Indiana Jones 5: la vecchiaia al di là del mito

L’ultimo capitolo della serie affronta il tema del declino dell’eroe, il quale va in pensione e abita in un modesto appartamentino. Può un mito finire così?

Flavio De Bernardinis

Indiana Jones e il Quadrante del Destino, capitolo 5, mostra un eroe ormai solo e rassegnato: la moglie è andata via, e l’unico figlio deceduto, presumibilmente in Vietnam. Pur in tarda età, le avventure comunque non lo abbandonano, affiorando dal periodo storico che fa da matrice all’intera saga, ovvero la dittatura nazista, che interessa direttamente tre film su cinque.
Quest’ultimo capitolo è non a caso l’unico a non essere diretto da Steven Spielberg, il quale si ritaglia il ruolo di produttore assieme all’amico e sodale George Lucas. Tutto il film è pervaso da un tono elegiaco sentimentale che il nuovo regista James Mangold, abile tessitore di miti in disarmo, uno per tutti il Silvester Stallone poliziotto grasso e sordo in Copland del 1997, sostiene con convinzione e misura.
La vecchiaia dell’eroe è quindi il tema dominante del film, a cui l’eroe stesso non può sfuggire. Grazie al Quadrante del Destino, il “tesoro” da conquistare come fu per l’Arca dell’Alleanza e il Sacro Graal nei film precedenti, è possibile intercettare i varchi per spiccare il volo e viaggiare nel Tempo: non risulta possibile sfuggire però al viaggio del tempo, la terza età incombente, la vecchiaia che tutti tocca e affligge.

Non solo l’eroe, ma l’America stessa ormai è vecchia e stanca. Siamo nel 1969, subito dopo la missione Apollo 11 e lo sbarco lunare. Manhattan è parata a festa per ricevere i tre astronauti protagonisti, ma il perfido nazista in incognito, un insuperabile Mads Mikelsen, che ha collaborato con la NASA per la progettazione del modulo orbitale, ritiene questa impresa del tutto trascurabile, roba da Guerra Fredda, per vedere chi arriva per primo sulla Luna tra russi e yankee, cose da bambini. Ben altri sono gli obiettivi, le mete da raggiungere. Rispetto alla conquista del Tempo, infatti, quella dello spazio è una missione insignificante. Per questo, occorre impadronirsi del Quadrante del Destino, progettato dal celebre matematico Archimede, nell’antichità splendente di Grecia, che ha il potere di intercettare e pianificare i salti temporali. Il mutamento è notevole. Lo spazio, ossia la “frontiera”, nuova o vecchia, puritana o kennediana, è cosa destituita di significato. È il Tempo adesso l’unica, vera Frontiera.
All’inizio del film, dopo il prologo, in questo 1969 in cui Indiana Jones mostra ormai 70 anni, Harrison Ford, a torso nudo senza trucchi, oltre ogni eroica iconografia, è svegliato dall’assordante musica dei Beatles che proviene dal piano di sotto. Infastidito, scende le scale e bussa alla porta per chiedere più silenzio. Sembra una scena giusto per introdurre il personaggio, invece è già in qualche modo risolutiva. Si affaccia una ragazza che subito gli sorride: l’attrice scelta da Mangold è pressoché identica a Karen Allen da giovane, ossia la partner, e poi moglie, di Indiana Jones sin dal primo film, I predatori dell’arca perduta. Indy sembra non farci caso, e chiede subito del padrone di casa. Anzi, lo chiama a gran voce: Henry! Il padrone di casa, così, porta il suo stesso nome, dato che Indy, all’anagrafe, è registrato come Henry Walton Jones.

Chi trova dunque l’eroe, dietro la porta del piano di sotto? Sé stesso e Marion, ormai giovani e ragazzi degli anni Sessanta, destituiti di ogni tentazione di eroismo o impresa, imbevuti della musica dei Beatles e festeggianti come tutti l’eroico, quello sì, Apollo 11, appena sbarcato sulla Luna.
È la fine del mito, già dopo un quarto d’ora di film. La tentazione di ripristinare in tutti i modi una mitologia si farà sentire sino alla conclusione del film stesso, ma verrà vanificata da una new entry, la nuova partner del protagonista, una ragazza, una sorta di Indiana Jane, che ricondurrà l’eroe alla vita quotidiana e al suo destino di anziano tout-court. Se Indiana Jones può ancora rappresentare il freudiano principio di piacere, l’avventura e il mistero, la partner di adesso, la donna, incarna invece il principio di realtà, ossia la vecchiaia e basta. Sono le donne, non i maschi, le vere custodi del Tempo.
Quando il film, infatti, insiste sui segreti, i misteri e gli enigmi, infiacchisce e cala. Là dove, invece, si consegna alla pura azione, action-movie, mantiene viva l’attenzione per un eroe il quale, per il semplice fatto di agire alla sua età, diventa sempre più umano. Alcune sequenze di azione fanno così ancora sgranare gli occhi, come l’inseguimento in metropolitana tra treno e cavallo, oppure l’iniziale prologo nel 1944, sospeso su un treno nazista lanciato a folle velocità verso Berlino.

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Quando il film, invece, affonda nelle misteriose spire dei magici poteri provenienti dagli abissi dell’antichità, è evidente che questi portenti non potranno mai funzionare sul serio. L’eroe non riuscirà mai a coincidere davvero con l’oggetto magico che sembrerebbe a portata di mano, perché ciò che afferri è anche ciò che sfugge non appena tenti di stringere, ossia il tempo che passa, in breve la vecchiaia.
Spielberg e Lucas, che hanno rivoluzionato il cinema mondiale all’insegna di una morale del giocattolo, che va da Star Wars a Jurassic Park, devono ammettere che il giocattolo può anche (inter)rompersi.
«Il mondo non merita uomini come noi», sostiene il nazista di fronte a uno stremato Indiana Jones, tentando così di giocare ancora una volta la carta dell’aristocrazia dell’eroe, di matrice classico-primitiva. Ma l’eroe ha già visto sé stesso, e Marion, alla porta di un appartamentino newyorchese, felici di ascoltare i Beatles a tutto volume e brindare ai prodi conquistatori dello spazio. Il mito è ormai un mito di massa, e nessuna aristocrazia potrà mai averne la meglio. L’America ha consegnato al mondo il trionfo della cultura di massa, e di ciò resta prigioniera, non potendo fare un passo al di là di un simile trionfo.

Nell’inseguimento, molto bello, tra Indy e i cattivi, proprio all’interno della sfilata che festeggia l’Apollo 11, a cui si affianca un altro corteo, quello dei giovani pacifisti anti Vietnam, è sufficiente che un cattivo spari un colpo di pistola in aria, e tutti i partecipanti terrorizzati si sdraiano all’improvviso sull’asfalto. L’effetto visivo è efficace, perché restano in piedi solo Indiana Jones e il cattivo che ha premuto il grilletto, e paiono affiorare culminanti da una foresta spianata di corpi. L’allegoria è evidente: a questi grandi eventi di massa, la sfilata per l’allunaggio e la manifestazione pacifista, ebbene, basta un colpo così giusto per spaventare, e si sciolgono come neve al sole. Tigri di carta. Restano in piedi solo gli individui, come la cultura della frontiera vuole, quella dei pionieri e il Far West, ma uno è un cattivo che dovrà per forza soccombere, e l’altro è l’eroe ormai a 70 anni, intento infine a leccarsi le ferite.
Il mito, quello filmato da John Ford nella Monument Valley, che Spielberg omaggia nel finale dell’autobiografico The Fabelmans, è ormai perduto e scolorito lungo il tempo che passa. Gli universi paralleli, che Hollywood premia agli oscar e il pubblico al botteghino, non esistono. O se esistono, sono inesorabilmente anacronistici, come l’antica Grecia del Quadrante del Destino. L’unica, vera distopia, qui e ora, è soltanto la vecchiaia.



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