Da un inferno all’altro. A un anno dall’incendio del campo profughi di Moria

L’Europa ha perso l’ennesima occasione per ripensare le sue politiche migratorie, rimpiazzando una prigione con un’altra prigione.

Valerio Nicolosi

“È la fine di Moria, domani conteremo morti e feriti”, questo è stato uno dei primi messaggi arrivati durante l’incendio del campo profughi di Moria, nell’Isola di Lesbo, in Grecia, il più grande d’Europa e per molti aspetti anche simbolo del modello di accoglienza della Fortezza Europa.

Un anno fa le fiamme divampate nel campo lo hanno bruciato completamente, lasciando le 11.000 persone sfollate e senza nulla, neanche il poco che avevano nelle proprie tende. Di morti per fortuna non ce ne sono stati ma le conseguenze sono visibili ancora oggi.

Moria era un campo governativo per richiedenti asilo, costruito al centro dell’Isola di Lesbo e pensato per ospitare circa 3.000 persone ma che nel marzo del 2020 ne ha ospitate oltre 20.000. Era il momento in cui Erdogan decise di far pressione sull’Europa aprendo le frontiere turche e incentivando i profughi presenti nel suo Paese a muoversi verso i confini, sia nei pressi di Kastanies, lungo il fiume Evros, sia verso le spiagge di fronte a Lesbo e Samos.

Per Medici Senza Frontiere era “il peggior campo sulla terra”, per Human Watch Rights “una prigione a cielo aperto”, di sicuro per chi è stato a Moria l’impressione è stata quella di un posto infernale e pieno di vita al tempo stesso: un bagno ogni 160 persone, condizioni di vita pessima, alto tasso di violenze e, caso quasi unico al mondo, tanti tentativi di suicidio e autolesionismo da parte di bambini. Nonostante questo le vie che costeggiavano il muro di cinta brulicavano di piccole baracche autocostruite dove si poteva comprare la verdura o tagliarsi la barba e i capelli.

Anche nei mesi estivi del 2020 le presenze nel campo furono di 20.000 persone, condizione aggravata dalla poca acqua a disposizione e dal forte caldo che in quel punto dell’isola non viene attenuato nemmeno dal vento. La causa fu la volontà del governo di Mitsotakis di spostare le persone arrivate nell’isola e di portare il sistema d’accoglienza al collasso per poi dire che la Grecia non poteva più accogliere i profughi.

Nello stesso periodo le ONG denunciavano che la quasi totalità delle domande d’asilo venivano respinte, anche quelle degli afghani o di chi era stato vittima di tortura. In quei mesi iniziarono anche i rimpatri e i respingimenti in Turchia.

Nei giorni successivi all’incendio le autorità greche invece di evacuare le persone verso Atene e le altre città di terra, hanno lasciato i profughi in strada, in un accampamento di fortuna sulla strada provinciale lungo il mare, chiudendola e rendendola “zona rossa”, dove teoricamente non potevano accedere giornalisti e volontari non autorizzati.

“Cosa abbiamo fatto di male, perché dobbiamo vivere in queste condizioni” chiedeva Suraya, una donna afghana costretta a lavare i vestiti dei figli da un buco di un tubo idraulico di una piccola azienda ormai chiusa. “Scappiamo da una guerra lunga 40 anni, io sono nata in guerra e ho sempre vissuto in guerra, per i miei figli vorrei altro, ma non questo” ci urlava Suraya, parlando ai giornalisti che erano riusciti a passare nella zona rossa attraverso una collina non presidiata dalla polizia greca.

“Siamo qui per esprimere solidarietà alla popolazione greca” disse Charles Michel in visita al campo che stavano costruendo per sostituire Moria, una solidarietà per chi ha la funzione di “Scudo d’Europa” contro i migranti, percepiti come invasori e che ora, proprio in quel nuovo campo, hanno visto ridurre gli spazi di libertà con uscite concordate e settimanali, impossibilità di contatti con l’esterno e condizioni di vita ancora peggiori di Moria, visto che il campo è costruito su di una spianata di terra e le tende sono teli di plastica che con poca pioggia si allagano subito.
Il filo spinato che circonda il campo arriva fin dentro mare, per evitare ogni possibile evasione.

Per l’incendio si è aperto un processo molto contestato dalle organizzazioni umanitarie e che lo scorso giugno ha visto la condanna di 6 persone, due dei quali minorenni, tutte di origine afghana. Un processo più politico che giudiziario, alla ricerca di colpevoli a tutti i costi.
Gli avvocati hanno annunciato il ricorso perché le prove a carico dei condannati sono minime o inesistenti.

A un anno di distanza, quello che è certo è che l’Europa ha perso l’ennesima occasione per ripensare le sue politiche migratorie, perché dopo l’incendio poteva riorganizzare l’accoglienza, redistribuire le persone e pretendere che gli Stati membri si facessero carico delle poche migliaia di persone, invece ha rimpiazzato l’inferno con un altro inferno, una prigione con un’altra prigione, stavolta anche meglio attrezzata.



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