Perché tanta insistenza sull’approccio Stem nella didattica?

Siamo sicuri che un sistema di istruzione che privilegi l’approccio Stem in modo marcato produca una società veramente democratica, in cui ogni cittadino è messo nelle condizioni di accedere a una posizione apicale o quanto meno di possedere le conoscenze necessarie per controllare coloro che in quella posizione sono collocati?

Carlo Scognamiglio

Le prime tracce di una discussione pubblica, nelle società occidentali, sul peso e l’importanza delle discipline di area tecnico-scientifica nei processi educativi vanno ricercate negli anni cruciali della guerra fredda, quando i primi successi nelle missioni spaziali sovietiche parevano suggerire l’urgenza di una revisione dei sistemi educativi del blocco atlantico. Non è infrequente che negli Stati Uniti il dibattito politico accolga periodicamente tra i propri temi di divisione anche la strategia generale per la formazione intellettuale e professionale delle nuove generazioni. Era già accaduto in occasione della crisi del 1929, per riaprirsi trent’anni dopo, in ordine alla necessità di stabilire un primato sui Paesi comunisti.

Tuttavia, la vera messa a fuoco di una pianificazione condivisa in relazione alla valorizzazione delle competenze ingegneristiche e scientifiche è riscontrabile, sempre nel dibattito statunitense, intorno alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, per tradursi poi in vere prese di posizione ufficiali della National Science Foundation, auspicando una maggiore diffusione delle discipline Stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics), inizialmente denominate Smet. In quel caso, tuttavia, il problema non era più riconducibile (o non solo) alle esigenze di una competizione geopolitica, bensì correlato alle trasformazioni del mondo del lavoro. La concretizzazione di una nuova rivoluzione tecnologico-digitale faceva intravedere profondissime trasformazioni nel sistema occupazionale, che avrebbe certamente avuto bisogno di un maggior numero di figure professionali provviste di competenze tecniche e ingegneristiche. Ecco perché nel 2005 la National Academy of Science suggerì in qualche modo il primo piano di finanziamento per le discipline Stem, da realizzarsi nell’arco di un quinquennio, dunque entro il 2010, proponendo l’istituzione di un sistema speciale di borse di studio nell’area, un aumento del numero dei docenti delle relative discipline, e una formazione metodologico-didattica specifica per tali docenti. L’avvio di questo processo trovò poi un convinto sostenitore nel presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che nel 2009 in più occasioni ribadì la necessità economico-sociale di un potenziamento delle competenze scientifiche, soprattutto di tipo applicativo, per il futuro della nazione. Fu proprio il governo Obama, ormai 13 anni fa, a introdurre i primi progetti Stem per le scuole di infanzia, l’avviamento di un coordinamento tra le discipline Stem nelle scuole superiori, e lo stanziamento di fondi speciali per la formazione degli insegnanti.

Tale processo politico è stato costantemente accompagnato da un dibattito pedagogico, negli Stati Uniti tradizionalmente vivo e sempre interessante. Anno dopo anno, quello che apparentemente poteva essere considerato soltanto un acronimo, ha cominciato ad acquisire una sua identità specifica. Le scienze e la matematica, in astratto, possono essere considerate come ambiti di ricerca pura, ma la tecnologia e l’ingegneria hanno evidentemente una dimensione applicativa. L’accostamento in un unico blocco concettuale di queste aree disciplinari è destinato alla costituzione di un approccio interdisciplinare, in cui evidentemente la dimensione applicativa diventa prevalente, ed esige sempre la convergenza di competenze eterogenee, tradizionalmente rafforzate in maniera separata nei diversi campi d’indagine. Non si tratta di un modello transdisciplinare, ma l’ambizione è quella di avviare la costruzione di un approccio interdisciplinare. Al di là della natura un po’ leziosa che hanno sempre queste sfumature di significato, la sostanza del discorso va cercata nel proposito di un cambio di prospettiva: l’approccio Stem non aspirerebbe a diventare una replicazione, a fini di valorizzazione, di quattro diverse discipline, cui si chiederebbe di dialogare per costruire insieme delle attività didattiche, in cui ciascuno porta il proprio contributo. L’idea di base della strategia Stem consiste invece nell’introduzione di un nuovo modello didattico (neanche troppo innovativo, per dirla tutta), potenzialmente alternativo al precedente, in cui – lavorando su problemi – si è costretti a contaminare, entro la definizione di nuove competenze, quelle che precedentemente erano abilità risolutive interne a ciascuna area disciplinare. In parte, si potrebbe intravedere in questa idea – se dominante in un curricolo – il tramonto delle scienze pure, a vantaggio di quelle applicate. Tuttavia la concretezza dell’azione didattica spesso lascia parte significativa di tali ipotesi trasformative soltanto sulla carta, facendo valere le ragioni della realtà sulla speculazione metodologica, troppo spesso elaborata da gruppi di lavoro ormai estraniatisi del tutto dalla dinamica viva del rapporto educativo.

In Europa la situazione appare naturalmente più disomogenea, e si fa più fatica a individuare una strategia univoca tra i vari Paesi. Ciò deriva sicuramente – in prima istanza – da una maggiore tradizione e un maggiore radicamento culturale degli insegnamenti strettamente disciplinari, soprattutto nella scuola secondaria. Non sono poi mancati, nella discussione continentale, dubbi e perplessità derivate dalla mancanza di evidenze scientifiche degli effettivi vantaggi di un’accelerazione sull’approccio Stem. Tuttavia la discussione in sede comunitaria esiste, come testimonia in modo assai eloquente un interessante rapporto del 2015, in cui viene stimato un prossimo pensionamento di lavoratori nell’area Stem, con un’apertura di circa 7 milioni di opportunità entro il 2025. L’aumento dei posti era stato previsto prevalentemente nei vari servizi professionali di tipo ingegneristico, e nell’informatica, mentre non veniva stimata «una crescita delle possibilità di impiego nel settore farmaceutico». Cinque anni dopo è arrivato il Covid-19, e ha parzialmente smentito tale previsione. Il che è ovvio, tutto può succedere, ma dovrebbe farci riflettere sulla nostra insistenza a riorganizzare il sistema formativo sulla base di un mondo del lavoro che, quando i ragazzi e le ragazze saranno finalmente pronti a confrontarsi con la vita autonoma, sarà completamente diverso da quel che aveva ispirato le pianificazioni didattiche scelte per loro.

Ma che tipo di posizioni professionali si prospettano per gli studenti con qualifiche scientifiche? Questo è un punto interessante. Secondo lo studio del parlamento europeo, «quasi la metà degli impieghi di area Stem richiedono qualifiche di medio livello, e ci si aspetta un mantenimento di tale trend». Questa affermazione fa il paio con una successiva digressione interna al medesimo report, riguardo le ragioni per le quali le discipline scientifiche appaiono meno attrattive per molti studenti: «In alcune aziende a indirizzo tecnologico, nelle quali l’ambiente dovrebbe essere favorevole, una formazione da ingegnere o scienziato è lontana dall’offrire la migliore possibilità di carriera per raggiungere una posizione di vertice, come è dimostrato dalla percentuale relativamente scarsa di scienziati nella posizione di manager».

Qui si lambisce una questione delicata. Guardiamo all’Italia e al suo sistema politico-imprenditoriale. Quasi tutte le posizioni apicali, di governo o di gestione imprenditoriale, sono occupate da profili professionali con formazione giuridica o economica. Poche le eccezioni, come il ministro Cingolani, laureato in Fisica, o il presidente della Camera, Roberto Fico, laureato in Scienze della comunicazione. Vale lo stesso per i vertici aziendali, dove non sono affatto rari i top manager provenienti da studi filosofici o dalle scienze sociali.

Secondo Antonio Gramsci, un sistema sociale si può definire veramente democratico solo se qualunque cittadino è messo nelle condizioni (non solo economiche, ma anche culturali) di accedere a una posizione apicale, o quanto meno di possedere le competenze e le conoscenze necessarie per controllare coloro che in quella posizione sono collocati. La domanda è dunque legittima: un sistema di istruzione che privilegi l’approccio Stem in modo troppo marcato, asseconderebbe questa aspettativa democratica, o inclinerebbe verso la costruzione di una forza lavoro intermedia, prevalentemente applicativa, capace di sostenere i ritmi di una rapida digitalizzazione della società della conoscenza? Naturalmente non tutti i cittadini potranno dedicare la propria vita ad amministrare grandi aziende o a organizzare la cosa pubblica. Tuttavia ciascuno di noi dovrebbe possedere le competenze necessarie per un’adeguata lettura della società e di quei processi decisionali che ne segnano i destini. Questo è dunque un punto pedagogico importante, perché costringe a una riflessione più profonda sulle finalità del sistema scolastico, e non solo sulla sua funzionalità rispetto alle aspettative economico-sociali che – ahinoi! – rischiano di essere sistematicamente stravolte da eventi pandemici o da infausti conflitti militari.



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