conoscenti) quando subito dopo il Sessantotto, avendo avuto l’occasione di passare una serata con Nicola Chiaromonte, che aveva vissuto la stagione dell’antistalinismo (per limitarci a questo) in stretto legame con personaggi come Albert Camus e Hannah Arendt, invece di ascoltare e imparare cercai di spiegargli che l’antitotalitarismo doveva essere di sinistra altrimenti era sprecato. Ma questo è un episodio privato. Se mi segnali un errore della mia vita pubblica, di cui mi sia convinto, vedrai che non avrò avuto difficoltà a riconoscere i meriti di chi aveva visto giusto prima di me.

Comunque, non è vero che siamo tutti uguali. Perché, se fossimo tutti uguali, tu saresti come Fassino e D’Alema, e Fassino e D’Alema sarebbero come Berlusconi, e invece non è così.

Scalfari: Ma non dico questo. Dico solo che c’è la cosiddetta persistenza degli aggregati, che i grandi sociologi conservatori come Mosca e Pareto applicavano alla burocrazia, al modo burocratico di agire e di autoconservarsi; quindi si applica ai partiti, si applica ai sindacati, si applica alle imprese. Ognuno predica innovazione, modernizzazione, assoluta democrazia eccetera. Poi quando si tratta di agire, viene preso dalla considerazione del sé.

Comunque, che altro possiamo aggiungere? Su questi temi (su molti altri no, per fortuna) abbiamo due modi di pensare radicalmente diversi.

Flores d’Arcais: Ho fatto l’esempio della mentalità comunista, che pretende il monopolio sul chi e sul momento in cui si può riconoscere l’errore, perché mi sembra un residuo preoccupante e che ritorna. Nella classica versione: se ci criticate fate il gioco dell’avversario e…

Scalfari: Ma se tu ancora adesso, dopo che l’ammissione degli errori nel frattempo è andata abbastanza avanti, come abbiamo detto peraltro all’inizio della nostra conversazione, continui a considerare di estrema gravità la telefonata di Fassino con Consorte eccetera, qual è l’obiettivo che ti poni? Cioè tu cosa vorresti adesso?

Flores d’Arcais: Che non si ripetano più questi errori.

Scalfari: Ma non si ripeteranno, non credo, la lezione è stata dura. Ma che cosa pretendi? Che Fassino, D’Alema, Bersani, Sposetti, facciano un corteo vestiti da penitenti, con te che con la frusta a sette code da dietro gli dici: passo più svelto, e attraversino le vie di Roma, di Milano eccetera, spargendosi le ceneri in testa? Ma via, non esageriamo con questa cosa.

Io ho cominciato a scrivere su questo argomento dal mese di agosto, e ho continuato (non io solo, l’intero giornale, a cominciare dal suo direttore), e quanto a Fazio, il primo articolo che ho scritto per criticarlo risale al 1999, l’ho mandato in copia a Tremonti, lui non mi ha nemmeno risposto… quello che ora voglio fare è: tutto il possibile perché il centro-sinistra vinca le elezioni.

Flores d’Arcais: Anch’io.

Scalfari: E allora basta con altre critiche ai dirigenti del centro-sinistra, le cose sono nelle mani della magistratura, ho già detto perché la magistratura di Roma non mi persuade del tutto, ma politicamente la questione è chiusa.

Flores d’Arcais: Scusa Eugenio, la questione non è chiusa, proprio se si vuole che il centro-sinistra vinca. Perché si parla di un milione e più di voti a rischio? Perché per vincere – e con te sfondo una porta aperta, viste le infinite volte che hai richiamato il concetto – è fondamentale la credibilità di chi si presenta candidato. Non la credibilità presso quello che Occhetto chiamava lo zoccolo duro, e neanche i milioni di elettori già convinti, ma la credibilità presso quel 20-30 per cento di incerti con i quali si vincono o si perdono le elezioni.

E che si convincono con la limpidezza radicale nei comportamenti, con la rottura radicale dei i rituali partitici, che il cittadino comune trova insopportabili…

Scalfari: Andiamo al sodo. Tu dici: è il momento che al posto di Fassino vada Travaglio…

Flores d’Arcais: Eugenio, ti prego…

Scalfari: E allora la credibilità si recupera proprio facendo quello che hanno fatto. Hanno detto: qui abbiamo sbagliato, chiediamo scusa, ci dispiace. E poi? Che altro devono fare? Il corteo dei penitenti hai detto di no, Travaglio al posto di Fassino hai detto di no, allora che altro si deve fare?

Flores d’Arcais: Intanto discorsi chiari su quello che il centro-sinistra farà sulle questioni che nei 5 anni in cui si è stati al governo colpevolmente non si sono affrontate: conflitto di interessi, tv libera dai partiti… l’elenco sarebbe lunghissimo.

Poi, la volontà di vincere prendendo atto che si vota con una legge proporzionale. E che decisivi saranno gli elettori che non ne possono più di Berlusconi, ma non hanno intenzione (o sono molto incerti) di dare il suffragio ai partiti del centro-sinistra, anche in coalizione. Questi elettori, hai la certezza di conquistarli solo con una lista civica «per Prodi» e senza i partiti.

Ma proprio i dirigenti che tu giudichi abbiano ormai fatto tutto quello che devono, non hanno la lucidità, per egoismo di apparato, di accettare che una lista Prodi porti via, certamente, un po’ di voti ai Ds e un po’ di voti alla Margherita, ma oltre a questi voti trasferiti all’interno della coalizione raccolga quel 2-3-5 per cento in più di elettori che altrimenti rimangono a casa.

E allora un politico che abbia in vista il bene comune, come tu, in un articolo recentissimo, in risposta a un lettore del Venerdì, hai scritto che deve essere un politico democratico, non può preoccuparsi di qualche voto perso dalla propria bottega, se una lista Prodi senza i partiti consente di garantire i voti incerti, con cui sconfiggere Berlusconi.

Scalfari: Questa è una questione di tecnica politica elettorale che ha a che fare, purtroppo, con una legge sciagurata, che ha imposto una serie di technicalities malvagie, perverse.

Allora, i dirigenti del centro-sinistra cercano di rimediare come possono. Prodi propone, o minaccia, una lista propria, ma capisco bene le resistenze che gli vengono opposte, perché è comprensibile che nessun partito voglia perdere voti all’interno della propria coalizione, per una lista della cosiddetta società civile. Che poi te la raccomando, ’sta lista della società civile.

Comunque, queste sono technicalities nelle quali io mi sento poco invischiato. Non sono un politico, non sono in un partito, sono uno che collabora ad un giornale e dice quello che pensa, ma con difficoltà riesco a giudicare se bisogna fare le liste in questo o in quel modo. Io non sono così esperto di questi meccanismi, e comunque non ho titolo per dire: dovete fare la lista Prodi, no, non fate la lista Prodi. Non lo so, sono fatti loro.

Io mi troverò invece di fronte al problema di come votare, e cosa fare lo so molto bene, perché voterò alla Camera la lista dell’Ulivo e voterò al Senato la lista dei Ds. Quindi so perfettamente come mi debbo comportare.

(Una piccola parentesi. Le primarie non sarebbero state tecnicamente possibili se i Ds non avessero mobilitato tutte le loro forze e il loro residuo apparato, il loro volontariato di partito, per creare i luoghi dove si votava, i gazebo dove si votata, gli scrutatori… Allora oso dire che senza lo sforzo dei Ds, che in quel caso hanno lavorato esclusivamente per Prodi, le primarie non si sarebbero realizzate. Questo Prodi ha il torto di non ricordarlo quando invoca il popolo delle primarie. Il popolo delle primarie è il popolo del centro-sinistra nel suo complesso, e le primarie tecnicamente sono avvenute, perché i Ds hanno fornito le infrastrutture organizzative affinché riuscissero, e sapevano benissimo che questo avrebbe rafforzato Prodi, non già il proprio partito).

Flores d’Arcais: Berlusconi ha studiato a fondo una legge-porcheria che lo favorisca. Di fronte a questa porcheria io vedo soprattutto polemiche fra i dirigenti dell’opposizione, non vedo lo slancio di chi dice: il nostro obiettivo è cacciare Berlusconi, per fare poi quello che non abbiamo fatto in quei 5 famosi anni, di modo che non sia più possibile che il padrone di un impero mediatico sia anche capo dell’esecutivo… e tutta la solfa.

E siccome questo è il nostro obiettivo, pazienza se io avrò il 2 per cento in meno di te, pazienza se si ridurrà il potere dei nostri rispettivi apparati, l’importante è il successo della coalizione. La legge è questa porcheria, l’hanno studiata apposta, ma è con questa porcheria che bisogna raccogliere tutto l’elettorato, e c’è un sacco di gente pronta a votare contro Berlusconi ma che detesta i partiti…

Scalfari: Male, male…

Flores d’Arcais: …e vorrei dei dirigenti che avessero la lucidità più forte del loro egoismo d’apparato. E se avessero questa lucidità (non dico generosità, non pretendo generosità dai politici, chiedo solo che la lucidità sia più forte dell’egoismo d’apparato) sarebbe ovvio fare una lista che raccolga gli scontenti dei partiti. Vogliamo chiamarli qualunquisti? Ma se oggi ci sono dei qualunquisti antiberlusconiani, facciamo una lista che possano votare, anziché restare a casa!

Le mie doglianze verso i partiti, come le hai chiamate prima, ovviamente non si fermano qui. Ci fermiamo per motivi di tempo. Ma il nostro candidato premier che si dice amareggiato per le sacrosante manifestazioni contro il revanscismo clericale… amareggiati hanno diritto di essere i democratici, per questa amarezza di Prodi, semmai.

Scalfari: Prodi è profondamente cattolico, e in più, come un buon politico deve fare, tiene d’occhio anche la parte cattolica del suo elettorato attuale e/o potenziale; quindi non vuole inasprirla. Insomma questa è la politica. Figurati se non sono amareggiato io.

Però voglio ricordare che quando ci fu il famoso referendum sulla procreazione medicalmente assistita, e Ruini fece quello che fece dicendo: non andate a votare, Prodi disse, a differenza di Casini e anche, debbo dire, di Rutelli: io sono un cattolico adulto, quindi so come debbo comportarmi, e andò a votare.

***

Meditazioni sul tramonto della borghesia (da MicroMega n. 4/1994)
Il suicidio della borghesia e il trionfo della middle class. Una parabola che illumina la decadenza dellItalia e laffermazione del Grande Seduttore.

Ha suscitato alcune critiche e qualche adesione, comunque un dibattito, un’affermazione che ho ripetuto varie volte su Repubblica e che ho cercato di argomentare nei limiti in cui era possibile farlo in articoli scritti per un giornale quotidiano. L’affermazione riguardava la natura classista del governo Berlusconi e di almeno due dei movimenti che compongono l’attuale maggioranza parlamentare di destra: Forza Italia e Lega Nord.

Si è obiettato da parte dei miei critici che attribuire ad un governo e ad una maggioranza sostenuti da un vasto consenso sociale connotati di classe è affermazione molto arrischiata, tanto più quando la base di quel consenso proviene dalla middle class, cioè da una fascia della società che è arbitrario definire «classe» (nonostante la terminologia anglofona) proprio per la sua composizione eterogenea e interclassista.

Si è obiettato altresì che il programma e l’ideologia liberista che sono propri di questa maggioranza escluderebbero caratterizzazioni classiste poiché l’essenza del liberismo è di realizzare una società aperta, fondata sull’iniziativa individuale, cioè esattamente l’opposto d’una società ingessata in classi omogenee che si confrontano e si scontrano per blocchi, con l’intento di far prevalere i rispettivi interessi attraverso l’uso spregiudicato del potere politico. Le obiezioni che ho qui ricordato non sono certo nuove; insieme alle contro-obiezioni formulate dalla scuola marxista esse costituiscono il nucleo essenziale della polemica tra liberisti e marxisti che ha attraversato il pensiero politico occidentale per oltre un secolo dando dignità culturale e struttura ideologica ad uno scontro di forze sociali, economiche, politiche e financo militari che ha profondamente segnato la vita delle ultime quattro generazioni in tutto il pianeta.

Non ho dunque la pretesa né l’ambizione di riproporre qui i termini di un dibattito che ha visto competere figure eminenti della cultura contemporanea e nel corso del quale tutto è stato già detto, contestato, riproposto e contrattaccato da ogni angolazione, utilizzando tutti gli aggiornamenti della conoscenza economica e sociologica.

Ma è tuttavia un dato di fatto che l’attualità italiana di questi ultimi mesi, nel quadro di un contesto europeo non privo di assonanti analogie, sollecita una serie di riflessioni sui temi sopra accennati. In particolar modo sollecita un’analisi sulle seguenti questioni:

1) La formazione e la natura della middle class nelle società postindustriali.

2) Il rapporto tra interessi e valori nelle predette società.

3) La borghesia come classe generale e i suoi rapporti con gli interessi specifici dei vari segmenti sociali che la compongono.

4) L’establishment che custodisce e amministra la continuità delle società e dello Stato, il suo reclutamento, il nesso che intercorre tra establishment e democrazia politica.

5) Il liberismo e l’economicismo come ideologia tardo-borghese e il rischio d’una trasformazione della borghesia da classe generale in struttura classista nel senso marxiano del termine.

* * *

Non ho difficoltà ad anticipare che l’analisi di questo gruppo di questioni mi ha portato a individuare una sorta di ispessimento e quindi di decadenza del pensiero liberal-democratico; quasi che le società non potessero fare a meno della presenza oberante delle classi nel loro seno e che, avendo lo sviluppo economico e lo scontro politico disgregato la classe proletaria nei paesi postindustriali, sulle sue rovine si stia rapidamente costituendo una borghesia di classe che è quanto di più lontano e antinomico da quella lettura etico-politica del ruolo della borghesia che il pensiero liberal-democratico aveva idealizzato.

Confesso cioè di essere alquanto pessimista sull’evoluzione delle società contemporanee. Chi, come me, ha coltivato per lungo tratto della propria vita la speranza che fosse possibile una laicizzazione delle ideologie e il prevalere dell’interesse generale sugli egoismi corporativi e classisti, non può non prendere atto con amarezza che la sconfitta del proletariato come realtà sociale e come ideologia non ha affatto irrobustito il movimento liberal-democratico e i valori dei quali esso era portatore; al contrario lo ha sospinto verso una sorta di mimetismo simmetrico che ha alterato i connotati della borghesia degradandola ad un aggregato di interessi tenuti insieme da valori puramente economici e da una volontà di potenza che è cosa ben diversa dallo spirito di servizio con il quale la classe generale si propone (si proponeva) di amministrare lo Stato.

Vedo cioè un deperimento dello Stato e il contemporaneo emergere degli appetiti, delle ingordigie e degli egoismi di classe. Il fatto che questo processo si compia sotto le bandiere e gli slogan della liberal-democrazia non può che accrescere l’amarezza di quanti vedono fino a che punto i valori originari siano stati rovesciati nel loro opposto e quale sostanziale tradimento si stia consumando sotto l’apparente vittoria di quegli ideali.

Mai il liberismo si è allontanato dal liberalismo come in questi ultimi anni. L’antica disputa Croce-Einaudi sui due aspetti d’un comune sentire ha ora assunto un’inattesa corposità che i due duellanti di sessant’anni fa non avrebbero certo previsto e che entrambi avrebbero probabilmente rifiutato.

Ma non ci arroghiamo di far parlare i morti e guardiamo piuttosto che cosa sta accadendo a noi posteri.

* * *

La middle class come si è andata formando nei paesi industriali nell’ultimo mezzo secolo è un aggregato molto diverso dalla borghesia ottocentesca. Quest’ultima ebbe una consistenza ed un ruolo fino alla prima guerra mondiale; durò ancora per qualche tempo nella tempesta degli anni Venti-Trenta; fu infine spazzata via – sopravvivendo soltanto in piccole isole elitarie – dalla grande crisi economica e dai mutamenti che essa produsse a livello mondiale nel capitalismo. E poiché la grande crisi ebbe negli Stati Uniti d’America il suo punto di partenza e il luogo della sua maggiore intensità, ecco perché la middle class nasce come realtà sociale e concetto sociologico negli Usa, diffondendosi poi rapidamente in tutto l’Occidente industriale.

La borghesia che l’aveva preceduta traeva le sue radici dal Terzo Stato: uomini di toga, magistrati e avvocati; medici, funzionari dello Stato, proprietari fondiari, finanzieri, rappresentanti dei mestieri e delle magistrature locali, insegnanti, imprenditori delle prime industrie nascenti soprattutto nelle manifatture del cotone, della seta, della lana, del ferro.

Questa borghesia deve la sua nascita alla acquisita consapevolezza del suo ruolo politico che emerge fin dal XVII secolo nelle Province Unite, in Inghilterra tra gli anni di Cromwell e quelli degli Orange, nella Confederazione americana durante la guerra di Indipendenza, in Francia a partire dal movimento illuminista fino allo sbocco dell’89. Con caratteristiche e tempi diversi il fenomeno si propaga anche in Austria, nell’Italia del Lombardo-Veneto, e a macchia di leopardo un po’ dovunque nell’Europa continentale.

Quando la borghesia raggiunge il culmine della sua maturità essa deve la sua forza non tanto agli interessi economici, dei quali pure è robustamente portatrice, quanto al complesso di valori eticopolitici che vengono da essa tradotti in regole impersonali, codici, comportamenti collettivi, diritti generali e generali doveri.

Lo Stato moderno è dovunque una creazione borghese e si caratterizza con alcune costanti: divisione dei poteri, indipendenza della magistratura, impero della legge, eguaglianza legale di tutti i cittadini, rispetto della proprietà privata e di quella fondiaria in primo luogo, libertà di commercio e di impresa, costituzioni e parlamenti liberamente eletti.

Questo complesso di elementi è spesso manipolato e tradito, come sempre avviene quando il funzionamento della società reale viene posto a confronto con i suoi modelli di riferimento; non toglie che il ruolo storico della borghesia non cesserà di confrontarsi con quei modelli poiché da essi ha origine la sua funzione di classe generale e la sua identificazione con lo Stato, con la pubblica amministrazione e con la società possidente e produttiva.

La moralità di questa classe dirigente può essere e sarà infatti largamente intaccata da fenomeni di corruzione pubblica, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la stessa autonomia dei giudici saranno spesso fortemente intaccate e ferite. Ma il modello di riferimento nel complesso reggerà e gli strappi ad esso arrecati provocheranno infatti crisi violente, complessi di colpa individuali e collettivi di grande intensità, la nascita di robuste opposizioni all’interno stesso del sistema borghese; infine la stessa nascita del movimento socialista che organizzerà le avanguardie operaie e contadine utilizzando i princìpi e gli istituti che quel modello propone e di cui garantisce a tutti la fruibilità.

Si vuole qui ricordare insomma – rivisitando per accenni un percorso storico ben noto – che la borghesia è nata in virtù d’una motivazione politica e, se vogliamo usare una terminologia marxiana, sovrastrutturale; è lei a creare e gestire lo Stato, è lei a creare e gestire i partiti, è lei a fornire ai parlamenti e alla pubblica amministrazione il personale politico e amministrativo. È lei infine ad incarnare l’establishment, cioè la rappresentanza degli interessi permanenti al più alto livello e con la continuità necessaria ad assicurare gli obiettivi nazionali oltre l’arco temporale della generazione che in quel momento agisce sulla scena collettiva.

Questa borghesia ha di sé un’immagine positiva. L’immagine a sua volta interagisce con i singoli soggetti imponendo doveri e comportamenti adeguati. C’è ipocrisia in tutto questo; c’è repressione; c’è sacralità; ma c’è anche dedizione autentica al servizio pubblico. Ci sono valori egemoni. C’è una cultura organica ad essi.

* * *

La prima crepa si manifesta nel castello ideologico che la borghesia ha costruito in due secoli a propria edificazione e a propria difesa quando tre fatti si verificano pressoché simultaneamente durante il ventennio tra le due guerre. Il primo riguarda il mutamento del capitalismo da sistema degli imprenditori in sistema delle società finanziarie, con il progressivo affermarsi del ruolo dei manager e delle banche rispetto a quello delle famiglie proprietarie. Il secondo, strettamente connesso al primo, vede l’emergere sempre più robusto del profilo monopolistico del capitalismo rispetto alla marginalizzazione del modello della libera concorrenza. Il terzo, derivante a sua volta dai primi due, impone allo Stato una presenza arbitrale attiva per contenere gli effetti distorsivi del sistema e tutelare i concorrenti, le minoranze azionarie e i consumatori.

L’effetto combinato di questi mutamenti – sui quali campeggia la grande depressione degli anni 1929-’35 con tutte le conseguenze che ben conosciamo – è il progressivo distacco della borghesia dal suo ruolo originario di classe generale, depositaria dei valori e degli interessi della collettività, ed il suo ripiegarsi sui propri specifici interessi di classe proprietaria e produttiva, spesso conflittuali con lo Stato e con i valori e gli interessi dei quali è portatrice la contrapposta classe del lavoro dipendente.

L’imponente sindacalizzazione di quest’ultima e, allo stesso tempo, l’emergere dei partiti di massa e di un personale politico professionale che prende in carico la gestione dello Stato, completano l’operazione di distacco della borghesia dallo Stato, dalla politica e dal pubblico servizio. I fascismi accelerano questo fenomeno.

Al termine del processo che si conclude dopo la seconda guerra mondiale non c’è più traccia in Occidente di classe generale. Il nuovo modello concreto è piuttosto quello di una società corporata nella quale la politica in senso stretto, cioè la gestione delle istituzioni, è diventata appannaggio della cosiddetta «nuova classe», cioè dei professionisti della politica, affianco alla quale emergono i «mandarini» dei sindacati, mentre la borghesia si frantuma in una serie di categorie sempre meno omogenee tra loro: la business community, la piccola impresa, il lavoro artigiano ed autonomo, i professionisti, la falange dei pubblici dipendenti e molti altri soggetti sociali.

Questa realtà è visibilissima in tutta l’Europa occidentale ed è altrettanto evidente – sia pure con connotati suoi propri – in Giappone. Negli Usa manca l’elemento di professionalizzazione della politica, ma è proprio in quel paese centro dell’impero occidentale a nascere, sulle rovine della borghesia liberale, la middle class, il nuovo mito e il nuovo re delle società postindustriali.

***

Facciamo un elenco sommario delle condizioni la cui presenza promuove la nascita della middle class. Esse sono:

1) L’esplosione delle attività terziarie rispetto a quelle tradizionali dell’agricoltura e dell’industria.

2) La mobilità accentuata della popolazione attiva.

3) Il gigantismo urbano e i sistemi metropolitani.

4) La finanziarizzazione dell’economia.

5) L’interdipendenza dei mercati e il peso crescente delle aspettative quale elemento dominante dell’attività produttiva.

6) La crescita del potere «mediatico» e in particolar modo di quello televisivo.

7) L’imponenza dei trasferimenti di risorse tra Stato, famiglie, imprese.

8) Il frantumarsi del lavoro dipendente in una quantità di categorie e sotto-categorie con propri interessi distinti e spesso conflittuali.

La vecchia borghesia si sfarina ma un fenomeno analogo si verifica nella mitica e marxiana classe operaia. Tutto si mescola in un gigantesco crogiolo dove le categorie sociali si intrecciano, si compongono e si scompongono senza sosta disputandosi i favori dello Stato, cioè dei partiti che lo gestiscono, offrendo in contropartita il consenso.

Questa è la middle class. Va aggiunto che proprio per questo suo profilo al tempo stesso articolato, omogeneo e precario, essa è priva di un’immagine di sé o quanto meno di un’immagine gratificante di sé. La sua mobilità professionale diventa necessariamente mobilità esistenziale, allontanamento di radici, precarietà di culture. La massificazione è la sua condizione naturale; l’anonimato che ne consegue soffoca e schiaccia ciascuno dei suoi membri.

Su tutti questi vuoti culturali, questa instabilità nell’immobilità, si erge sempre di più il potere mediatico, l’efficacia degli slogan, l’approccio spettacolare ai problemi.

Cambiano di conseguenza le condizioni di agibilità democratica.

* * *

Queste premesse mi sono parse necessarie per chiarire e rievocare alcuni passaggi senza i quali i mutamenti dell’attuale quadro italiano risulterebbero poco comprensibili.

Ma debbo aggiungere che, a complicare il quadro e rafforzare il pessimismo di fondo sui possibili sbocchi della nostra situazione attuale, va tenuto presente che non esistono nel nostro paese né lo Stato né un establishment né istituzioni intermedie radicate nella coscienza civica; non esiste una viva consapevolezza religiosa se non presso limitate minoranze; non esistono – o meglio si sono totalmente debilitate – culture capaci di esprimere valori e interessi permanenti: è scomparsa la cultura contadina, è scomparsa quella operaia ed è scomparsa – l’abbiamo già visto – la cultura borghese.

Tutti gli ancoraggi sono stati rotti. Ad essi si è sostituito un magma ondeggiante, quella che chiamiamo la «gente» poiché altra e più appropriata denominazione non soccorre.

La gente non ha punti di riferimento stabili, non ha convinzioni profonde, non conosce regole perché manca la fonte legittimata ad emetterle e a farle valere; non ha, non ha più, ideologie durevoli alle quali agganciarsi.

La gente è in balia delle mode, del pret-à-porter pubblicitario, dei sondaggi d’opinione che fanno opinione. Come quando i carichi stivati nel fondo d’una nave si trovano per qualche ragione privi di cordami che ne assicurino la stabilità e vengono sballottati dalle onde e lanciati contro le fiancate della stiva col rischio di aprire varchi alle acque nel fasciame già vecchio e corroso: così accade nella psicologia delle nostre masse, anch’essa in balia delle onde, a bordo d’un vascello ansimante e privo d’una rotta percepibile e definita.

La gente avverte il pericolo di questa condizione precaria, ma poiché non è in grado di porvi rimedio, ecco che emerge la nostalgia e il bisogno dell’uomo forte, del pensiero forte, della maniera forte che possano metter fine alla precarietà e ai rischi che ne derivano.

C’è tuttavia – ed è evidentissima – una contraddizione profonda in questa nostalgia e in questo bisogno: poiché se la gente avverte il rischio dell’instabilità, rifiuta tuttavia di uscire dallo stato socialmente infantile in cui si trova. Gli individui che la compongono invocano regole purché siano applicate ad altri ma non a sé. Tutti sono per la legalità purché sia fatta valere anche con mano dura sui terzi; tutti gridano contro l’evasione fiscale altrui purché la propria non sia messa in discussione; tutti si dichiarano entusiasticamente per il mercato libero e concorrenziale purché le proprie posizioni di vantaggio, le proprie nicchie, le proprie rendite restino protette.

Sicché l’uomo forte e il pensiero forte, ancorché invocati da una collettiva predisposizione, non hanno sponde né gruppi sociali e formazioni politiche strutturate sui quali far leva per costruire una egemonia democratica e reversibile.

Di qui, da questo disastrato cantiere sociale e culturale dove non esistono più mattoni ma soltanto detriti, non può spuntare altra figura leaderistica che quella di un Grande Seduttore, di un Grande Persuasore, di un Grande Comunicatore il quale non abbia in realtà nulla da comunicare se non fornire illusioni di sicurezza laddove c’è il massimo dell’insicurezza, illusioni di regole laddove c’è il massimo della caoticità, illusioni di togetherness laddove c’è il massimo di solitudine.

In questa demagogica fiera di illusioni non può mancare l’ultima che è poi quella della partecipazione della gente alle decisioni del leader. Ed essa non può configurarsi in altro modo che non sia quello plebiscitario: il referendum visto non più come ultima istanza popolare per abrogare vincoli non più accettati dal popolo, ma trasformato in istituto plebiscitario da condizionare con la forza dei media e da usare come by-pass costituzionale rispetto alle istituzioni della liberal-democrazia parlamentare.

La nostra attuale situazione si avvia rapidamente verso questi sbocchi né si vedono le forze e le culture in grado di impedire che il processo già cominciato si compia.

Nello stato di marasma in cui versa la società italiana dopo la caduta delle strutture e delle culture a suo tempo costruite dalla borghesia in quanto classe generale e dalla classe operaia in quanto sua antagonista storica, è emersa nel frattempo una forza relativamente nuova, quella cioè della piccola borghesia produttiva e commerciale con l’appoggio di tutta la vasta area del lavoro autonomo che le fa da alone.

Dicevo che il fenomeno è nuovo, almeno per l’Italia. Da noi infatti per piccola borghesia si è inteso finora quel gruppo sociale che deriva dall’impiego in genere e dall’impiego pubblico in particolare. Per ragioni ben note di geografia sociale, questo tipo di piccola borghesia ha avuto a Roma e nel Mezzogiorno il suo epicentro e il suo bacino di reclutamento.

La piccola borghesia impiegatizia non ha mai ricoperto nella storia d’Italia un ruolo politicamente egemone, ma ha esercitato un forte peso condizionante soprattutto sul piano del consenso, del voto di scambio e della clientela. Piccoli favori, sbocchi occupazionali, tutela del reddito, istituti di assistenza: con l’uso in dosi massicce di questi strumenti i governi hanno organizzato e ottenuto l’appoggio della piccola borghesia impiegatizia a detrimento del bilancio e dell’efficienza complessiva del sistema.

Il ruolo degli impiegati ha avuto un’importanza politica particolare durante i governi Depretis e Giolitti, ma ha toccato il suo culmine nel cinquantennio democristiano. Era prevedibile che quel ruolo si sarebbe fortemente ridimensionato con la caduta della Dc e del sistema dei partiti che ad essa facevano corona. Ma è stata soprattutto la crisi economica degli anni Novanta a far retrocedere la borghesia impiegatizia in posizione di coda, essendo venute a mancare le risorse con le quali per tanti anni la sua quota di prelievo dalla ricchezza nazionale era stata alimentata.

È emerso invece per la prima volta in Italia un altro aggregato sociale: quello appunto della piccola borghesia commerciale e industriale; il piccolo commercio, la piccola e media impresa, il lavoro autonomo e tutto il grande pianeta del «terziario» che in gran parte coincide con l’economia sommersa, con il «nordismo», con un liberismo molto spinto e molto corporativo, anche se teoricamente il liberismo dovrebbe essere antinomico rispetto ad ogni forma cli corporativismo.

Questa è dunque l’attuale situazione italiana. Un segmento di classe media si è affacciato per la prima volta e direttamente alla politica e si è «prenotato» alla guida dello Stato, ma si tratta proprio di quel segmento nel quale il cosiddetto senso dello Stato fa maggior difetto e che è portatore di interessi e valori profonda­ mente conflittuali con quell’interesse generale che costituisce il fondamento stesso e la ragione necessaria dello Stato.

Non vorrei estremizzare ma l’analisi dei fatti mi porta a concludere che il nostro sgangheratissimo Stato è ora nelle mani di un ceto sociale che non ne ha soltanto denunciato le inefficienze e gli spaventosi ritardi, ma ha per parte sua robustamente contribuito ad aggravarli e approfittarne.

Situazione certamente non positiva, che rappresenta il più grosso punto interrogativo sull’evoluzione politica, economica e morale dello Stato e del paese.

Credit foto: Francesca Marchi / International Journalism Festival



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